Prefazione a Ittiandro

Visto che la postfazione a questo mio strano lavoro è poco più che un coacervo di panzane pretenziose e sgangherate, proverò brevemente ad illustrare la vera natura dello scritto in questione. Una sera m’è capitato oziosamente di chiedermi come sarebbe stata considerata, nella classicità greca, la figura di Gesù Cristo. Sacrificarsi, darsi quasi letteralmente in pasto agli altri, con la pretesa di salvare l’umanità intera, non sarebbe forse stato percepito come un gesto di estrema tracotanza? Sarebbe stato anche solo concepibile, in quel sistema di coordinate morali? Sarebbe stato divertente, ho pensato, se qualcuno con il necessario bagaglio culturale si fosse cimentato nella produzione di una finzione in grado di rispondere con la voce degli Antichi al mio quesito. Quel bagaglio culturale io non lo possiedo affatto, in virtù della mia vituperabile ignavia, così mi sono limitato a coricarmi. Purtroppo, il testo da me vagheggiato ha cominciato prepotentemente a scriversi da solo nella mia testa, e mi sono visto costretto da una peculiare e a me ben nota forma di compulsione a metterlo per iscritto. Nel corso della stesura il testo si è trasformato, vivendo di vita propria, senza chiedermi il permesso e nemmeno un parere, in un grottesco teatrino che vedeva per protagoniste le caricature mie, dei miei familiari e delle dinamiche che tra noi abitualmente si intrecciano. Rimane qualcosa della mia idea iniziale? Cosa ho scritto, veramente? Rimangono solo quelle parole febbrilmente assemblate, un po’ di sciatta pseudofilosofia e la strana metafora di un ecosistema di nevrosi che si è autoimposta come unico tema autentico e vivo.

ITTIANDRO

PERSONAGGI:

LACHESI, una delle tre Moire, figlie della Notte come Nemesi e Tanato, temute persino dagli dei. Cloto tesseva il filo dell’esistenza dei mortali, Lachesi, col suo bastone, lo misurava, decidendone la lunghezza, al che Atropo, con le sue cesoie, lo recideva.

NEMESI, implacabile signora della vendetta divina, figlia anch’essa della Notte.

MONAUTEO, signore dei luoghi in cui si svolge la tragedia.

PANDORA, moglie di Monauteo. Com’è ben noto, secondo il mito ella aprì il vaso che conteneva tutti i mali del mondo, facendoli fuggire, ma riuscì a richiuderlo prima che ne fuoriuscisse la Speranza (Elpis). La parola “elpis” viene sovente tradotta dal greco come “speranza”, ma può anche significare più semplicemente “aspettativa” (senza specificare se di cose buone o nefaste). È questa Elpis ambigua, a tratti minacciosa, quella che la nostra Pandora custodisce nel suo vaso.

ITTIANDRO, figlio di Monauteo e Pandora.

CACHEDONIA, figlia di Monauteo e Pandora, sorella di Ittiandro.

[Lachesi e Nemesi si incamminano verso la casa di Monauteo, per informare i residenti della punizione che hanno deciso di comminar loro grazie all’aiuto del fratello Tanato]

LACHESI: Io proprio non li sopporto, quelli di Monauteo e Pandora!

NEMESI: Gli dei ne sono talmente irritati, che non vogliono nemmeno pensare a punirli!

L.: Il patriarca sostiene di non dover sottostare a nessuna legge!

N.: Peggio, sorella cara, peggio! Monauteo crede che esista soltanto quello che vede e che pensa lui!

L.: Sia lui, che la figlia Cachedonia, mentono in continuazione! Sai quanto m’inquieto io quando non riesco a prender bene le misure, e loro m’ingarbugliano sempre il filo!

N.: Ah! Non mi parlar di quella serpe di Cachedonia! Batte gli uomini, ha comportamenti impudichi, bestemmia Artemide, si vanta d’esser più bella di Afrodite e più forte di Ares, pur dicendoseli amici, eppure nessun dio ha mai pensato a punirla! È talmente sfrontata da metterli nell’imbarazzo!

L.: E quella vecchia pazza di Pandora? Non si capisce mai se voglia prendere o dare!

N.: Sempre a trascinarsi appresso quel vaso empio!

L.: Sempre a lamentarsi del suo destino!

N.: Carceriera e schiava d’Elpis!

L.: Ma il più insopportabile è il giovane Ittiandro!

N.: Ah, è il rancore che nutro per lui che m’ha spinta a seguirti. La sua pudicizia è più scellerata della tracotanza della sorella e del padre.

L.: E come ci offende il suo riserbo!

N.: Quanto ci insulta la sua empia prudenza!

L.: Ci teme a tal punto da rifiutar se stesso!

N.: Che intollerabile vigliaccheria! Arrivo a preferir l’arroganza di altri mortali che la sua servile abiezione!

L.: Ma con l’aiuto che Tanato c’ha promesso, avranno quel che spetta loro!

N.: Li puniremo, stanne certa!

L.: [scrutando e poi indicando più avanti] Guarda, o Nemesi, là sul bordo della strada, come l’ultima delle mendicanti! Non è quella la “signora” di queste contrade, rovina dell’umanità, Pandora?

N.: È proprio lei, la sciatta regina! Mettiamoci dietro questo poggio, e vediamo cosa combina la sciagurata!

[si sistemano dietro una sporgenza del terreno a scrutar la melanconica Pandora]

[Ittiandro incrocia Cachedonia per la via. Cerca di evitarla ma la sorella lo fronteggia spavalda.]

CACHEDONIA: O Ittiandro, la vogliamo smettere di andare a caccia con Ippolito?1 [a mezza voce] Ché non si sa mai, alle volte, le cattive frequentazioni…

ITTIANDRO: Preferisco cento volte accompagnarmi a quel vanaglorioso del figlio di Teseo, piuttosto che spartire il talamo con le pari tue e di Fedra.

C.: Attento a non accompagnarti troppo d’appresso, però, e manda sempre lui in avanscoperta nel fitto della selva [a mezza voce] ché non si sa mai, alle volte, dare le spalle agli amici…

I.: Attenta tu, Cachedonia, a non dare le spalle a quelli che ti permetti di battere col ramo del salice. [alzando il tono della voce] Ché non si sa mai, alle volte, un’accettata tra le scapole…!

C.: Deve ancora nascere il leccapiedi d’Artemide capace di ferirmi a dispetto di Ares e di Afrodite, che mi sono entrambi amici!

I.: Chi bestemmia non ha veri amici tra gli dei!

C.: Tutte le mie bestemmie e le mie scelleratezze non valgono l’empietà della tua presunzione, sventurato bastardo di mia madre!2

I.: …e anche i mentitori s’inimicano gli abitanti dell’Olimpo!

C.: Quel che penso, quello è3, Ittiandro mio, e, stando così le cose, nemmeno Zeus padre potrebbe farmi bugiarda!

I.: Si penserebbe che il figlio di Crono sia bene impegnato, per non fulminarti qui e adesso! Ma vedrai che il fato finirà per esserti punizione ben peggiore!

C.: Ah! Non temo le maledizioni di uno a cui Cloto fu più funesta di quanto mai potrà essergli Atropo, o vile dalla vita meschina!

I.: E Lachesi mai potrà essere benevola a te, ché sempre le aggrovigli il filo con le tue menzogne di ragno e le tue calunnie di serpe! M’hai scocciato e me ne vado!

C.: Vai, vai! Tanto, per quanto tu vada, resti sempre dove stai!

I.: [allontanandosi, tra sé e sé] Ahi, potesse Tanato ratto rapirmi questa notte stessa! [pensandoci sopra un attimo] Un momento! Potesse rapire Cachedonia, in vece mia! Ma che dico! Tanto, ormai, ella m’ha scatenato contro Nemesi, con la sua tracotanza! Ma perché poi i figli della Notte dovrebbero contendersi il filo della mia esistenza, se è lei che bestemmia in continuazione! Ah! Per esser equamente divoto a tutti i numi, tutti me li inimicai, e lei invece, che bestemmia in continuazione, viene ben vista persino da Era!

