Letto da Giovanni Lancellotti

Il punto di partenza del libro di Orioli è pirandelliano: in parafrasi, può essere sintetizzato, come funzione di una definizione identitaria, (“…Siamo Uno, qualche volta Nessuno, sicuramente Centomila..”), ai fini della costituzione di una poliedricità personologica che è di per sé fervida di libertà interiore e di prevenzione della difesa violenta dell’identità, a favore di un campo “pacifico” della presa di coscienza dei multiformi e contraddittori aspetti della personalità di ogni essere umano [1].
Il Sé, l’entità psichica più profonda, può essere vista come l’insieme di molti Io, che si susseguono nel tempo storico e vengono a formare la memoria dell’individuo, la sua reale appartenenza al mondo nel suo ciclo di vita.
In ambito teatrale il locus della psiche si colloca nel corpo dell’attore che la esprime e, mentre nel corso dell’evoluzione personale i “personaggi” che interpretiamo sono meccanismi di difesa in funzione adattativa (soprattutto quello che gli altri si aspettano da noi) [2], l’attore, nello spazio scenico, ha la possibilità di uscire dallo stereotipo, che imprigiona ogni soggetto vivente in società (che per Wilhem Reich si identifica addirittura in una corazza caratteriale corporea, formata da irrigidimenti che reificano l’individuo, lo fanno quasi diventare materia morta insieme a materia vivente) [3] e di rappresentare, per primo e soprattutto a se stesso, l’accoppiamento, con potenza unificante, dell’attore e del personaggio, in reciproca influenza. Si attua così la rottura della staticità adattativa delle maschere ed hanno vita propria, anche se nel contesto del controllo delle modalità attoriali di ricerca, le parti dell’Io mortificate dall’evoluzione della vita di relazione. “Immaginiamo l’uomo attore come un prototipo formato da almeno due ingranaggi: l’uno è l’ingranaggio suo proprio e il secondo è l’ingranaggio del personaggio che recita” [4]. E ancora: “Un bravo attore è colui che possiede una forma di funzionamento psichico che permette agli ingranaggi di essere in perfetta sintonia” [5]. Addirittura, in un gioco teatrale della psiche, si può ipotizzare una diade attore-personaggio che riecheggia la coppia primaria madre-bambino, di cui l’attore è la madre, l’identità sostenitrice, e il bambino è l’attore, l’insieme delle identità giocate per esplorare la molteplicità del fenomeno identità. Il “tertium”, il padre, potrebbe essere identificato nello spazio scenico, che separa l’attore dal personaggio e ne costituisce la guida rappresentativa.
Così, come in una scena carnevalesca ridotta alla modernità, ma echeggiante epoche medievali, l’attore investe il personaggio di immagini parentali che si connettono ad alternanze bisessuali basiche (gli junghiani anima e animus).

Nel teatro d’improvvisazione nasce una nuova gestalt in quanto l’attore, attraverso una lieve dissociazione, una piccola follia, si appropria del carattere psicologico di un altro da sé, arricchendo così gli spazi dell’Io e sperimentando più in profondità il Sé (che è la valenza terapeutica basilare di tutti gli approcci alla disciplina della cura psichica). Vive così, sulla scena teatrale e nella scena interiore, quel “politeismo dei demoni interiori” (di cui parla Jungh) che forma la personalità individuale.
La scena mitica politeistica è più adatta a concepire una personalità poliedrica che annulla come illusione la costanza dei tratti di personalità. La fedeltà assoluta al proprio senso di identità consiste nella depersonalizzazione dell’individuo e nel concepire l’identità unificante nel corpo dell’attore, che libera le possibilità interpretative e rompe la prigione dell’identità personale, di per sé ostacolo alla manifestazione del Sé profondo.

Il desiderio costante di essere “sé stesso” evoca figure dotate di armatura caratteriale, come difesa e oscuramento delle molteplicità identitarie.
Sulla scia di questa “rottura” il personaggio si costituisce come processo di identificazione tra la persona adulta e parti del proprio Sé, accogliendo la costituzione della natura umana, caratterizzata da incertezza, estraneità, insicurezza. In questo contesto di costrutti di indagine e di fondamento teorico le strutture di personalità e le loro descrizioni vanno intese come invenzioni intellettuali, narrazioni della psiche, non accoglibili in una staticità estremamente limitante e mistificante.
L’attore, all’interno di questo orizzonte culturale, si costituisce come prototipo dell’uomo libero che abbandona la maschera imposta da una regia sociale, perde segmenti statici e difensivi di identità e crea nuovi personaggi.
In sintonia con quanto esposto, il processo dinamico di sviluppo della persona attraverso il sistema del teatro si può declinare in questi passaggi:

  • frantumare la maschera fissa e stereotipata,
  • liberare il linguaggio del corpo, il suono della voce, il contatto autentico con sé, gli altri e la natura,
  • improvvisare più personaggi con spontaneità e creatività,
  • interpretare la nuova identità sapendo di essere molteplici personaggi [6].

L’attore è l’uomo che cambia spesso, che mette in atto un lavoro quotidiano di investigazione su se stesso, che entra ed esce dai propri personaggi per sperimentare nuovi io, perdere e poi riprendere la propria identità.

