Locandina: American Sniper

Locandina: American Sniper

Regia: Clint Eastwood.
Soggetto: dall’omonima autobiografia di Chris Kyle (scritta con Scott McEwen e Jim DeFelice).
Sceneggiatura: Jason Hall.
Fotografia: Tom Stern.
Montaggio: Joel Cox, Gary Roach.
Scenografia: James J. Murakami, Charisse Cardena.
Costumi: Deborah Hopper
Interpreti principali: Bradley Cooper (Chris Kyle), Sienna Miller (Tanya Renae Kyle, moglie di Chris)Sammy Sheik (Mustafa, il cecchino iracheno).
Paese: USA 2015.

Chris Kyle, uno dei più letali cecchini dei Navy Seal (reparto speciale d’assalto dell’esercito americano, operativo anche nella cattura di Bin Laden) è conosciuto e rispettato dai compagni (lo chiamano Leggenda) e temuto dai nemici (che hanno messo una taglia in denaro sulla sua testa). Negli Stati Uniti è considerato un eroe, per aver ucciso, nel corso di quattro diverse missioni in Irak e in Afghanistan, 160 nemici. Fin dall’età di sette anni il padre lo porta con sé a caccia di cervi. Gli insegna che il mondo è diviso in tre categorie: i lupi (il male), le pecore (coloro che non sanno opporsi al male e devono essere protetti) e i cani pastore, che sono dalla parte del bene e ne sono i difensori. In età militare (anche se non esiste più la leva obbligatoria, negli Stati Uniti, come ai tempi della guerra in Vietnam) Chris fa domanda per entrare nel corpo speciale dei Navy Seal. L’addestramento è molto duro, ma i cani pastore devono allenarsi a resistere nelle situazioni più difficili. Durante le operazioni militari diventa un mito. Si sposa ed ha due figli. Non riesce a ritornare nella vita civile. Ha disturbi di sonno, reazioni esagerate in situazioni normali, risente della sindrome da stress post traumatico, comincia a non essere più completamente sicuro del significato della sua vita. In Irak uccide un suo omologo, il cecchino iracheno (o forse siriano) Mustafà. Una volta eliminato Mustafà Chris torna definitivamente a casa, portando però dentro di sé la guerra. Scrive la sua autobiografia. Viene ucciso da un commilitone che voleva aiutare perché era diventato un disadattato in seguito a traumi subiti in guerra. Riceve i funerali di Stato, è un eroe di guerra. Una selva di bandiere nazionali accompagna il suo ultimo viaggio.

Un effetto speciale materializzato in un rallenti percepito come lungo nel tempo (una pallottola che deve percorrere due chilometri prima di colpire), un proiettile (materia dell’inconscio che emerge nell’immagine di un oggetto, come il rimosso di se stesso) che andrà ad uccidere il cecchino arabo alter ego e antagonista di Kyle (l’american sniper del titolo): questa è la sequenza centrale che annulla i contrari (i due cecchini), eliminando un elemento della dialettica, la sintesi non è più possibile e la tesi infinita della guerra giusta riceverà una sanzione di sceneggiatura ineccepibile (la morte dell’autore del “male” ).

Tutta la sequenza è come una refrattaria anticipazione della morte del protagonista, ucciso da un commilitone, un marine che aveva combattuto in Irak, caduto in depressione e che Kyle si era offerto di aiutare, una volta che entrambi, in tempi diversi, avevano terminato le loro missioni. E’ la violenza che mangia se stessa, come fenomeno che prolunga la violenza bellica, nel momento che questa diventa un automatismo patologico o un comportamento automatico che travalica tutti i passaggi regolati dal vivere “civile”.

Da un punto di vista di analisi politica, se ci occupiamo della psiche politico-nazionale, stimolata da un’industria del consenso senza pari, il cecchino Chris Kyle (interpretato con triste e leggera maestria dall’attore Bradley Cooper) è un prodotto sociale dell’America più profonda (si potrebbe dire di quella repubblicana, quando non è espressione di una disgustosa rozzezza). Sceglie la vita militare per appartenenza nazionale e patriottica (l’America ha sempre un buon motivo per fare la guerra e, conseguentemente, ha sempre bisogno di soldati) e per inerzia familiare (è il padre che lo iscrive nei cani da pastore, la terza via che esclude quella moralmente inaccettabile dei lupi e include quella delle pecore da proteggere).