[Pandora è seduta sul bordo della via, tristemente abbracciata al suo vaso. Ittiandro la vede e le si appropinqua. Di lontano, nascoste alla vista, Lachesi e Nemesi scrutano la scena.]

PANDORA: Ittiandro, Ittiandro, gioia del mio cuore! Cos’è che offusca il tuo viso baciato dal Sole?

ITTIANDRO: Pandora, dolce madre mia! Di nuovo fui insolentito da tua figlia Cachedonia! Ella lo fa solo per tener fede al suo nome!

P.: No figliolo, non dir così, ella t’ama!

I.: Allora perché sempre s’adopra per guastarmi gli umori?

P.: Il suo temperamento serve a riscattarmi dai torti subiti, mio dolce diletto! Serve ad aver ragione della tracotanza del padre!

I.: Con una tracotanza cento volte più grande?

P.: [con rassegnazione, poi stretta dall’angoscia] Così sembra dover essere. Mi tremano le vene nei polsi a pensare come può andare a finire, una simile gara!

I.: Di fronte all’orribile sguardo sprezzante di Nemesi, madre mia! Ma dimmi, dolcissima madre, di quali torti t’han gravata?

P.: [con tristezza] Io recavo doni. Recavo doni dalla Terra, già. Poi mascolina invidia volle che la mia generosità fosse vista come un dono ch’io stessa ricevetti. Si disse ch’io ricevevo doni, che, con egoistica ingordigia, io avessi ricevuto doni dagli dei tutti, per la sola rovina degli uomini, gli stessi uomini che portavo al mondo nel mio ventre, sfidando Tanato ad ogni parto! Nel mio vaso io davo all’umanità tutte le cose del mondo, e dissero che questo era come darle tutte le disgrazie!

I.: Cosa c’è, ora, nel tuo vaso, madre?

P.: Cosa c’è adesso, mio amato figliolo dagli occhi dolci? C’è il nocchiero che mi permette di navigare nell’acque che tuo padre Monauteo agita come se fosse un Poseidone ubriaco. C’è la vana speranza di giorni più felici, e il supplizio di vedere anzitempo le sventure che immancabilmente su di noi s’abbattono.

I.: [andando nel panico] Zitta! Cheta! Ti prego, mia cara genitrice, non chiamarle, le sventure! È come se sentissi che già s’approssimano.

NEMESI: [invelenita, di lungi, sentendo però le parole di Ittiandro] Così il mio sguardo sarebbe “orribile”! E ci chiama “sventure”, lo spudorato!

LACHESI: Se tali ci vuole, tali saremo, sorella.

P.: Figliolo caro, se senti sul tuo collo il freddo alito dei figli della Notte, è perché persisti nell’avvicinarti a me e al mio vaso sventurato.

I.: Diletta madre, come farei a starti lungi con tutto l’affetto che i miei occhi hanno per te? Ma dimmi, quel vaso, non è forse un peso eccessivo per la tua cara figura? Non è quel vaso, e quel che contiene, a renderti la bile così nera?

P.: Così è, figlio. Questo è il peso che devo portare.

I.: Perché mio padre non ti aiuta? Potrei intercedere io per te presso di lui!

P.: Giammai, per la benevolenza degli dei! Egli lo frangerebbe subito, dicendolo inutile peso, ed Elpis fuggirebbe anch’essa!

I.: Forse sarebbe un bene!

P.: Zitto figliolo! Taciti la dolce bocca! Senza la guida di colei ch’abita nel vaso, saremmo persi nel mondo come ombre nel Tartaro!

I.: Allora lascia che sia io a condividere con te questo peso! Lascia che siano le mie giovani spalle, il mio giovane cuore!

P.: No, figliolo, non dir così! Già il tuo animo è mezzo avvelenato dallo starmi accanto! Troppo tenero è il tuo cuore, anche se forti sono le spalle!

I.: Ti prego, madre mia! Se tu sai il mio cuore tenero, saprai che mi si spezza a vederti sempre così affranta! Lascia ch’io rechi con me il vaso ed Elpis, almeno per qualche tempo! Ella potrebbe darmi consigli per far rinsavire Monauteo e Cachedonia!

P.: Non sperare una cosa simile, figliolo, ché la forza dei tuoi congiunti deriva proprio dal farsi beffa d’ogni consigliere!

I.: E la mia forza deriverà invece dal contemplare il Mondo dalle vette dell’Olimpo al fondo più oscuro dell’orrendo abisso! Elpis mi mostrerà queste cose! Liberati, liberati dal fardello, o madre!

P.: No! No! Diverrei quella che mi dicono, una scellerata!

I.: Fosse pure! Saresti quella che ti dicono, ma senza il vaso! Alla fine, diverrai comunque arida ed ingenerosa a suon di curvare la gioia del tuo ventre agli affanni di tutti gli altri, per schivar le calunnie! Almeno lo sarai senza questo sventurato fardello!

P.: [le lacrime agli occhi] E sia, e sia, amorevole e sommamente saggio figlio del mio grembo! Io l’affido a te, ma prometti, solo per qualche tempo, per far riposare le mie membra e il mio spirito, prometti che lo scaricherai di nuovo sulle mie spalle!

I.: Prometto che lo scaricherò nuovamente sulle tue spalle qualora tu ti fossi abbastanza riposata, o la mia schiena e il mio cuore ne fossero, pel momento, troppo provati!

P.: Ah, quale gioia, averti, figlio! Quale nobiltà d’animo! Quale saggezza! Orsù, fatti carico del mio fardello; ma ricorda, caro dolcissimo figlio: hai promesso!

I.: Non verrò meno alla mia parola, amata genitrice. [si fa carico dell’ingombrante fardello]. Ristorati nell’animo e nelle membra, ora!

P.: La Terra e il Cielo ti benedicano, figliolo mio! Hai versato il dolce nettare della gioia nel cavo del mio cuore.

I.: [palesemente gravato dal novello carico] Gioia più grande non potrei avere, madre dalle dolci membra!

P.: [allontanandosi] Che tu sia caro a tutti gli dei, figliolo valente! Che la Terra e il Cielo ti proteggano!

[Recando seco il gravoso fardello, Ittiandro incontra suo padre Monauteo che ritorna dalla caccia con un cinghiale sulle spalle]

MONAUTEO: Oh, Ittiandro! Ne ho preso un altro, hai visto? Ma non è il vaso di tua madre, quello che ti porti dietro?

ITTIANDRO: Sì padre, è il caso che qualcuno se ne faccia carico, ogni tanto, non può portarlo sempre lei.

M.: Ma ruzzolalo per terra, quel coccio! Serve solo a dare impaccio!

I.: Che dici, padre mio? Nel vaso dimora Elpis, che sola ci può salvare dalla ruina.

M.: Ma di che ruina vai vaneggiando, figliolo? Ahi, ti sei fatto traviare dai discorsi di una donna!

I.: [adirato] Io non mi faccio traviare dai discorsi di nessuno! Ma non lo senti, lo sguardo di Nemesi che incombe sulla nostra casa?

M.: E di Nemesi che me ne importa, a me? Pensa forse essa di potermi battere nella corsa o nella lotta?

I.: [scandalizzato] Padre! Sono questi tuoi discorsi scellerati ad attirare su noi tutti l’ira degli dei!

M.: Ah! Ah! Ah! Ma quali dei! Non lo sai forse tu, o figlio, che il mio nome significa “solo io sono dio”?4

I.: Padre! La tua tracotanza non conosce confini!

M.: Figlio! Intanto, abbi più rispetto per me; poi, io uccido i cinghiali a mani nude! Io non devo sottostare a nessuna legge, né umana né divina!

I.: Che dici mai, padre, se con te rechi la faretra, l’arco e la daga, e se quel cinghiale porta ancora infissa una delle tue frecce sul suo fianco?

