Roma, 07/11/2009

PARTE PRIMA: JUNG

Il concetto del Sé in Jung, nell’opera conclusiva della maturità, Mysterium Coniunctionis (1).

Come ho più volte sottolineato, le asserzioni relative alla pietra [filosofale], se considerate dal punto di vista psicologico, descrivono l’archetipo del Sé, la cui fenomenologia è esemplificata nel simbolismo del mandala. Quest’ultimo descrive il Sé come una struttura concentrica, spesso nella forma della quadratura del cerchio. Gli è associato ogni tipo di simbolo secondario che esprima in generale la natura degli opposti da unire. La struttura è invariabilmente avvertita come la rappresentazione di uno stato centrale o di un centro della personalità sostanzialmente diverso dall’Io. Esso è di natura numinosa, come indicano il tipo di raffigurazione o i simboli impiegati (sole, stella, luce, fuoco, fiore, pietra preziosa ecc.). vi s’incontrano tutti i gradi di valutazione emotiva, dal disegno astratto, incolore e indifferente di un cerchio fino all’intensità suprema di un’esperienza d’illuminazione. Tutti questi aspetti si possono già costatare nell’alchimia, con l’unica differenza però che là essi appaiono proiettati nella materia, mentre qui sono intesi come simboli psichici. L’arcanum chymicum si è dunque trasformato in un evento psichico, senza perdere nulla della sua numinosità originaria.

[…] A differenza dell’ideale dell’alchimia, che consisteva nella produzione di una sostanza misteriosa, l’interpretazione psicologica conduce all’idea di totalità dell’uomo. Quest’idea ha anzitutto un significato terapeutico, giacché tenta di cogliere concettualmente quello stato psichico che risulta dal superamento della dissociazione, ossia della distanza, tra coscienza e inconscio. La compensazione alchemica corrisponde all’integrazione dell’inconscio nella coscienza, operazione che produce una trasformazione in entrambi. Anzitutto, la coscienza sperimenta un ampliamento, uno spostamento dei confini del proprio orizzonte. Ciò significa in primo luogo un considerevole miglioramento delle condizioni psichiche generali, poiché la coscienza cessa di essere turbata dall’azione contraria dell’inconscio. Ma, poiché ogni bene si deve pagare a caro prezzo, il conflitto che era prima inconscio viene così trasferito alla luce della coscienza, e quest’ultima viene gravata d’una pesante ipoteca: è da lei, ora, che si attende la soluzione del conflitto. E tuttavia la coscienza pare essere inadeguata e mal preparata a tale compito, allo stesso modo di quella degli alchimisti medioevali. Non diversamente da questi ultimi, l’uomo moderno ha bisogno di un metodo speciale, che consiste nell’esplorare e formulare i contenuti inconsci allo scopo di superare le difficoltà della coscienza. Come ho già mostrato altrove, quale risultato dello sforzo psicoterapeutico è possibile attendersi una certa esperienza del Sé. I fatti dimostrano che quest’attesa è legittima. Non di rado si tratta di esperienze realmente numinose. È superfluo tentare di descrivere il carattere di totalità. Chiunque ha vissuto un tale evento sa bene che cosa voglio dire, e per chi invece non ha fatto tale esperienza ogni descrizione resterà insufficiente.

Premessa personale

Nel 1972, studente di medicina, ho intrapreso la mia prima analisi personale con un analista didatta dell’AIPA, ufficialmente junghiano, che in realtà non dette mai segno di essere tale. Non tanto soddisfatto, dopo laureato mi rivolsi a Silvia Montefoschi, che aveva pubblicato L’uno e l’altro: interdipendenza e intersoggettività nel rapporto psicoanalitico, e cominciai il mio pendolarismo con Milano. Dopo essere stato da lei rianalizzato, divenni, per così dire, suo discepolo, e scelgo appropriatamente questo termine e non quello di allievo, perché, malauguratamente, proprio in quegli anni, la Montefoschi ebbe una svolta mistica e si trasformò da analista junghiana “di sinistra” in profetessa di una nuova era. Nella mia pervicace determinazione ad impratichirmi nella Psicologia Analitica di Jung, ricominciai per la terza volta la mia formazione con Claudio Risé, sempre a Milano e, devo dire, ne rimasi abbastanza soddisfatto.