Nella vicenda militare di Kyle non emerge nessuna domanda sulle motivazioni della guerra in Irak, su quelli che siano i reali motivi di una presenza americana così lontana da confini come se “…nostra patria è il mondo intero”. I campi sono soltanto due: il bene e il male, e Kyle non ha dubbi di stare dalla parte del bene. E non può che essere così, altrimenti tutto “il significato della vita” viene meno, come ha ben esemplificato Francis Ford Coppola in “Apocalypse Now”, per bocca del colonnello Kurtz (interpretato da Marlon Brando): “…Questi non erano mostri, erano uomini, quadri addestrati. Uomini che combattevano col cuore, che fanno figli che sono pieni d’amore, ma che avevano la forza, la forza di far questo (…) Bisogna avere uomini con un senso morale e che, allo stesso tempo, siano capaci di utilizzare i loro primordiali istinti di uccidere senza emozioni, senza passione, senza discernimento. Perché è il voler giudicare che ci sconfigge…”. (1)

Il giudicare, dall’opinione pubblica media e conformista degli Stati Uniti, è sempre stato visto come un atto di sabotaggio. Numerose sono le opinioni che la guerra in Vietnam sia stata persa non per la sconfitta militare e politica, ma ad opera del nemico interno, delle manifestazioni di dissenso espresse dai veterani, dalle Università, dagli intellettuali (2).

Soltanto la scena del colloquio con lo psichiatra accenna ad un dubbio fondamentale, ma è resa filmicamente con una procedura molto sofisticata. Kyle afferma: “andrò al creatore sapendo che ho fatto la cosa giusta”, ma questo contenuto verbale è disconfermato simultaneamente da un lampo di incertezza che è espresso con un atteggiamento attoriale molto fine dall’attore Bradley Cooper (un sollevare di palpebre, uno smarrimento di sguardo).

In American Sniper il “male” (eccetto il cecchino omologo, iracheno, Mustafà) è costellata di figure “moralmente” inaccettabili: madri che affidano le bombe ai propri figli, terroristi che minacciano i bambini con un trapano, una popolazione civile vista come un insieme di zombie del terrore.

Il comportamento del protagonista ha notevoli aspetti di serialità e compulsività: dovunque e sempre sta nella via di mezzo dei “protettori”, ereditata dall’educazione paterna, anche quando non c’è da proteggere nulla. Nelle scene irachene il protagonista sembra agire per stimoli a bassa intensità, quasi autistici o, meglio, schizofrenici, concentrati febbrilmente sul mirino, mentre, nel bel mezzo di una battaglia, si mette in contatto telefonico con la moglie.

La guerra domina tutto, come annullamento di evoluzioni possibili, e compare, al contrario, come terreno di coltura di involuzioni dementi (lo stress post traumatico del protagonista, anche se non molto approfondito, e la pulsione omicida del commilitone di Kyle). (3)

Come se, entrare nella stanza violenta della psiche bellica, fosse un’offesa alla parte empatica, alla parte che ci fa essere attaccati alle donne e agli uomini della nostra specie, per farli crescere o per conviverci, in solidarietà. E questo non tanto per banalizzare Rousseau, quanto per dare profonda attenzione alle tendenze attuali (mi riferisco alla teoria dell’attaccamento, quando parla del fenomeno nel mondo adulto, ai neuroni specchio e a studi similari).

Sembra che uscire dalla psiche empatica e diventare giustiziere non possa essere sostenuto dalla retorica patriottarda e dalla propaganda per il consenso. Kyle non trova più se stesso in tempo di pace e il suo assassino (Eddie Ray Routh, nel film come nella realtà) ha perso la sua umanità nell’inferno della violenza seriale della guerra (che diventa comportamento coatto).

La “salvezza” potrebbe consistere nel riconoscere la comparsa di un altro violento dentro di sé, accoglierlo come un “perturbante” col quale dare vita ad una narrazione di sé articolata, plurale, non identitaria, nel senso di un’identità incatenata alla costrizione della nascita e della pedagogia sociale o familiare, ma al riconoscimento che possiamo anche essere altri, se riusciamo poi a ritornare in noi stessi e che non ci possiamo conoscere se non ci guardiamo anche nell’altro che ci può spaventare. Rimbaud l’aveva scoperto, quando scrisse “Moi je suis un autre”. Chris Kyle non ha avuto il tempo di riconoscersi nell’altro, perché l’altro lo ha ucciso.