M.: Ah sì? In effetti non voleva venir via. Ma questo poco importa. L’importante è quel che credo io! Dammi quel vaso, che lo riduco in cocci!

I.: [arretrando inorridito] Faresti una cosa del genere?

M.: [mollando il cinghiale sul suolo e appropinquandosi minaccioso] Farò una cosa del genere.

[Ittiandro si dà faticosamente alla fuga, gravato e impacciato dal vaso]

M.: Beh, non ho voglia d’inseguire quell’imbecille figlio d’una donna. [si carica nuovamente il cinghiale sulle spalle] Tanto, il vaso gliel’ho fracassato, e ho riempito Elpis di percosse. L’importante è quel che credo io!

[si avvia a cuor leggero verso casa]

[Monauteo arriva presso la sua dimora, Pandora lo attende sulla soglia di casa]

PANDORA: Marito! Monauteo! Sei stato di nuovo a caccia!

MONAUTEO: No, donna, sono stato dal pastore Telago a prendere capretti vivi per i sacrifici agli dei, come mi chiedi ogni giorno a guisa di fastidiosa mosca.

P.: E com’è che rechi un cinghiale sulle spalle, con una freccia infissa nel costato?

M.: [esacerbato] Ah, ma siete fissati, voi altri, con codesta freccia! Ora basta! Io decreto che non c’è nessuna freccia, e nessun cinghiale, e che questo vi sia di legge!

P.: Marito! Ma non lo vedi che la nostra casa cade in rovina? Che nessuno accetta più la nostra ospitalità? Che pure i servi disertano la nostra dimora perché non facciamo i sacrifici agli dei, e hanno paura della loro collera?

M.: Tu, donna, solo della mia collera devi avere paura! Ora aiutami a portare questo cinghiale [si corregge] questo animale in casa, ché sono stufo di star sotto il sole a sentire le tue lagnanze di femmina!

P.: [si getta in ginocchio, le braccia rivolte al cielo] O Zeus padre, o Era dallo sguardo grave, o fulgido Apollo, o dei dell’Olimpo tutti, perdonate, perdonate se potete questa scelleratezza! Prendetemi il cuore dal petto, se volete, ma non mandate in rovina la nostra casa! Salvate almeno il mio dolce figlio, Ittiandro dal viso baciato dal Sole!

M.: [impassibile, scaricando il cinghiale al suolo] Ah, quella bestia di tuo figlio. L’ho battuto bene bene, e gli ho fracassato quel tuo assurdo vaso.

P.: [sbiancando paurosamente in volto] Cosa hai fatto? Cosa hai fatto? Scellerato! Assassino! Rovina della nostra casa! Artefice delle nostre disgrazie! Che tu sia maledetto dalla Terra e dal Cielo!

CACHEDONIA: [uscendo di casa] Chi è che scaglia maledizioni a codesto modo!

P.: Cahcedonia! Figlia mia! Tuo padre ha commesso un’empietà!

C.: [impassibile] Un’altra?

M.: Figlia! È questo il rispetto che porti a tuo padre? Bada che le mie mani sono pesanti!

C.: Io batto Ares nella lotta e so tuonare più forte di Zeus. Non ho paura di te, padre.

P.: Figlia! Per la generosità di Demetra, non bestemmiare tutto ciò che c’è di sacro sotto il Cielo!

M.: Basterebbe che voi femmine non bestemmiaste Monauteo, vostro marito e padre, per star bene.

C.: Per far star bene te, vuoi dire!

M.: Eh! Non lo sai che l’importante è come sto io? Scostatevi, donne, fatemi entrare nella mia casa!

C.: Nella tua spelonca, vorrai dire. Qui cade tutto a pezzi!

M.: Cachedonia! Ti sei forse stancata di vivere?

C.: Mai prima d’averti bruciato sulla pira, mio caro padre!

[in quel momento arriva Ittiandro, col vaso di Pandora sulle spalle, bianchissimo in volto]

P.: [con gioia] Figlio! Figlio diletto! Allora il vaso è salvo! [crucciandosi] Ma cosa è successo al tuo bel viso baciato dal Sole?

I.: Padre! Madre! Sorella! Ho visto le figlie della Notte incamminarsi verso la nostra dimora.

P.: [portandosi le mani ai capelli] Ahi, figlio, che mi dici?

I.: La vecchia Lachesi e Nemesi furiosa stanno venendo qui! [con sguardo orripilato, indica prima il padre poi la sorella] Voi! Voi due ricettacoli d’ogni empietà, voi avete scatenato l’ira degli dei!

M.: [ignorando completamente il figlio, con calma impassibile] Sai, Cachedonia, penso che tua madre e tuo fratello ci tenessero del gran brutto vino, in quel vaso.

C.: Una volta tanto ti do ragione, padre. Quei due devono essere invisi a Dioniso, per sbronzarsi tanto malamente!

P.: Ma cosa dite, pazzi! Vi fate scherno dell’ira degli immortali?

M.: Io mi faccio scherno dei vostri vaticini, cari congiunti. Quel vaso vi dà veramente alla testa: fracassatelo, vi dico!

I.: Padre! Potesse il potente Zeus fulminarmi in questo preciso istante!…

C.: [interrompendolo] Sarebbe una cosa divertente, da vedere.

I.: [ignorandola anche se stizzito] …ti dico che le ho viste con questi miei occhi!

M.: E allora? Non sai che esiste solo quello che vedo io? Pandora! Apparecchia il desco, ché m’è venuta fame!

P.: [strappandosi i capelli] Che dici, scellerato! La ruina sale per la strada di casa, e tu pensi a mangiare?

M.: Dimmi, pia moglie, anche se cotante ospiti stessero davvero recandosi qui, vorresti forse far loro trovare la tavola spoglia e i calici vuoti?

P.: Per Zeus protettore dei viandanti! È vero! Fatemi affrettare in cucina! Non sia mai che sia proprio io a peggiorare le cose, se questo è possibile!

M.: [sbadiglia, caricandosi nuovamente il cinghiale sulle spalle] Vedi? Basta saperli spaventare, a questi, e fanno come dici!

C.: Io non mi spavento nemmeno della furia di Era.

I.: [guardandoli con astio e sconcerto, a mezza voce] Pazzi, dannati! Fatemi entrare, che le iraconde ospiti non mi trovino in vostra compagnia sulla soglia di casa!

C.: Vai pure, caro fratello, capisco il motivo della tua agitazione: sai bene che sarai il primo, ad essere rapito!

I.: Che la centesima parte delle maledizioni che sputi come veleno possa ricaderti sulla testa, Cachedonia!

C.: [impassibile, quasi lusingata] Sarebbe un bel guaio, non lo nego.

[Cachedonia se ne sta pigramente sulla soglia, appoggiata allo stipite della porta, mentre la madre si affaccenda in cucina. D’un tratto Lachesi e Nemesi sbucano da una curva della strada]

CACHEDONIA: [dando una voce a Pandora in cucina, gridando forte per farsi sentire] Madre, serba il pasto dei cani, ché arrivano due mendiche da sfamare!

NEMESI: [inchiodata dall’ira] Come si permette, quella, quella… Per Ade, non ci sono parole per dire la sua spudoratezza!

LACHESI: [battendo il bastone al suolo] Per il ventre vorace di Crono, costoro sembrano non rendersi nemmeno conto d’essere solo dei miseri mortali!

[Pandora si precipita fuori dalla casa, le mani nei capelli. Afferra la figlia e cerca di scaraventarla dentro]

C.: Oh, madre, attenta, ch’io le suono anche ad Ercole! Non mettermi mai più le mani addosso! [entra in casa stizzita]

PANDORA: [precipitandosi a rotta di collo verso le illustri viandanti e gesticolando come una forsennata] Mie signore! Padrone del mio destino e di casa mia! Signore del Giorno e della Notte! Non vi chiedo nemmeno di perdonarmi! Punitemi, vi prego, punitemi per la tracotanza mia e dei miei cari! Scagliatemi nel Tartaro! Incatenatemi alle rocce del Caucaso! Datemi in pasto ai cani! Punitemi, punitemi potenti signore!