Sotto questo aspetto il teatro non ha altre conclusioni che quella aperta di ricerca e ci rimanda, quasi in un percorso naturale, al teatro di Grotowski, alla fisicità della scena di Antonin Artaud, al teatro balinese di puro gesto, inserito in un sistema complesso di controllo e di abbandono, di sistematicità e di improvvisazione. Altri fonti di questa ispirazione teatrale sono il teatro russo dell’avanguardia novecentesca (Mejerchol’d, Ejsenstein, Stanislavskij) [7] e alcuni autori contemporanei come Ronconi, Brook, Bacci (col Centro di Sperimentazione Teatrale di Pontedera), Eugenio Barba (con l’Odin Theatret) [8].
E, in particolare, Grotowski, quando ipotizza un teatro povero, la cui scena è l’attore stesso, col suo corpo esercitato: “la recitazione avviene nel corpo dell’attore, che diventa il tempio intramontabile del fatto teatrale” [9].
Per la funzione del regista nei confronti dell’attore, ci viene in aiuto la definizione stanislavskijana stessa del direttore teatrale come “pedagogo”, quasi come un terapeuta nei confronti del paziente. Il ruolo del regista è di educatore nei confronti dell’attore, di facilitatore di quanto l’attore tiene potenzialmente dentro di sé. Nasce il teatro del vivere, opposto a quello del rappresentare: l’attore vive nella sua interiorità il suo personaggio, come Flaubert che si identifica impersonandosi in Madame Bovary.
L’attore si mimetizza nel personaggio, ma, allo stesso tempo, lo fa vivere con sonorità sintoniche interiori. Con questi presupposti la tecnica è un “dopo” o un elemento che “accompagna”, non un apriori fondante.

Grotowski porta agli estremi limiti queste scoperte, costruendo un teatro completamente centrato sull’attore che fa della propria iniziazione teatrale un percorso di esistenza (l’attore santo, che ipotizza il carattere trascendente della sperimentazione), irripetibile e non razionalizzabile, fatto di rappresentazioni che usano un linguaggio-catena di azioni, in riferimento alla totalità dell’essere, e non soltanto all’intelletto.
Il fatto teatrale viene costruito su una catarsi controllata dell’attore [10].
Gli elementi fondamentali del training teatrale grotowskiano sono:

  • la padronanza e la memorizzazione di centinaia di segni gestuali, corporei e vocali,
  • l’apprendimento di tecniche corporee di base, in modo che i segni possano essere eseguiti senza resistenza,
  • il lavoro acrobatico per liberare il corpo dalle naturali inibizioni dovute allo spazio e alla gravità [11].

Ogni azione teatrale si costruisce in sintonia con la natura del corpo e sul corpo di un attore che, attraverso il training formativo arriva all’atto creativo, chiamato anche da Grotowski gesto totale, che si costruisce sulla coincidenza temporale fra impulso interiore e reazione esteriore, dando vita ad una unità tra pensiero e azione, che si realizza appunto nella recitazione-non recitazione (taoistamente definita “non azione”) dell’attore. Compito dell’attore, pedagogicamente seguito dal regista, è di liberarsi dai propri blocchi e ricomporre una sorta di unità precartesiana fra mente e corpo. Disciplina preparatoria e spontaneità vengono a fondersi. Il massimo della spontaneità viene a verificarsi quando una profonda disciplina ha eliminato le maschere difensive.
Formazione teatrale e terapia vengono a fondersi, nel senso che, secondo questo processo, non esiste attore che non abbia profondamente esplorato se stesso, in un percorso di cura della propria nevrosi, in modo che non venga proiettata sul pubblico, ma superata attraverso questo travaglio interiore.
Il processo costruttivo della ascesi conoscitiva dell’attore, sempre secondo Grotowski, avviene non attraverso astratte conoscenze intellettuali, ma nell’ambito di una attività chiamata livello pre-espressivo, cioè un momento in cui l’attore costruisce la propria “ribalta intrinseca” libero da obblighi testuali o da imposizioni esterne di un regista tradizionale.
I passaggi di questo livello pre-espressivo sono:

  • l’alterazione dell’equilibrio,
  • la dinamica delle opposizioni,
  • l’uso di una coerenza incoerente.

Il primo aspetto riguarda la possibilità corporea di raggiungere un equilibrio stabile, molto lontano dall’equilibrio corporeo che noi manteniamo nella quotidianità, fatto di movimenti e gesti che tendono a ricomporre continuamente un sostanziale disequilibrio.
Si tratta di una abilità che si ritrova in alcuni teatri orientali, come quello balinese (in cui gli attori tengono sollevate le punte dei piedi e inclinano la mediana del corpo, sollevando anche le spalle, in tal modo riducono l’area della base di appoggio, portando il baricentro ai margini di tale area, “aumentando” così la propria altezza). Per questo scopo non esistono indicazioni generali, la postura è demandata soprattutto ad un ricerca individuale dell’attore.

La dinamica delle opposizioni consiste nel produrre movimenti costruiti sul loro opposto, caratterizzati da contrasti fra accelerazioni e rallentamenti, da repentini cambiamenti di direzione, da alternarsi di toni acuti o di toni bassi nella voce.
La coerenza incoerente è un po’ la sintesi dei primi due passaggi: le prime due acquisizioni, di per sé incoerenti, devono essere mantenute nella loro coerente incoerenza, in modo che la visione unitaria della rappresentazione dell’attore risieda nell’azione strutturata dalla coincidenza di equilibri fuori equilibrio e di opposizioni che formano l’azione in sé.