“American Sniper”, come altri film di Clint Eastwood, ha diviso la critica, non tanto nella qualità filmica dell’opera (le scene di battaglia sono da inserire nelle migliori inquadrature, per immagini e dinamica, dei film di guerra), quanto per il suo dubbio messaggio. Kyle è stato descritto come un eroe? L’America è vista dalla parte del bene? E domande simili.

Io penso che Eastwood abbia girato un film sugli aspetti distruttivi e degenerativi della guerra, prendendo ad esempio Kyle come un uomo che percorre interamente il suo viaggio nel “Cuore di Tenebra”, da campione di giustizia a vittima di guerra. Ma non è possibile imputare a Clint Easwood di non essere americano come John Ford, Fred Zinneman, Robert Aldrich, Samuel Fuller.

Sono dell’opinione che, nel campo cinematografico, tutti questi registi siano da paeagonare con i grandi scrittori borghesi dell’Ottocento che non guardavano la realtà dal punto di vista delle classi sfruttate e oppresse, ma che usavano uno sguardo talmente libero da farci vedere la realtà come era. Anche Clint è così libero da farci vedere la violenza della guerra com’è e quali conseguenze ha. Sta a noi capire. (4)

Giovanni Lancellotti, psicologo, psicoterapeuta, socio ordinario dell’ACP (Associazione Europea della Psicoterapia Centrata sul Cliente e dell’Approccio Centrato sulla Persona “Carl Rogers”), co-direttore della rivista “Script riflessioni, i campi della soggettività”, presidente di SCRIPT Centro Psicologia Umanistica di Pisa.
giovannilance@alice.it

Note

  1. La sceneggiatura di Apocalypse Now si può leggere, in inglese, nel sito www.cinefile.biz/sceneggiature. La parte riprodotta è citata e tradotta, ad opera di Mauro Caron in “American Sniper”, Perché NO (rivista Segnocinema, n. 192, marzo aprile 2015, pag.47).
  2. Un esempio per tutti: la “marcia della morte” del 14 novembre 1969, a Washington, aperta dai veterani della guerra, invalidi, vedove.
  3. Diverse caratteristiche, ma anche analogie, presenta un altro film che ha per protagonisti due cecchini, uno russo e uno tedesco, durante l’assedio di Stalingrado. Si tratta di “Il nemico alle porte” (2001) di Jean-Jacques Annaud. Il film tratta delle gesta del cecchino russo Vassili Zaitsev (interpretato da Judi Law) e dello sniper tedesco, il maggiore Erwin Koenig (interpretato da Ed Harris). Non ci sono prove storiche che questo duello ci sia stato, mentre è autentica la vicenda di Zaitsev (anche se nel film è notevolmente romanzata). La sceneggiatura mette molto in risalto “i disastri della guerra”, anche se il punto di vista propende chiaramente dalla parte russa.
  4. Per chi desiderasse approfondire la conoscenza del film, segnalo i seguenti riferimenti:

“Maschio in età militare” di Anton Giulio Mancino in rivista “Cineforum”, n. 541, Gennaio-Febbraio 2015.

“American Sniper”, con due saggi di Mario Molinari e Mauro Caron in rivista “Segnocinema” n.192, Marzo-Aprile 2015.

“Nato per uccidere” di Enrico Deaglio e Riccardo Staglianò in rivista “Il venerdì di Repubblica”, 16 dicembre 2014.

“Do my job, elimino i cattivi”, vari articoli a firma Silvana Silvestri, Luca Celada, Alessandro Cappabianca e Bruno Roberti in inserto culturale “Alias” (dal quotidiano Il Manifesto), 21 febbraio 2015.

Il cecchino che divide l’America”, due articoli di Vittorio Zucconi e Silvia Bizio in quotidiano “La Repubblica”, 30 gennaio 2015.

Sul processo a Eddie Ray Routh, condannato all’ergastolo per la uccisione di Chris Kyle:

“Il dolore della guerra. Processo all’America” di Giuklia DAgnolo Vallan in quotidiano “La Repubblica”, 18 febbraio 20915.

“Texas, ultimo atto di ‘American Sniper’ “ di Francesco Semprini in quotidiano “La Stampa” 15 febbraio 2015.

“A giudizio il killer di American Sniper: ‘Condizionati dal film’ “ , a firma G.O., in quotidiano “Corriere della Sera”, 12 febbraio 2015.

Per notizie sul cecchino iracheno, che nel film è chiamato Mustafà:

“L’altro sniper: Juba, mito sunnita che minacciava il presidente Bush” di Valerio Cattano, in quotidiano “Il fatto quotidiano”, 7 febbraio 2015.

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