N.: [interdetta] Per la furia delle Erinni, costei è peggio di una mosca impazzita!

L.: Ma dobbiamo proprio farlo noi, codesto lavoro?

N.: Temo di sì, mia terribile amica, è così sgradevole che nessun altro vuole farlo! Ma per Zeus, va fatto!

L: Assolutamente! E compatisco Tanato che dovrà recarli in volo! [a Pandora] Donna mortale! Placati in questo istante, se non vuoi mandarci in una collera finora sconosciuta e agli uomini e agli dei!

P.: [ghiacciata, chinando il capo] Sì, mie signore. Subito, mie signore.

N.: Facci strada nella tua empia abitazione!…

L.: …che se noi non fossimo disinvolte frequentatrici e della Notte e dell’Ade ci gelerebbe il sangue nelle vene, a mettervi piede!

P.: [facendosi piccola piccola] Sì, mie signore. Vi faccio strada, mie signore.

N.: Giuro che è la prima volta che la mia giusta ira fatica a sostenermi nel mio compito!

L.: Bastonerei volentieri Prometeo, che tanti doni ha fatto a questa stirpe indegna!

N.: E ancora non abbiamo varcato la soglia della loro dimora!

L.: Mi si ghiaccia il sangue nelle vene! A me, Lachesi, che faccio tremare gli immortali!

N.: Di sicuro, costoro hanno talento!

L.: Ma vedremo chi sa essere più orripilante!

N.: Io non accetto d’essere seconda che a te e alle tue sorelle, venerabile amica!

L.: Non saremo certo seconde a questo manipolo di esecrabili dementi!

N.: No di certo, o non mi chiamo più Nemesi!

[entrano in casa]

N.: Per le operose mani di Efesto! Questa dimora sembra aver conosciuto l’ira di Poseidone!

P.: [chinando il capo umiliata] Mia signora, perdonami! I servi hanno disertato la mia casa, giacché il mio consorte non reca animali da offrire agli dei, ma solo selvaggina per il suo ventre.

L.: E tu, donna mortale, permetti che questo accada?

P.: Egli mi dice sempre che provvederà, e mai mantiene le sue promesse!

L.: Guai a te, Pandora, se credi di non aver colpe, ché chi mente due volte ha ragione di farlo!

P.: [allargando le braccia in segno di rassegnazione] Mia signora, vengo detta tra i mortali la rovina dell’umanità. Come potrei credermi innocente?

N.: Non pensare di ingannarci, meschina! Sappiamo bene qual è la tua tracotanza: nel tuo intimo sei convinta d’aver subìto dagli immortali più torti di quanti tu stessa non ne abbia inflitti!

P.: [arrendevole] Se questo vedi nella notte del mio cuore, signora, allora questo è.

N.: [stizzita, tra sé e sé] Essa non trema nemmeno di paura, essa china il capo e dice “sì, mia signora”! Come faccio a punirla se a questa donna è stato già tolto il soffio vitale? [a Pandora] Su, tosto, conducimi da tuo marito e dai tuoi figlioli!

P.: Sì, mia signora.

[entrano nella sala in cui Monauteo sta banchettando. Ittiandro è seduto al desco, il vaso in grembo, Cachedonia si appoggia ad una parete, bevendo vino da una coppa]

P.: [funerea] Marito! Figlioli! Due illustri ospiti hanno deciso di onorarci con la loro presenza! Date loro il benvenuto! [guarda supplichevole Cachedonia]

MONAUTEO: [cordiale, senza smettere di abboffarsi] Gradite ospiti! La vostra presenza illumina la nostra casa di gioia! Vi offrirei volentieri un catino d’acqua per lavarvi, ma come vedete sono occupato a mangiare. Se volete, favorite pure!

L.: Monauteo! Sei ospitale quanto un cespuglio di rovi! Ma poco importa, ché abbiamo già deciso la sorte di voi tutti.

M.: Grazie per il disturbo, brava donna, ma la mia sorte me la decido da solo!

L.: Scellerato! Stolto! Almeno lo sai con chi stai parlando?

M.: Non sei quella specie di sarta?

[adirata Lachesi batte il suo bastone al suolo. La terra trema. Monauteo sembra interdetto, Pandora e Ittiandro sono terrorizzati; financo Cachedonia pare spaventata e si fa bianca in volto]

L.: [gridando con voce terribile] TI CREDI ASTUTO, MONAUTEO? TI CREDI ASTUTO? SEI L’UOMO PIÙ SCIOCCO CHE ABBIA MAI CALCATO LA TERRA!

M.: [conciliante] Come vuoi tu, furiosa signora degli immortali! Sia come più t’aggrada! Se mi vuoi dar del cretino in casa mia, accomodati! [a mezza voce] Solo ti pregherei umilmente di non far più quella cosa col bastone, ché le pareti son già mezze crepate.

L. [crollando la testa per scacciare il disappunto] Siamo qui per comminarvi la giusta pena, che Tanato si premurerà d’eseguire.

P.: [presa da vertigine] Tanato! La nostra stessa empietà ha posto fine alle nostre vite!

N.: Non sperare subito nelle cesoie di Atropo, lamentevole Pandora, ché ben altra dev’essere la pena per chi ha a tal punto mancato di rispetto e agli uomini e agli dei!

ITTIANDRO: [alzandosi a stento, tremebondo] O sommamente saggia Nemesi, perdona il mio ardire scellerato! A quale immortale ho mancato d’esser divoto?

N.: [furiosa] A tutti, figlio di Monauteo, a tutti! La tua non è mai stata divozione, la tua è paura, codardia! Non hai mai amato nessuno degli immortali, di nessuno hai mai chiesto il favore, tu li hai solo temuti! [i suoi occhi si fanno grandi e terribili. Lo indica] Hai temuto me, Monauteide, a tal punto che rifiutasti d’essere te stesso, rifiutasti d’esistere! Questa è l’offesa più grave che gli dei possano ricevere da un mortale, la somma empietà!

C.: [che nel frattempo ha ripreso coraggio tracannando vino] Ah! Te lo dicevo, io, fratello, che saresti stato il primo!

N.: [sempre più infuriata, punta il dito contro Cachedonia] TACI TU, che hai osato darci delle mendiche! La tua lingua è per l’umanità il male peggiore che fuoriuscì dal vaso di tua madre Pandora! Se tuo fratello Ittiandro s’è tirato addosso la rovina con la sua ritrosìa, tu ti sei distrutta con la tua scelleratissima impudenza! Sarai tu la prima ad essere rapita!

C.: Questo è da vedersi! Io batto Ares nella…

[Lachesi batte per terra il suo bastone due volte. La terra trema più forte di prima; Cachedonia sussulta per lo spavento, ma pare molto meno impressionata]

L.: PIANTATELA DI BESTEMMIARE IN NOSTRA PRESENZA! Tu, Monauteo! [strizza un occhio e gli prende le misure col bastone] Il filo della tua esistenza è quasi giunto al termine, e ciò che ne rimane è il peggiore dei tormenti! Sarai punito per le tue menzogne! Sarai punito perché, al contrario di tuo figlio Ittiandro, credi di esistere soltanto tu!

M.: [continuando imperterrito a mangiare] Ah, sì?

L.: [mette giù il bastone, in preda allo sconforto. A mezza voce:] Sei un imbecille, Monauteo.

M.: [ora grave, quasi costernato] Tu non esisti, Lachesi.

L.: [secca] Lo vedrai.

N.: Venerabile Lachesi, con tutto il rispetto, perché perdiamo tempo a discutere con costoro? Non ne riceviamo che altre ingiurie! Rendiamoli edotti sulla loro pena, e lasciamo questo smisurato pozzo d’empietà!