Come conseguenza logica si può dedurre che il territorio privilegiato di rappresentazione di un attore così concepito sia l’inconscio, una scena interiore che l’attore non conosce se non attraverso l’atto della rappresentazione. Questo percorso non è spontaneo nel senso naif della parola, ma si conquista con una profonda disciplina attoriale, con un lavoro straordinario sul corpo, teso ad estraniare l’attore dalle dinamiche di movimento della quotidianità e a stabilire situazioni corporee libere, sulle quali brandelli d’inconscio danno vita a ciò che l’attore mostra di sé.

Come si può facilmente evincere da quanto è stato scritto in precedenza, ci troviamo nell’ambito disciplinare dell’antropologia teatrale, cioè di quella materia che studia gli specifici comportamenti umani nel contenitore del fenomeno teatro.
Il primo passo all’interno di questo paradigma consiste nel risalire al teatro delle origini e, più propriamente, ai fenomeni rituali.
Il teatro, come forma rappresentativa legata ad un’azione (al drama), affonda le sue radici più remote nei gruppi umani preistorici e nei movimenti d’ombra e di danza nati intorno al fuoco. Inizia con un misto di religione e di rito inteso alla propiziazione del divino per la sopravvivenza, all’identificazione del gruppo col fenomeno della temporalità, a cerimonie che fondano e rafforzano la coesione del gruppo, al fine del mantenimento e della prosecuzione dell’esistenza.
I riti sono soprattutto centrati sul passaggio e sull’iniziazione di un membro giovane che raggiunge l’età adulta attraverso comportamenti isolati dalla vita quotidiana che sanciscono un diverso ruolo dell’individuo e una sua piena identificazione con la comunità di appartenenza e nella quale è cresciuto.
Il dato religioso è basilare in questi riti, in quanto sono soprattutto il rapporto con la divinità e il legame con gli antenati gli elementi di contenuto fondamentali.
Attraverso le forme del rito l’individuo e il gruppo escono da loro stessi, contattano la divinità e ritornano cambiati alla vita terrestre e materiale.
I gesti codificati, le danze tradizionali, i canti e le musiche ataviche sono la componente nota, passando attraverso la quale si entra in contatto con la componente ignota e trascendente, che può certo essere una divinità inventata nel corso della storia o la parte trascendente dell’individuo che lo fa avvicinare alla comunità di appartenenza.
Per la via del corpo individuale il rito avvicina allo spirito del Sé collettivo.
I riti haitiani voudu sono la memoria storica di queste forme antiche di teatro delle origini.
Per la via della ritualità libera il protagonista del voudu si abbandona, attraverso una struttura di gesti codificata dalla tradizione, al passaggio della divinità dentro di sé (cioè all’emersione delle pulsioni legate all’inconscio). La trance non è alienazione, perché è controllata dallo stregone, che è elemento di legame permanente tra la divinità e gli aspetti terrestri. [12]

Tutto questo, trasportato nel teatro contemporaneo, è stato con estrema precisione sintetizzato da Grotowski: “Il rituale è l’azione giunta a forma compiuta, dove i suoi elementi sono eseguiti perfettamente dagli «attuanti» e la loro successione all’interno del rituale è riconosciuta e rispettata. Il rituale è ciò che abbia una forma a livello dell’arte. Il rituale è ciò che è eseguito per conoscere l’ignoto”. [13]

Il passaggio attraverso una percezione “educata” ci può far avvicinare a stati di acquisizione di coscienza propri dell’attore che lavora su se stesso per scoprire vie teatrali fatte di un connubio indissolubile fra attore e personaggio, che è funzione di una reale trasmissione al pubblico di quanto avviene sulla scena, non più intesa come luogo di visione, ma come luogo di partecipazione, in cui lo spettatore è chiamato a seguire il percorso dell’attore sul personaggio e non a vedere passivamente ciò che altri (gli attori) hanno fatto e che, narcisisticamente, “offrono” al pubblico, per conservarlo essenzialmente per sé.

La percezione, in questo percorso di formazione, è un fatto eminentemente soggettivo ed è legato ai sensi. Possiamo percepire ciò che è inanimato, nella sua essenza di inanimato, e nei suoi particolari: forma, colore, peso, trasparenza, lucentezza, opacità, ecc… Non possiamo però percepire la fondamentale e vera essenza di un essere animato, vegetale o animale, perché la sua essenza vitale sfugge, per sua natura, ad una reificazione (se ne possono cogliere aspetti particolari, “accidenti”, ma non l’essenza) e il pensiero non è in sé e per sé utile a ciò, in quanto media attraverso acquisizioni di carattere culturale, che tendono a deformare il nostro costrutto di pensiero sugli altri “animati”.
Perché la percezione sia depurata da difficoltà occorre un percorso di “libertà” percettiva.
La materia deve subire un processo di spiritualizzazione, soltanto attraverso il quale ne è possibile la percezione essenziale. Si tratta naturalmente di un processo di avvicinamento a tutto questo, condotto con criteri sperimentali, non certo la diffusione una sensiblerie fumosa e vuota. Le tecniche da seguire (nel senso di operazioni particolarmente adatte allo scopo) possono essere le seguenti:

  • concentrare l’attenzione percettiva su oggetti naturali, come occasione per ristabilire la percezione originaria, che usa il pensiero in funzione di semplice oggetto [14],
  • provare il movimento cosciente del corpo, la percezione del peso e dell’azione nello spazio, per ricreare la ritualità originaria. Il corpo diviene così lo spazio naturale, il tempio del rito,
  • educarsi alla concentrazione meditativa per agire sul sentire e sul volere. Esercizi yoga, canto di mantra, training autogeno, meditazione che tenda a far vivere nell’anima un “pensiero puro di Luce”, non mediante analisi dialettica, ma mediante una sottile percezione eterea. [15]

Per vivere in una dimensione completa tutto questo è necessario seguire percorsi di esperienza, e quindi di autoconoscenza, immersi nella natura, elemento che contiene in potenza tutte le possibilità di “allargare l’area della coscienza” [16].

Sul fronte più propriamente terapeutico, collegato alla teatralità e alla drammatizzazione, esistono riferimenti generali, i cui paradigmi nascono in altri contesti, ma che possono convergere sulla “scena terapeutica”, altri molto contigui al mezzo teatrale ed altri ancora specifici.
Freud e la sua teoria pulsionale rimangono ancora come elementi basilari di un’indagine psichica in cui l’inconscio è il mondo sconosciuto da esplorare con “mezzi esperti”.
Molta importanza riveste anche Winnicott e la sua definizione di spazio relazionale, costruito, durante la crescita dell’individuo, dall’oggetto transizionale, e la sua scoperta del valore del gioco come momento di passaggio dal mondo interno al mondo esterno.
A Winnicott può essere avvicinata Melanie Klein , con la sua teoria della personificazione. Può essere poi utile guida, per un inquadramento teorico più preciso, la teoria dei due emisferi cerebrali e delle loro funzioni diversificate: parte destra (percettiva, non verbale, prelogica, primaria, creativa), parte sinistra (logica, critica, analitica). L’attore è colui che ricompone una lateralizzazione che mortifica la parte di ricerca spontanea costituita dalla parte destra.
Il problema è di ritrovare un nuovo equilibrio fra parola e gesto, che dia al gesto l’originaria funzione conoscitiva e collochi la parola come gesto assieme agli altri e non le attribuisca una funzione gerarchica mortificante il corpo nella sua interezza.
Altri modelli terapeutici utilizzabili sono la gestalt, le cui modalità terapeutiche contengono frammenti di teatralità (la sedia vuota, ad esempio) o l’analisi transazionale che, con la sua triade degli stati dell’Io (genitore-adulto-bambino), costituisce già di per sé una sorta di “sceneggiatura” che attende di essere drammatizzata.
Tenendo poi presente il meccanismo dell’inibizione dell’azione, studiato dallo psicobiologo Henry Laborit, possiamo inserire l’azione dell’attore in un percorso volto a superare un blocco così fatto:

“L’aspetto decisamente terapeutico, per l’attore, consiste nel poter realizzare sulla scena azioni, gesti e relazioni che nella vita non avrebbe mai fatto, detto o agito; ciò è molto importante, in quanto la repressione dei sentimenti, desideri e azioni a lungo andare procura veri e propri blocchi fisici ed energetici” [17].
Le definizioni precise di questi orientamenti terapeutici da una parte sono sufficientemente note, dall’altra sono puntualmente riportate nel capitolo “Terapie di riferimento” Parte I, pag. 71-82, ragion per cui non ho pensato di aggiungere altro.

Gli elementi di riferimento prìncipi, per la teatroterapia, affondano le loro radici all’interno delle teorie psicoanalitiche sull’arte e sono contigui a terapie già esistenti che privilegiano l’azione nei confronti della parola e concepiscono il corpo come la sede elettiva, o comunque primaria, dei processi psichici.
Le prime letture psicologiche del fatto artistico e dell’artista derivano dalle ricerche di Freud sull’arte. Partendo dall’assunto che “…là dove c’è l’Es deve subentrare l’Io”, Freud concepisce l’artista come colui che ha un rapporto privilegiato con l’Es, col proprio materiale inconscio, attraverso un’accettazione della regressione e una sottomissione ai comandi dell’Es.
Sottomissione che è “regolata” dal processo di creazione. L’impatto dell’artista col materiale primario è determinante nella definizione del concetto di arte. L’opera d’arte è la produzione simbolica dei movimenti dell’inconscio, analogamente al sogno.

La differenza tra sogno ed opera d’arte sta nel fatto che il sogno viene prodotto spontaneamente nella vita psichica notturna, mentre l’opera d’arte, attraverso il suo dato formale, le sue regole compositive, i suoi mezzi tecnici è una via cosciente e privilegiata dell’ “andata e ritorno” fra l’Io e l’Es.
Ingmar Bergman, nella sua autobiografia [18], riconosce esplicitamente il valore terapeutico del “fare film”, come materia che con urgenza preme dal più profondo per realizzarsi in organizzazione dell’Io.
In campo religioso il viaggio tra Io ed Es viene sintetizzato nella figura dello sciamano, che ricopre la funzione di attore terapeuta nei confronti della comunità che gli assegna questo compito: “Lo sciamano diventa attore, utilizza l’immaginazione per dare forma alla confusione psichica che egli stesso assume” [19].
Il processo di interpretazione sciamanico è la via per una presa di distanza, che deriva da uno stretto contatto, con le pulsioni inconsce. In questo tutta la tribù si riconosce e dà allo sciamano questo mandato collettivo.