Mi sono interessato intensamente a Jung fino al 1990, quando un’indomabile paziente borderline mi mise veramente in crisi, con le spalle al muro, e mi fece capire che non ero assolutamente attrezzato per affrontare la psicopatologia vera. Chiaramente, la crisi si era già preparata dentro di me, perché è ovvio che c’è gente che non va mai in crisi e integra qualsiasi esperienza cosiddetta “nuova” ma che nuova non può essere mai all’interno del proprio sistema mentale precostituito. La riflessione che sto facendo esprime un portato epistemologico ormai acquisito: non esiste un dato esterno capace di obbligare una teoria conoscitiva al mutamento. L’esempio che di solito si fa è quello del capovolgimento Copernicano. Non è vero che, a un certo punto, dei dati osservativi nuovi hanno imposto una teoria nuova: essi erano a disposizione da tantissimo tempo e avevano semplicemente portato la spiegazione tolemaica a un grado maggiore di complicazione. La crisi nasce dall’interno del sistema soggettivo che, come diciamo oggi, si auto-eco-organizza e crea lo spirito dei tempi attraverso il quale retroagisce e riorganizza se stesso.

L’angosciosa esperienza fatta con quella persona mi portò ad ammettere i limiti della mia preparazione, nonostante la competenza che sentivo di avere in campo junghiano. A riprova del ragionamento epistemologico che ho fatto, cioè a riprova della crisi che io stavo incubando, devo aggiungere che in quel periodo ero perseguitato da un sogno, sempre più ricorrente e tormentoso: sognavo spesso di non essermi ancora laureato in medicina. Tipicamente, nel sogno mi ricordavo all’improvviso di avere perso un sacco di tempo, di essermi praticamente dimenticato di seguire lezioni, esercitazioni e tirocini e di ritrovarmi avanti nella vita, senza arte, né parte. Molto angoscioso, a pensarci bene! Ad un certo punto, feci un sogno più vivido degli altri, dove un esperto di terapia corporea (adesso conosco Downing, ma a quel tempo era una totale invenzione del mio inconscio) mi insegnava a usare le mani nella cura dei pazienti e io provavo un grande sollievo, la sensazione di avere trovato finalmente ciò che mi mancava. Andai anche a raccontarlo a Silvia Montefoschi, dopo quasi dieci anni che non la vedevo. Aveva cambiato casa, viveva in un appartamento più modesto, e mi fece vedere la poltrona sulla quale era solita entrare in trance e comunicare con l’apostolo Giovanni. Mi rifilò le solite sciocchezze misticheggianti: le mani erano lo spirito o qualcosa del genere. Per me, invece, era chiaro che le mani erano la concretezza che mi mancava, stante che, all’interno dello junghismo, manca totalmente una teoria della clinica, un metodo per affrontare la malattia.

Per farla breve, gettai Jung alle ortiche e mi buttai a capofitto nello studio delle relazioni oggettuali. Mi sembrò che Winnicott, Fairbairn e Guntrip mi insegnassero finalmente ad usare le mani. Arrivai a Kohut e lo trovai difficile e affascinante. Scoprii l’intersoggettività di Stolorow, Brandchaft e Atwood, mi procurai tutti i loro scritti, inediti in italiano, e tradussi integralmente per iscritto quattro libri. Nel frattempo, avevo trovato a Roma Luigi Ruggiero, un anziano collega della SPI, kohutiano convinto, e mi feci rianalizzare da lui. Ruggiero si rivelò un clinico veramente esperto. Mi insegnò molto e trovai finalmente con lui quella concretezza terapeutica che mi era mancata, ma in seguito mi allontanai anche da lui, perché era un kohutiano insopportabilmente ortodosso e anche, personalmente, un vero tiranno. Alla fine, sono approdato alla SIPRe, dove mi sono sentito accolto come un fratello in un ambiente intellettuale oltremodo ampio e stimolante.

Il processo d’individuazione

Per cominciare a parlare di Jung, vorrei dire che, guardando a ritroso (e vi assicuro che ho sfrondato moltissimo, facendo questo breve riassunto della mia formazione – formazione che, dopo trentatré anni di professione, io considero ancora in corso), io mi riconosco la fatica, il coraggio, le peripezie, i rischi e il raggiungimento, per quanto sempre parziale, com’è ovvio, di ciò che Jung chiamava il processo d’individuazione. È proprio curioso che, 18 anni dopo avere buttato Jung alle ortiche, io sia qui a parlare di lui e faccia un’affermazione del genere, riconoscendomi fortemente inserito in quel perenne percorso auto formativo che Jung ha messo al centro della propria prospettiva psicologica, teorica e clinica. In qualche modo io sono ancora e per sempre junghiano. C’è dunque qualcosa di profondamente tautologico nel processo d’individuazione junghiano.