L.: Non posso darti torto, cara amica. Che questo sgradevole incontro abbia fine al più presto! [agli altri] Mortali! Ascoltate la punizione a cui vi condanniamo! Domani, al calar del sole…

N.: …Tanato in volo vi recherà tutti…

L.: …ad uno ad uno…

N.: …sull’isola d’Elachista…

L.: …che non misura più di dieci passi per lato…

N.: …ove non v’è ombra o riparo…

L.: …ove non v’è bacca…

N.: …o radice…

L.: …da cui i pesci nuotano lontano…

N.: …e parimenti fanno del lor volo gli uccelli marini.

L.: Dove, in somma, c’è solo pietra, vento e acqua salata!

N.: [con fiera soddisfazione nel comminare la giusta pena] Dove, in somma, non avrete altro pasto che divorarvi l’un l’altro!

[Ittiandro e Pandora ammutoliscono. Cachedonia sembra vagamente infastidita. Monauteo, tuttavia, rimane impassibile e replica con distrazione, abboffandosi di cinghiale:]

M.: Ah, sì? Tanto, io mieto grano dall’aria e mesco vino dalla luce del sole! Questo cinghiale, me lo son fatto strofinandomi i calzari!

L.: [agitando il bastone] Bugiardo! Quel cinghiale l’hai cacciato con fatica e con fatica l’ha cucinato tua moglie!

M.: [trincando vino] Fa lo stesso, l’importante è quel che credo io!

L.: Vedrai bene cos’è importante, sciocco mortale! Andiamo, sorella Nemesi, lasciamo tosto l’empia dimora di costoro.

[Nemesi e Lachesi si voltano e fanno per uscire]

M.: [prima che le due possano lasciare la sala] Cachedonia, ma secondo te cosa volevano, veramente, quelle due?

C.: Secondo me volevano farsi montare da te e da Ittiandro. Poverette! Rivolgere le loro senili brame a due fessi tanto invisi e ad Afrodite e ad Eros!

N.: [inchiodata dall’ira ma tremante] No! Questo è veramente troppo! Non posso attendere domani e il volo di Tanato e l’elaborata punizione divisata da me e da Lachesi! Ora, in questo preciso istante, mi volto e la riduco in cenere con la feroce ira del mio sguardo!

L.: [toccandole la spalla] Aspetta, amica mia, tieni a freno la tua giusta ira e lascia che sia io a sistemar la cosa!

[Lachesi si volta e si dirige verso Cachedonia]

C.: No, no, vecchia libidinosa, non ti sbagliare, a me non piace giacere con le donne, specie se vecchie e dalle mammelle…

[con gesto ratto ma misurato Lachesi le sfiora la bocca con la punta del bastone. Cachedonia cerca di finire la frase, la sua bocca si muove ma non ne esce alcun suono. Lachesi si avvia nuovamente]

P.: Figlia! Figlia! Che t’han fatto! Perché muovi la bocca e non ne esce suono?

I.: Sorella! È inutile che tu continui a sforzarti di parlare! Sei vittima di un incantesimo!

M.: Continua a boccheggiar a guisa di pesce!

P.: Figlia, calmati, per l’amore di Irene! Il volto ti si sta facendo paonazzo!

M.: Non mi piace per niente il modo in cui calca il pavimento e dimena le braccia!

I.: No, Cachedonia, placati! Rovesciare i sedili non ti ridarà la voce!

M.: Giù le mani dal desco, pazza! Lascia almeno ch’io salvi la coppa e un cosciotto! [riesce a mettere in salvo la coppa del vino e un pezzo di cinghiale, prima che la figlia infuriata rovesci la mensa mandando in frantumi tutto il vasellame]

P.: Ittiandro, aiutami, l’impossibilità di scagliar maledizioni e ingiurie le ha tolto la ragione!

I.: Arrivo madre, tenterò di tenerla ferma!

P.: Placati, o figlia mia, sono tua madre! Sono tua ma… Ahi, m’hai colpita in volto!

I.: Padre, aiutami, non vedi che è forsennata?

M.: [in piedi in un angolo, mangiando serafico] Ora te ne accorgi, Ittiandro? Ma lascia che si sfoghi, tanto ormai il vasellame è andato!

P.: [le mani ai capelli] Il vaso! Fatemi mettere in salvo il mio vaso! Ittiandro, tu intanto tienila ferma!

I.: Non ci riesco, madre! È peggio che dar battaglia a un toro!

N.: [sorridendo compiaciuta] Venerabile Lachesi! Incomparabilmente saggia sorella mia! Una punizione più giusta non potevi dispensarla!

L.: Oh, ma sarà una cosa di breve effetto. Entro la sera le sarà tornata la favella.

N.: Ma come? Perché non disseccare per sempre una simile fonte di nequizie?

L.: Dimmi, Nemesi cara, se tu avessi incenerito Cachedonia, o se io l’avessi resa definitivamente muta, non avrebbero gli altri tre goduto di un esilio quasi sopportabile, su Elachista? Che fine avrebbe fatto allora la nostra punizione?

N.: O Lachesi cara, lodo la tua lungimiranza e ti ringrazio per aver tenuto a freno la mia ira! Non avrei mai potuto svolgere questo gravoso compito senza il tuo saggio aiuto e il tuo consiglio accorto! Andiamo ora, prima che costoro riescano a sottrarsi al supplizio riaccendendomi l’ira negli occhi!

[Lachesi e Nemesi escono di scena, mentre Cachedonia è ancora in preda alla follia]

[sta per calare la sera. Monauteo e famiglia sono ancora riuniti nella sala devastata dalla furia di Cachedonia]

MONAUTEO: [cercando pezzetti di cibo tra i cocci] Ma tu guarda se un uomo valente qual sono io deve ridursi a cercare il cibo tra le rovine come un cane sul campo di battaglia!

CACHEDONIA: Quella vecchia intrigante! Quella strega! M’ha lanciato una maledizione! È stato un vile tranello, un sotterfugio! Se si fosse battuta onestamente, con le mani o con la lingua, l’avrei certamente sconfitta! Bara! Imbrogliona!

ITTIANDRO: Se fossi incline a dire empietà come lo sei tu, sorella, mi lamenterei anch’io dell’operato della venerabile Lachesi: essa avrebbe anche potuto tacitarti per sempre, e non l’ha fatto!

C.: Leccapiedi, adulatore! “La venerabile Lachesi”, dice lui! Di una venuta in casa nostra a scagliare maledizioni! Ci ha offesi e minacciati! Lei e quell’altra serpe velenosa! “Sommamente saggia Nemesi”! Per Ares e Afrodite, che rabbia mi fai!

I.: Parli ancora, scellerata, sputi sentenze, tu che hai avuto la stolta empietà di insultare due immortali prima ancora che mettessero piede in casa nostra! Solo per baloccarti con la tua stessa spocchia! Per mero capriccio della tua tracotanza!

C.: Tu invece agisci per il bene dell’umanità, novello Prometeo! La tua codardia, che tanto ha adirato Nemesi la fiera impudica, è per la salvezza dei tuoi cari! Tu sei il figliolo buono che si fa carico del vaso di Pandora! Bravo! Hai visto tu stesso quanto gradirono gli immortali la tua pia preoccupazione di non offenderli!

PANDORA: Figli! Figli miei! Vi prego, non bisticciate! Queste sono le ultime ore che passiamo in pace sotto questo tetto, prima che Tanato ci rapisca!

M.: In pace, moglie? E quando mai? E poi non dar retta ai vaneggiamenti di una vecchia pazza. Non verrà nessun Tanato per noi, a meno che non lo decida io.

I.: Padre! Padre! Ti supplico! Anche se ormai è troppo tardi per evitare l’odioso destino, forse non è troppo tardi per sperare nella misericordia estrema di qualche immortale! Potrebbe, mosso a compassione, mutarci in una stella, o in un fiore! Ma se tu continui a chiamare “vecchia pazza” colei che decide la vita di tutti e ad ignorare Nemesi signora della vendetta divina, che speranza mai potremmo avere!

M.: Ah! Ah! Figliolo, le tue parole mi muovono al riso! Avere speranza significa avere paura! Io sono sicuro che domani Tanato non verrà, e che quelle due erano pazze millantatrici, e da qui non mi muove nessuno!