Jacob Moreno, lo scopritore dello psicodramma, è un altro dei pilastri portanti della terapia teatrale. In un confronto con Freud, Moreno comunicava di aver fatto entrare la “piazza”, cioè la vita sociale, la vita del gruppo, all’interno della stanza dell’analisi.
Moreno vede nella spontaneità dell’azione teatrale e nell’improvvisazione il locus costitutivo dell’Io. Attraverso la catarsi, cioè il processo della scena psicodrammatica, che ripercorre in senso diverso la scena sociale, l’attore dà vita ad un personaggio, non in senso identificativo, ma in un processo biunivoco di conoscenza (l’attore conosce il personaggio e il personaggio riconosce l’attore), che contribuisce notevolmente ad un allargamento della coscienza e ad una cura delle parti dell’Io scompensate e coatte a ripetere nella scena sociale.

Wilhelm Reich e la bioenergetica sono l’altro supporto di una modalità terapeutica teatrale che ha il corpo, il movimento e il contatto con i flussi energetici come percorsi per l’avvicinamento alle pulsioni inconsce.
Reich afferma che la nevrosi è generata dal sistema sociale repressivo e ha come luogo elettivo il corpo. Anche l’inconscio diventa corporeo, fisiologico, biologico.
La nevrosi si fissa in punti corporei di tensione: le corazze difensive, originate da frustrazioni ingenerate nell’età infantile. La terapia sta nella liberazione controllata da queste “corazze caratteriali” e nell’accettazione della libertà dei flussi energetici [20].

La terapia legata all’azione non può certo non prendere in considerazione la dance therapy e la biodanza.
La danza è di per se stessa emblema di spontaneità di movimento, se considerata nelle sue caratteristiche antropologiche e nella sua origine storica.
Nella danza il corpo viene vissuto come veicolo di liberazione dai blocchi di movimento che, in sede corporea, sono giudicati anche blocchi di comunicazione e rigidità di vissuti.
La danza, quindi, sentita come forma che dà vita alle bellezze interiori, ma anche ai fantasmi profondi, come possibilità di “…far vivere il male oscuro come parte viva di sé [21], non come tecnica, ma come improvvisazione “seguita”, con una leggera trance che favorisce la regressione, nel tentativo di raggiungere un valore archetipico, associato ai vari passi di danza. Quasi un modo di interrompere i normali flussi di pensiero.

La biodanza è una variante del movimento ritmico del corpo che stabilisce un potenziale energetico attivato da cinque funzioni: vitalità, sessualità, creatività, affettività e trascendenza.
La funzione della disciplina è quella di stimolare le linee poco sviluppate della personalità, per integrarle e armonizzarle.

La musicoterapia istituisce uno spazio sonoro, in complementarità con la danzaterapia, tra l’individuo e lo spazio.
La scelta tra più strumenti guida il soggetto a sentire sul suo corpo le spinte a movimenti e comportamenti.
Non occorre essere esperti della tecnica musicale (se non a livelli molto complessi), ma è necessario avvicinarsi alla musica in senso timbrico e ritmico, più primitivo rispetto alla costruzione e fruizione di una melodia.
I modelli che sottendono a questa terapia sono essenzialmente psicodinamici e relati con la teoria del gioco.

Altre discipline costitutive della terapia teatrale sono le terapie antistress, tese a rimuovere in maniera dolce la divisione fra il vero Sé e la maschera sociale che ci condiziona, fin dall’età infantile, nella relazione con gli altri, in funzione di essere accettati, perché corrispondenti alle aspettative degli altri e in funzione difensiva.
È possibile, seguendo meccanicamente questa prassi, mostrarsi agli altri con un aspetto di emozioni piatte che possono nascondere emozioni esplosive e anche distruttive.
Il rilassamento, come parte essenziale della terapia antistress, ha funzione di “fondere” l’Io interiore con l’Io esteriore e di rimuovere i blocchi somatici che avvolgono l’individuo in una corazza tesa e rigida, poco disposta a concepire una unità di Sé e natura, di Sé e cosmo, di Sé e altro. La funzione è di imparare a godere del momento presente e di non sentire la storia, di sé e del proprio corpo, come un elemento comunque condizionante e produttore di automatismi.
Zen e Gestalt definiscono il rilassamento come accettazione di parti di noi che sentiamo estranee e scisse. Nello Zen l’Io si fonde completamente con l’oggetto, in un processo controllato di contemplazione dell’Io nei confronti dell’oggetto stesso, nella fusione di osservatore e osservato. Nella Gestalt lo “sfondo” dell’esperienza personale si acclara ed emergono delle parti latenti.
Nel rilassamento corporeo sono anche parti della mente che si “detendono”.

I metodi di rilassamento più comuni sono la meditazione dinamica, il traning autogeno, lo yoga (respirazione profonda).
La meditazione dinamica si basa sull’idea “bipolare” dell’energia psichica, implica un processo corporeo formato da cinque stadi in cui si alternano eccitazione e rilassamento.
Il training autogeno presenta due livelli, uno composto di esercizi somatici ed uno, più profondo, costituito da esercizi orientati verso lo spirito.
Lo yoga, la respirazione profonda, si fonda sulla possibilità, attraverso il respiro, di caricare (inspirazione) e di scaricare (espirazione) energia.

Alla base della costituzione della disciplina teatroterapeutica ci sono anche aspetti culturali originati da altri contesti, come magia, terapia sciamanica e religione.

Generalmente il corpo è la sostanza attraverso cui le discipline magiche o religiose veicolano una loro verità, una scoperta, una comunicazione al gruppo, un’ascesi di crescita della coscienza di sé. La consapevolezza dell’atto fisico costituisce l’aspetto più evidente di questi approcci alla conoscenza. “Nel momento in cui cominciamo ad essere presenti e consapevoli di ogni atto fisico, siamo in grado di spezzare l’identificazione con la dimensione fisica [21.1]. Il sé corporeo (in questo percorso di dilatazione delle capacità, sensoriali e mentali di avvicinarsi alla natura e all’altro da sé) viene ipotizzato come una composizione triadica:
IL CORPO ASTRALE (il pensiero), in relazione con l’anima;
IL CORPO ETERICO (sentimento-emozione), in relazione con l’ambiente;
IL CORPO FISICO (atti intenzionali, volontari), in relazione con la materia.
La via verso il corpo astrale comporta un processo di natura ascetica, una sorta di raggiungimento di un corpo “sottile” che si astrae progressivamente dalla pesantezza della materia, sentita di conseguenza non come peso, ma come energia. Lo scopo ultimo di questa progressione conoscitiva è l’acquisizione di una coscienza di percezione della materia come fonte e forma di energia.
I supporti teorici di quest’ambito di conoscenza sono la teoria dei campi energetici [22] e della magia (cioè il contatto con i campi energetici della materia e con “l’aura”, che comunemente non viene vista) [23].

Il contatto con la natura è altro elemento di conoscenza e coscienza per l’attore-ricercatore di una nuova dimensione relazionale con il proprio Sé, con gli altri e, appunto con la grande madre energetica che è lo scenario globale a cui appartiene la nostra specie e tutti gli esseri , animati o inanimati.
Per questa via di conoscenza è di grande aiuto l’immaginazione, non intesa come contemplazione di spettacoli naturali, ma come vibrazione di contatto con la natura, quest’ultima vissuta come materia (nubi, terra, cielo…), come elemento di contatto non visivo, ma sensitivo; in altre parole come possibilità di percepire l’intera immaginazione sotto l’aspetto di una facoltà che sente e che, attraverso la reminiscenza dell’attore (il ricordo del vissuto), fa parte integrante del personaggio (che viene così ad essere non una “forma” rappresentativa, ma un corpo che mette in scena realtà di vita più profondamente conosciute attraverso il training teatrale, di cui è elemento essenziale la possibilità di avere un contatto con la natura che passi attraverso i sensi e non attraverso la contemplazione).

Nella visione antropologica dello sviluppo dei gruppi umani, il fenomeno sciamanico è il modello che più si presta per comprendere come può avvenire questo diverso contatto fra uomo e natura.
Lo sciamano è l’individuo, membro del gruppo che, in facoltà del suo “sdoppiamento”, può entrare nelle realtà nascoste dell’uomo, che la psicoanalisi ha definito come inconscio.
La condizione sciamanica, secondo Grotowski, assomiglia molto allo sdoppiamento dell’attore, che è ricettivo e passivo insieme. L’attore è un uomo di conoscenza, anzitutto di conoscenza di se stesso, come essere che compie un rituale, non che fa la parte di un altro. La disciplina ascetica dell’attore richiede, perché la figura stessa dell’attore non si perda in un mondo alienato, di una metodica precisa e di un maestro. E in questo viaggio particolare importanza ha l’accoglienza interiore delle parti maschili e femminili come elemento non duale e conflittuale, ma nell’interezza con cui questo elemento è presente nell’inconscio, che non è il campo della distinzione, della logica o del tempo cronologico.

Il percorso dell’attore, sempre secondo Grotowski, consiste nel riappropiarsi di una capacità antica, costituita da una relazione ancestrale forte, come scoperta in sé di un altro (il padre, la madre…). È la scoperta di una realtà antica, ma dimenticata.
L’altro maestro di riferimento, assieme a Grotowski, in questo percorso di “decontaminazione” dell’attore istrionico e della falsità della conoscenza, è Osho Rajneesh, che a Poona, in India, ha sperimentato tecniche avanzate di psicoterapia di gruppo.
Entrambi sono propugnatori di una metodica per seguire una via iniziatica di conoscenza basata su una struttura formativa precisa e sperimentata, nulla quindi di più lontano dal misticismo. La strada è di natura eminentemente areligiosa (il teatro e la meditazione), a meno che non si intendano questi due fenomeni come l’aspetto fondamentale di una religione moderna e laica.
Il libro di Orioli si chiude con la presentazione di 21 schede formative che sintetizzano la prassi da usare con i diversi strumenti presi in esame. Gli argomenti sono:
teatroterapia, training dell’attore (immedesimazione, mimo, pantomima, clownerie), respirazione e suono vocale, voce e presenza scenica, ritualità, teatroterapia nella natura (un’esperienza rituale), teatroterapia (psicosi e poesia), teatro di strada, drammaturgia, improvvisazione, bambini (scuola e teatro), fondare una compagnia teatrale, psicodramma e sognodramma, bioenergetica, biodanza, massaggi, rilassamento, meditazione, trance, aspetti olistici.