I.: Padre! Credi almeno a quello che videro i tuoi occhi! Lachesi produsse ben due terremoti, battendo il suo terribile bastone al suolo!

M.: E allora? Che c’è di strano? Quale vecchia bizzosa non è in grado di scatenare un terremoto in una casa?

I.: [esasperato] Padre, tutti i prodigi e le ragioni del mondo sono forse vani ad aprirti gli occhi? Forse gli immortali ci hanno concesso un po’ di tempo, prima della venuta di Tanato, per redimerci! Ma come puoi redimerti se credi pure d’essere nel giusto?

M.: Io non credo, io so.

I.: [crolla la testa disperato. Poi si rinfranca, illuminato da un’idea] Padre! Padre! Questo tu l’hai visto! Lachesi ha fatto tacere Cachedonia! Per tutto il pomeriggio!

M.: [scosso] Ohibò, figliolo! Quello che dici è vero! Solo un’immortale avrebbe potuto tanto, s’è trattato indubbiamente d’un prodigio! Ché di far tacere Cachedonia non m’è riuscito in tutta la vita!

C.: Ella ha imbrogliato! Nessuno può far tacere Cachedonia Monauteide!

M.: [crollando le spalle] Oh, beh, significa solo che domani Tanato ci recherà all’isola di Elachista. E con ciò? Sono sicuro che ci troveremo bene.

I.: [disperato, abbracciando il vaso] Egli è sicuro!

M.: Sì caro mio: tu speri e temi, io son sicuro. Per cui ho ragione io! Non ti corrucciare! Io so che staremo bene, e l’importante è ciò di cui son certo io!

P.: Scusate, miei cari. Io mi ritiro nelle mie stanze. Le mie orecchie rintronano di bestemmie e maledizioni e assurdità, ho bisogno d’un poco di riposo.

M.: Sì, non è una cattiva idea. Vado anch’io a coricarmi.

C.: Allora anch’io me ne vado. Non rimarrò certo da sola con questo leccapiedi!

I.: [ignorando l’ingiuria] Che Ipno vi sia clemente, cari miei. Io rimango qui a cogitare.

M.: Cogita, cogita! Costa meno di bere vino e fa girare la testa! A domani, figliolo!

[lo lasciano solo nella sala]

[Monauteo dorme beato nel talamo, mentre Pandora cammina avanti e indietro per la stanza tormentandosi]

PANDORA: Ahi, destino crudele! Non seppi tener lontana la ruina dalla mia famiglia! Me meschina! Madre inetta! Moglie incapace! Se avessi aperto gli occhi a mio marito! Se avessi tolto un po’ d’empia temerarietà a Cachedonia per dare più spirito a Ittiandro! Se non avessi aperto il vaso! Se non l’avessi scaricato sulle spalle del mio amato figliolo dal bel viso baciato dal Sole! Ma a cosa serve, adesso, lamentarsi? Perché mi tormenta il rimorso? Non basta la tremenda punizione che gli immortali ci assegnarono? No! Essa è nulla in confronto alla consapevolezza! Alla consapevolezza d’aver errato sempre! D’aver errato nel dare! D’aver errato nel prendere! D’aver errato nell’errare e persino nell’essere nel giusto! Oh, ora che tutto è scritto, e gli incerti consigli d’Elpis non valgono più a niente, com’è duro il demone del rimorso! Perché, perché non mi lascia almeno il ristoro del sonno! Oh, io lo so, anche se Ipno mi rapisse, Morfeo nei sogni continuerebbe a punirmi! E questo perché io so di meritare la punizione! Perché, perché un dio non mi strappa questo demone dal cuore e lo scaglia negli abissi più profondi del Tartaro! Perché l’occhio della mia mente non riesce a distogliersi dai fantasmi delle mie nefandezze? Pagherò, questo è certo! Perché devo pagare due, tre, innumerevoli volte? Perché devo pagare e nel sonno e nella veglia, e nel corpo e nella mente, e nella vita e nella morte? Guarda mio marito Monauteo, egli dorme come un bambino! È forse egli meno colpevole di me? No! Il sonno gli è amico perché, pur colpevole almeno quanto me, egli è più empio, egli non ammette le sue colpe! Ed egli dorme, ed io mi infliggo il castigo prima che il castigo venga! O dei onnipotenti, perché mi fate scontare questa pena? Se davvero mi mandaste sulla terra per punire gli umani, non feci forse io il vostro volere? E se invece fui calunniata per i miei doni, non fui forse io la parte danneggiata? Ma devo tacere, ché ben mi spiegò Nemesi esser questo mio sospetto, d’esser stata raggirata e in un verso e nell’altro, la mia colpa. Ahi, è questo il destino di chi è empio solo a metà: dover sopportare e il peso della punizione e il peso della colpa.

[Cachedonia si arrovella nelle sue stanze]

CACHEDONIA: Ahi, destino vigliacco! Aver tali parenti! Ché son loro a farmi bestemmiare! Son loro ad attirarmi l’antipatia degli dei! Padre sciagurato! Madre incapace! Fratello codardo! Io sarei ospite dell’Olimpo, se non fosse per loro, che m’intralciano in continuazione, m’insolentiscono, mi mettono in mente pensieri sgraditi! O dei, perché mi fate codesta ingiuria? Siete invidiosi di me che tutto posso? Siete disgustati da me che niente posso? Perché punite me per la mia favella e per la mia astuzia? Punite chi me le ha donate! Punite i ciechi come mio padre e gli ottusi come mio fratello! Non punite me, che vedo chiara ogni cosa! Mi punite per invidia! Ingiustamente mi punite! Mi punite per aver tenuto testa e ai mortali e agli immortali? Dovreste premiarmi, invece! Perché io che vedo, so e faccio non vengo premiata, la mia testa cinta di alloro? Ah, è il mio destino, sono perseguitata! Tramate contro di me perché avete paura ch’io possa spodestare persino Zeus! Ma che dico, è per colmare l’abisso ai miei piedi che pronunzio tali bestemmie, per seppellire alla vista del mio cuore mio padre il bugiardo e pasticcione e mia madre l’ammalata di bile nera! No! Maledetti! Mi mettete in testa pensieri umilianti! Io sono Cachedonia! Nessuno può aver ragione di me! Mio padre Monauteo mai avrà ragione di me! Mi rechi pure Tanato sull’isola di Elachista! Non disse Nemesi che sarò la prima? Ebbene, aspetterò il vecchio in agguato, e mi nutrirò delle sue carni! E dopo sarò la benevola tiranna di quei fantocci di mia madre e di mio fratello, e mi nutrirò del loro fegato, a guisa di fiera aquila! Ah! Ah! Ah! Deve ancora nascere l’immortale capace di divisare una maledizione tale da piegare lo spirito di Cachedonia! Ah! Ah! Ah! Venga, venga pure quel buffone di Tanato!