NOTE
[1] Mi riferisco a concetti di identità etnici o falsamente religiosi, che definiscono il monoteismo di un’appartenenza a priori di un’identità statica, riferita ad una storia generalmente antica e non più viva se non in senso strumentale (cioè per dire altro rispetto alla storia).
Ad esempio le identità balcaniche (o meglio quelle affermate dai politici che hanno governato il dopo Tito) sono piene di mancanza di poliedricità, in quanto affermano una identità violentemente collettiva, anche contro le reali caratteristiche della maggioranza degli individui. Nella mia conoscenza, intellettuale e personale, della realtà balcanica, ho conosciuto moltissimi musulmani molto più laici e poliedrici di tanti integralisti di matrice cattolica occidentale. In questo l’identità monolitica è indice di imposizione violenta di caratteristiche preesistenti all’individuo e non la presa d’atto della elaborazione, questa sì multipla, dei singoli appartenenti ad una comunità. Il monoteismo è comunque spesso legato al potere politico.
Va da sé che, in questo caso, si tratta di identità politica e non individuale. Ma l’una non può esistere in altra forma che non sia quella già presente nel singolo individuo.

[2] In questo concetto di adattamento come “allontanamento da sé” in funzione adattativa, ho trovato echi familiari che mi hanno rimandato alla teoria della personalità di Carl Rogers, come estraniamento del bambino dai bisogni del suo Sé organismico (un insieme armonico di corporeità, di rappresentazioni mentali e di sentimenti) per assumere atteggiamenti compiacenti verso i genitori, allo scopo di non perdere il loro amore. Nasce così la “maschera”, con scopi, appunto, di adattamento.

[3] WILHEM REICH. Analisi del carattere. Sugarco Edizioni, 1973. (5) WALTER ORIOLI. Op. cit. pag.17.

[4] WALTER ORIOLI. Far teatro per capirsi. Macro Edizioni, 1995, pag. 16.

[5] WALTER ORIOLI. Op. cit. pag.17.

[6] WALTER ORIOLI. Op: cit. pag. 22. Potrebbe sembrare un gioco intellettuale fine a se stesso, ma io vedo molta analogia tra questi stadi di sviluppo dinamico della persona attraverso il teatro e le fasi del processo terapeutico descritte da Carl Rogers in La terapia centrata sul cliente, Martinelli, 1970.
Rogers distingue le componenti del processo terapeutico in sette stadi (relazione coi sentimenti, grado di disaccordo interno, modo di sperimentare, comunicazione del Sé, modo di costruire l’esperienza, modo di affrontare i problemi, modalità delle relazioni interpersonali), Rogers, op. cit., pag. 146. Nell’iter del processo terapeutico la persona abbandona sempre di più l’impersonalità e la generalità astratta della percezione di sé e dei rigidi costrutti personali per allargare sempre di più il campo della coscienza.
Mi riprometto di approfondire quella che, per ora, è una semplice annotazione.

[7] Personalmente a questa triade aggiungerei anche Vladimir Majakovskij, nella indimenticabile interpretazione che ne dà ANGELO MARIA RIPELLINO in Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia. Einaudi, 1963.

[8] Penso che anche il Living Theater abbia notevolmente contribuito a cambiare l’idea di teatro e a dar vita alla condivisione scenica fra attore e spettatore, nonché alle azioni di strada.

[9] Vedi, a questo proposito, JERZY GROTOWSKI. Per un teatro povero. Bulzoni, 1970, soprattutto il capitolo “Ricerca metodica“.

[10] Mi permetto di evocare un ricordo teatrale personale. Alla fine degli anni Settanta ho assistito alla rappresentazione dello spettacolo “Apocalipsis cum figuris“, messo in scena dal teatro laboratorio di Grotowski e rappresentato nell’ex palestra di Via Manzoni a Pontedera. Il pubblico fu fatto entrare a piccoli gruppi, ogni spettatore era seduto in terra, gli attori ci sistemarono con gesti misurati, quasi amorevoli, poi scomparirono. Ci fu un innaturale silenzio fra gli spettatori, che rimasero soli per quasi un minuto. Il pubblico era entrato quasi spontaneamente nello spazio del rito e aspettava i sacerdoti di un laico trascendente. Le luci vennero spente, gli attori entrarono al buio, sentivamo i loro passi, le loro prime voci, ma non li vedevamo. Poi cominciarono ad accendersi delle candele, ogni attore era illuminato dalla luce rispettosa e antica che ha la fiamma. I personaggi cominciarono a delinearsi, ma non come ruolo, bensì come brandelli di emozioni, di figure profonde. Le parti parlate erano in polacco, quasi nessuno degli spettatori le capiva. Gli attori recitavano a pochi centimetri dagli spettatori, si notavano tutti i movimenti, le espressioni del volto, le gocce di sudore sul loro volto. L’impatto emotivo fu molto forte. I silenzi furono prolungati, come dovettero essere i silenzi di Grotowski durante la preparazione dello spettacolo. Uscii dallo spettacolo con una chiara sensazione di aver assistito ad un evento unico, di averne fatto parte attraverso la magia di quel teatro. Porto ancora con me questi ricordi, pur essendo passati molti anni.