[si corica]

[Ittiandro è rimasto solo, col vaso, nella grande sala devastata. Ha acceso un focherello nel camino]

ITTIANDRO: Ahi, ineluttabile destino! Io lo sapevo, l’ho sempre saputo che sarebbe andata a finire così! Che sia veramente per via d’Elpis nel vaso? Se non avessi visto la rovina venirmi incontro, non avrei avuto paura, e se non avessi avuto paura, la rovina non mi sarebbe venuta incontro! Dovevo forse cavarmi gli occhi, così da non vedere? Ma allora la mia cecità m’avrebbe impedito di distinguere il sacro dal nefasto, condannandomi nuovamente alla rovina! Ahi, codesto mio ragionamento è come un serpente arrotolato su se stesso in mendaci spire: non potendo dire dov’è l’inerme coda e dove il capo mordace, non si sa di dove afferrarlo! Vediamo: cosa potrei fare ormai per salvarmi? A questo è facile rispondere: niente, il mio destino è decretato! E allora, cosa avrei dovuto fare per non meritarmi la dannazione? Avrei dovuto lasciare per tempo questa empia dimora, e smetterla d’esser prudente in vece altrui, oltre che mia. Ma come avrebbe il mio cuore potuto abbandonare la dolce madre, Pandora? Né ella mai si sarebbe permessa di lasciare il marito e la figlia. No, a costoro son legato dal sangue, e la salvezza e la ruina han da essere di tutti o di nessuno, ché pretendere di spezzare questi legami sarebbe di per sé un’empietà. Che dovevo fare, cedere alle passioni e ammazzare Cachedonia e financo mio padre quando mi facevano montare il sangue alla testa? Empietà! Ridurli alla ragione? Nemmeno le divine Nemesi e Lachesi ne furono capaci! Divenir come loro? Ma si son bene dannati, anche loro! Divini immortali, non v’è modo d’uscire dal fondo di questo pozzo dalle lisce pareti, salvo che inerpicarsi sulle funi dell’empietà e della tracotanza! Sei poi mi dite che rimaner qui, sul fondo, intrappolato, è l’empietà più grave di tutte, io divento matto! Che non lo costruii io, il pozzo, né io mi ci precipitai da solo! Non scelsi io il padre, la madre e la sorella, né tantomeno potei scegliere me stesso! O Atena illibata, soccorrimi, io divengo folle! Nemesi s’è offesa perché io, per paura di offenderla, non mossi un passo, in vita mia. Qualunque passo io avessi mosso, non avrebbe mancato di offenderla, magari in minor misura, ma l’avrebbe comunque offesa. Che sia il mio destino, di offendere gli immortali? Che sia il fardello che devo accettare? Dopo tutto, ci hanno condannati a divorarci gli uni con gli altri, genitori e figli! Cioè, a commettere la più grande delle scelleratezze. Che sia Zeus padre a punirci tuttora della tracotanza di Prometeo, obbligandoci ad esser tracotanti, per poterci punire e ancora e ancora e ancora? Che poi, Zeus stesso regna perché uccise il padre, che voleva divorarlo! [si scalda le mani al fuoco] E se Prometeo non avesse sfidato l’ira divina, noi si sarebbe ridotti a viver come le fiere selvatiche, prigioniere della Notte! Che sia la tracotanza, e lo sfidar l’ira divina, il solo modo di uscire dalla nostra condizione, il paio di pinze per afferrare il serpente arrotolato? Ma se così fosse, Monauteo e Cachedonia avrebbero salva l’esistenza! Che abbia a essere, questa “pia tracotanza”, rivolta al bene degli altri? Prometeo non beneficiò se stesso col suo furto! Ed ogni madre, creando nel suo grembo la vita a dispetto degli immortali, la dona poi ai figli, e così, e non altrimenti, si perpetua l’umana stirpe! A cosa mi condannò Nemesi? A divorare i miei cari, per la ruina mia e di tutti! Ebbene, adesso io so! [si leva in piedi, una scintilla di follia negli occhi] Adesso io possiedo il fuoco per dissipar la tua notte, o Nemesi!

[è mattino; Monauteo, Pandora e Cachedonia entrano nella sala trovando Ittiandro sconvolto dalla notte insonne]

PANDORA: Ecco il mio bellissimo figlio! Ahimè, cosa accadde al suo viso baciato dal Sole? Esso è rigato dal pianto, eppure risplende di un fuoco che non so dire se sia empio o divino!

ITTIANDRO: Adorata madre! Padre! Sorella! Ho trovato il modo di salvarvi!

CACHEDONIA: [guardandolo in tralice] Se è un espediente per farti gioco di noi, Ittiandro, è un espediente subdolo eppure sciocco.

I.: No miei cari! Guardate! [si spoglia della tunica]

MONAUTEO: Figliolo, t’ha ceduto forse il senno, stanotte, a suon di cogitare?

I.: [allargando le braccia, con sguardo allucinato] Guardate! Questo è il mio corpo. Io lo offro a voi, in sacrificio.

P.: Ahi, me disgraziata! Troppo a lungo ho lasciato che il mio povero figlio sopportasse il gravoso impaccio del mio vaso e la vicinanza d’Elpis! Ella ha fatto correre il caro sguardo del mio diletto sì lungi da recarlo all’imperscrutabile abisso della divina follia!

C.: Che intendi dire, fratello?

I: [la guarda dritto negli occhi] Voi dovete mangiare le mie carni! [guarda la madre] Il mio corpo! [guarda il padre] Prendetelo, e mangiatene tutti!

M.: [crollando le spalle, con distaccata rassegnazione] Io l’ho detto. È impazzito.

P.: Figlio! Figlio diletto! Che dici mai!

C.: Non è forse la questione di chi mangerà e di chi verrà mangiato da decidersi una volta giunti sull’isola d’Elachista? Non si adirerebbero le tue beneamate Lachesi e Nemesi se facessimo le cose prima del tempo, sfuggendo alle loro ridicole macchinazioni?

I.: Brava Cachedonia! Sta proprio in ciò che dici il cuore del mio stratagemma! Niente abbiamo da perdere: la nostra fine è decretata! Ma noi possiamo sfuggirle, ché la blasfemia che ho escogitato è sconosciuta alle nostre avversarie! Ascoltate miei cari! Era la mia tracotanza la più grave di tutte. La mia tracotanza era il terrore d’essere tracotante. Offrendomi in sacrificio a voi per salvarvi dalla vostra empietà, io commetto la hybris più grande di tutte, ma è essa una hybris nuova, inusitata, che è insieme tracotanza e supplizio! La furiosa Nemesi non potrà più accusarmi d’esser ritroso, allo stesso tempo la sua ira rovente verrà stemperata nell’imbarazzo per via della natura innovatrice ed ambigua del mio gesto di tracotanza; per la medesima ragione né lei né gli altri immortali si gioveranno, in futuro, di prendere in considerazione la faccenda. In quanto a voi, dopo aver compiuto una simile scelleratezza, nemmeno Tanato vorrà toccarvi, ergo non vi potrà più recare né all’isola di Elachista, né al cospetto di Ade, né mai più Atropo vorrà spezzare le vostre vite, col timore di contaminare le sue cesoie. Miei cari, ascoltatemi: è in tal guisa che si diventa immortali!

M.: [placido, stuzzicandosi i denti con una pagliuzza] Non son sicuro d’aver ben afferrato il tuo ragionamento sulla tracotanza, figlio mio.

I.: L’afferrerai quando Achille afferrerà la tartaruga. Comunque, se non sei sicuro, sei sulla buona strada.

M.: [alla fine convintosi] …potrebbe funzionare. Se non altro, partiremmo con lo stomaco pieno. Orsù, facciamolo!

C.: Io non ti mangio malvolentieri, fratello.

P.: [inginocchiandosi in lacrime] O figliolo, figliolo carissimo e saggio, luce del mio cuore, soffio del mio spirito, figliolo mio caro che…

C.: [interrompendola con seccata sufficienza] Termina qui il lamento, madre! [cupa] …ché abbiamo un pasto da apparecchiare.

[escono tutti di scena]

Anonimo

NOTE:

1 Modo gentile di esortare all’abbandono dell’astinenza sessuale.

2 Cachedonia s’è convinta, per suo bizzarro diletto o tornaconto, che lei e Ittiandro siano figli di padri diversi, anche se questo non corrisponde al vero.

3 Non in quanto vero, bensì in quanto Cachedonia era, essenzialmente, pazza, anche se completamente lucida.

4 Cosa non vera. Monauteo riconduce il proprio nome alle parole μόνον αύτός θεός, mentre il realtà il nome equivarrebbe, in maniera anacronistica, a solipsismo (da solus e ipse più il suffisso –ismo), dalle parole μόνον αύτός più il suffisso –εια, volto al maschile –ειο, per eufonia mutato in –εο.