[11] Citato da WALTER ORIOLI. Op. cit. pag. 37.

[12] Il viaggio (trip), favorito dall’assunzione di sostanze stupefacenti e caratterizzato da un’alterazione artificiale della percezione sensoriale e psichica, può essere inteso come una forma decaduta del rito, un aspetto sottoculturale della necessità intrinseca dell’individuo di uscire da se stesso, di provocare un disequilibrio per ritornare in un equilibrio a livello superiore, garante della sua presenza in un mondo in cui la primitiva unità di uomo e natura (periodo caratterizzato dalla religione animistica) è stata “alterata” dalla nascita della civiltà. Partendo dal punto di vista della repressione delle pulsioni sessuali, presenti in forma libera nello stato di natura originario, Freud ha descritto un’analoga trasformazione, caratterizzandola sotto l’aspetto di una “rinuncia” alla immediata soddisfazione pulsionale (che avrebbe portato alla distruzione della vita) che fa sorgere lo stato di civiltà (che è quindi, sulla base di questa ottica, un disagio). Vedi SIGMUND FREUD. Il disagio della civiltà. Boringhieri, 1971.

[13] Citato da WALTER ORIOLI, Op. cit. pag. 56-57.

[14] Si tratta di un’operazione fatta con davanti agli occhi l’oggetto (o il fenomeno) naturale, la cui contemplazione lasci il pensiero libero di essere anch’ esso oggetto fra gli oggetti, in modo da depositare per un certo tempo tutte le acquisizioni, le definizioni, le conoscenze che si sono succedute nel passato su quell’oggetto o su quel fenomeno, per lasciare posto all’immediato della scoperta nella diade osservatore-osservato, che si tenta, in quell’occasione, di riportare ad un’ipotetica unità originaria. Più che di un dato teorico, si tratta in sostanza di un’acquisizione esperienziale.

[15] WALTER ORIOLI, Op. cit. pag. 58.
È obiettivamente difficile, e comunque limitativo, esprimere con parole questi concetti (“…significar per verba non si porìa…” come dice Dante dello spettacolo del Paradiso). È sempre presente comunque il rischio di essere troppo schematici e limitanti rispetto alla complessità della materia o di operare fughe in un campo “mistico” difficilmente comunicabile. Credo che sia necessario tener presente che siamo in un contesto di natura artistica, religiosa (non propriamente nel senso di divina, ma nel senso di visioni “ultime e nascoste”), filosofica e, se scelta come esperienza, anche inziatica. L’attore descritto da Grotowski non è certo un prodotto romantico di spontaneità, richiede un lungo percorso per prendere vita e può avere significato soltanto in una conoscenza di esperienza, nel training teatrale, e di ascesi personale..

[16] L’espressione è del poeta americano Allen Ginzberg , scritta nella prefazione alla raccolta di sue poesie intitolata “Jukebox all’idrogeno“, Ed. De Donato 1969.

[17] WALTER ORIOLI. Op. cit. pag. 81.

[18] INGMAR BERGMAN. Lanterna magica. Garzanti, 1992.

[19] Mi è rimasto molto impresso uno spettacolo teatrale che ho visto nel 1975, del complesso teatrale argentino Comuna Baires. Gli attori usavano il corpo, e gli apparenti urti tra i corpi, in un percorso di liberazione di molta energia. Ho il ricordo di uno spettacolo violento, ma pieno di una grande forza liberatoria. In quel momento stavo leggendo il libro di Reich Analisi del carattere e mi ricordo che gli accostamenti alla bioenergetica, almeno nei miei pensieri, furono numerosi.

[20] WATER ORIOLI, Op. cit. pag. 95.

[21] [21.1] WALTER ORIOLI, Op. cit. pag. 107.

[22] Penso che la teoria dei campi energetici (Semyon Kirlian) possa essere in qualche modo paragonata alla scoperta dell’orgone (teoria orgonomica), di Wilhelm Reich. Sono studi diversi dalla ricerca tradizionale, a volte giudicati non scientifici, a volte, come nel caso di Reich, interrotti da fatti giudiziari che nulla dovrebbero avere in comune con la scienza e la ricerca. Credo che queste ricerche richiedano un’adesione “spassionata”, perché il rischio di cadere nel misticismo, benché da evitare, sia spesso presente.

[23] A tale proposito vedi studi e ricerche dell’ingegnere elettronico russo Semyon Kirlian, di cui alcuni esempi sono riportati in WALTER ORIOLI, Op. cit., pag. 110.

 
Giovanni Lancellotti
Psicologo psicoterapeuta SCRIPT Centro Psicologia Umanistica
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