Postfazione

Mi verrebbe da definire questo testo, ivi compresa questa “postfazione”, con il termine “autologico”, ovvero, che tratta di ciò che esso stesso è. Questo testo parla di hybris, ed è un atto scelleratissimo di tracotanza: contro la mitologia e la letteratura classica, contro la lingua italiana (e, in minor misura, greca), contro la religione cristiana, contro il comune buon senso. Lo è in virtù della mia smisurata ignoranza e della mia irredimibile ambizione. Ma non sono io che scelgo cosa scrivere (ivi compresa questa “postfazione”): mi viene dettato da una parte del mio cervello che non controllo.

Tralasciando quindi il penoso soggetto della mia ignoranza, dirò invece delle mie ambizioni: sono diversi i temi affrontati in questo “facsimile”di tragedia greca (a cui manca il coro unicamente perché ignoro le norme dell’utilizzo di tale dispositivo drammatico).

Innanzitutto, peschiamo il tema della hybris come motore dell’evoluzione. È facile constatare come quasi tutte le idee rivoluzionarie siano state, almeno fino al giorno d’oggi, bollate come “tracotanti” dai promotori dei paradigmi che esse andavano a demolire. Questo è avvenuto in religione, in filosofia, nelle scienze, nelle arti, nei modi di vivere la vita. Guardiamo al singolo individuo: ciascuno di noi, cercando di realizzare (e nell’accezione più comune del termine, usato come un sinonimo più incisivo di “comprendere”, e nell’accezione più vicina alla sua etimologia, “rendere reale”) se stesso si trova a dover, spesso dolorosamente, trasgredire le regole e le forme di pensiero che gli sono state messe a disposizione dal resto dell’umanità. Questo non significa affatto che trasgredire significhi automaticamente avere successo, anzi, ritengo che il più delle volte questo tentativo di innovare l’esistente apportandogli se stessi abbia come risultato la rovina del singolo individuo e di interi gruppi umani. Eppure, in qualche modo, è come se non potessimo esimerci da questo compito gravoso e sommamente pericoloso. Facciamo un passo indietro, e diamo uno sguardo al mondo biologico (almeno per come lo consociamo in virtù della hybris di passati pensatori). Si ritiene che, ad un certo punto dell’evoluzione, gli esseri viventi si siano avventurati al di fuori delle acque per conquistare la terraferma. È facile pensare che questa conquista non sia stata del primo essere che tentò di lasciare l’acqua, è legittimo anzi ritenere che, prima che qualcuno avesse successo, innumerevoli esseri viventi siano morti là dove le onde dilavavano la terraferma spoglia di vita. Questa è la hybris (e simile è la sua probabilità di successo): tentare di uscire dalle acque. Se poi guardiamo al meccanismo molecolare che soggiace all’evoluzione, ovvero il funzionamento del DNA, dovremo riconoscere che sono proprio gli errori nella trascrizione di tale prodigiosa molecola, proprio la sua imperfezione nel tramandare la sua medesima tradizione che permettono i balzi più stupefacenti nell’evoluzione (mutazioni), al costo di produrre – vera tragedia! – schiere innumerevoli di “mostri” inadatti all’esistenza.

Saltando, come di suol dire, di palo in frasca, esaminiamo la trattazione del personaggio di Pandora, l’unico, nella sgangherata famiglia di Monauteo, che sia stato tratto dalla mitologia classica e non dalla mia balzana immaginazione. Ad ispirarmi è stato l’articolo di Wikipedia in lingua inglese sul personaggio1, dove vengono avanzate diverse ipotesi sul mito di Pandora. Un’ipotesi riguarda la possibile incorretta interpretazione esiodea dell’etimologia del nome, che non significherebbe quindi “colei che ha ricevuto tutti i doni” (dagli dei) ma bensì “colei che reca tutti i doni” (dalla terra ai mortali). Ciò sarebbe sostanziato da una raffigurazione, su di una coppa, di Efesto e Atena che danno gli ultimi ritocchi alla prima donna, che viene etichettata come “Anesidora”, “colei che manda su i doni”. Anesidora è anche un epiteto di Demetra. La figura di Pandora sarebbe quindi quella di una benevola divinità ctonia dell’abbondanza, trasformata dall’affermarsi della società patriarcale nel prototipo misogino della prima donna rovina dell’umanità intera. La “mia” Pandora cerca di essere una figura sincretica rispetto a queste nozioni.2 Essa è stata portatrice di doni, in un secondo momento è stata calunniata come colei che ha procurato all’umanità tutti i suoi mali e, al momento del racconto, è una donna depressa per via dell’offesa subita – una donna repressa da un maschilismo cieco e tracotante (Monauteo) che in qualche modo perverso vede nel femminismo autarchico e delirante della figlia Cachedonia una forma scellerata di riscatto dalle umilianti ingiurie che le sono state arrecate. Altra ambiguità starebbe in quell’Elpis che Pandora riuscì a trattenere nel vaso. Sempre secondo il medesimo articolo, uno studio statistico3 stabilirebbe che, nella letteratura greca conosciuta, la parola elpis sia usata cinque volte contro una nell’accezione di “aspettativa di cose buone”, e una volta su cinque come “aspettativa di cose funeste”. Per cui, anche se un utilizzo vicino alla nostra parola “speranza” sembra essere prevalente, esiste tuttavia una serie di ricorrenze che ci possono far ricondurre la parola ad un termine più neutro, quale “aspettativa”. Oltretutto, deve essere vagliata la possibilità che anche la speranza di un futuro più radioso potesse essere, nella cultura greca, qualcosa di funesto, una dannosa illusione, piuttosto che una preziosa risorsa. Rimandando ai filologi la soluzione di tali interrogativi, dirò che nella mia “opera” Elpis è concepita in questo modo neutro come la capacità di formarsi aspettative sul futuro, e buone e cattive, ovvero, sia come speranza (spesso vana) che come angoscia esistenziale (in buona parte giustificata).

L’ultimo tema a cui voglio accennare è quello messianico, che è poi l’idea da cui sono partito per scrivere l’intera “tragedia”. Il nome del protagonista, Ittiandro, è ricavato in modo pedestre dalle parole ιχθύς (ichtys, pesce) e ανηρ (aner, genitivo ανδρός, andros, uomo), ed è un palese riferimento a Gesù. Il sacrificio di Gesù per salvare l’umanità e la pratica dell’eucarestia sono visti come massima tracotanza, il padre Monauteo si arroga molti degli attributi del Dio di tradizione giudaico-cristiana. Inoltre si verifica un’inversione: non sono i “cristiani” (la famiglia di Ittiandro) a dimenticarsi degli antichi dei pagani, sono questi ultimi, disgustati dalla tracotanza dei “teofagi monoteisti” aspiranti all’immortalità, che si rifiuteranno (almeno secondo le previsioni dell’”eroe”) di prendere in considerazione i sacrileghi. In altri termini, si verifica un mutamento di paradigma morale tramite l’adozione di un comportamento (la nevrosi che porta a dare se stessi in pasto agli altri) che è, alla luce dei vecchio sistema di valori, “innovativo”, non contemplato nel novero dei comportamenti delittuosi o scellerati, impossibile da esprimere o da collocare nelle precedenti coordinate morali. Questo “peccato originale” funge da fondamento per un paradigma tutto nuovo, incommensurabile con il precedente, e mette al riparo dalle istanze e dai conflitti di quest’ultimo al costo di inaugurare una nuova era di follia, in cui un atto malsano e sconsiderato, un atteggiamento dissennato funge da archetipo morale.

Note alla postfazione:

1 http://en.wikipedia.org/wiki/Pandora – controllato l’ultima volta il 2 maggio 2013.

2 Confronta anche Nicole Loraux in ‘Dictionnaire des mythologies’, a cura di Yves Bonnefoy, edito da Flammarion, Parigi 1981; edizione italiana: ‘Dizionario delle mitologie e delle religioni’, a cura di Italo Sordi, edito da Rizzoli, Milano 1989, voce ‘Origini degli uomini. I miti greci’, pagina 1325.

3 L’articolo di Wikipedia sopra citato riporta “Leinieks 1984, 1–4” come fonte.

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