Vorrei anche dire che il sistema di pensiero e il metodo di Jung si sarebbero dovuti chiamare psicologia del processo d’individuazione e non psicologia analitica. In effetti, la sua è la meno analitica di tutte le psicologie del profondo, proiettata com’è in avanti, verso la sintesi degli opposti e lo sviluppo della personalità in una direzione spirituale, con la convinzione ottimistica che in questo modo si possano curare tutti i mali. L’individuazione per Jung è la realizzazione del Sé, la costruzione mai conclusa della personalità totale che, perseguita o tradita, interrotta o ripresa, costituisce l’avventura esistenziale dell’essere umano ed illumina interiormente di significato tutta la vita. “Vocatus atque non vocatus, deus aderit”: Jung stesso scolpì questa frase con le proprie mani sull’architrave della porta d’ingresso della sua casa. E fece cominciare la sua autobiografia con queste parole:

La mia vita è la storia di un’autorealizzazione dell’inconscio.

[…] Che cosa noi siamo per la nostra visione interiore e che cosa l’uomo sembra essere sub specie aeternitatis, può essere espresso solo con un mito. […] La scienza si serve di concetti troppo generali per poter soddisfare alla ricchezza soggettive della vita singola.

Ecco perché, a ottantatrè anni, mi sono accinto a narrare il mio mito personale. Posso fare solo dichiarazioni immediate, soltanto “raccontare delle storie”; e il problema non è quello di stabilire se esse siano o no vere, perché l’unica domanda da porre è se ciò che racconto è la mia favola, la miaverità (2).

Dice inoltre Jung in Tipi Psicologici: «Distinguo fra l’Io e il Sé, in quanto l’Io è solo il soggetto della mia coscienza, mentre il Sé è il soggetto della mia psiche totale, quindi anche di quella inconscia. In questo senso il Sé sarebbe un’entità (ideale) che include l’Io.» (3) Riflettendo su queste citazioni, possiamo facilmente individuare alcuni temi fondamentali del pensiero junghiano: la particolare valorizzazione, per non dire l’idealizzazione della psiche inconscia, intesa come fonte di saggezza, e l’idea che la personalità sia organizzata attraverso la relazione (o la mancanza di relazione) fra sottopersonalità dissociate, che sia composta cioè da una gerarchia di sottopersonalità separate.

Eccoci di fronte a qualcuno degli infiniti paradossi del pensiero junghiano: vedrete, andando avanti, l’incredibile miscuglio di vecchio e di nuovo, per non dire di arcaico e di estremamente innovativo, che incontreremo quasi ad ogni passo. L’inconscio di Jung è un inconscio originario, nel grembo del quale la coscienza progressivamente si organizza e dal quale faticosamente emerge, nel corso della storia dell’umanità, così come nel corso della storia evolutiva di ogni singolo essere umano. Da questo punto di vista, il concetto di inconscio coincide con quello di coscienza pre-riflessiva. Jung sottolinea questo significato quando dice che l’inconscio è una forma di coscienza naturale che, nelle sue manifestazioni più elementari, ci accomuna a tutti gli altri animali superiori. Come vedete, siamo mille miglia lontani dall’impronta cartesiana di Freud che collocava tutta la coscienza nell’io e concepiva l’es come un calderone ribollente di pulsioni, senza logica e senza morale, mentre la psiche nel suo complesso era per lui analizzabile secondo un principio deterministico e riduttivo.

La dissociazione della psiche nei suoi complessi

Ciò che, per Jung, mantiene separato l’io conscio dal resto della psiche, non è la rimozione e non è nemmeno una qualità così totalmente diversa dell’io rispetto al resto della psiche, ma la dissociazione. La personalità si scompone in personalità parziali e non in istanze psichiche. Non ci sono meccanismi psicologici, ma relazioni interne fra personalità parziali, chiamate anche “complessi”. Lo psichico superiore emerge dallo psichico inferiore, ma non è riducibile ad esso e tanto meno al non psichico, perché la psiche è un orizzonte di significato che può dilatarsi, ma non uscire da se stesso e può spiegarsi solo all’interno della propria stessa complessità. Vedete quanto è moderna, anzi attuale, questa presa di posizione epistemologica? È facile andare con il pensiero a Kohut, che afferma che le configurazioni psicologiche primarie sono gli stati mentali complessi, mentre le pulsioni, considerate primarie da Freud, sono per lui dei prodotti di disintegrazione.

Per quanto riguarda l’inconscio dissociato, ma non rimosso, il discorso sarebbe, allo stato attuale dello sviluppo teorico ed epistemologico della psicoanalisi, letteralmente inesauribile.

Stolorow ha elencato due aree dell’inconscio che non rientrano nell’inconscio dinamico: “l’inconscio preriflessivo, cioè i principi organizzatori che modellano e tematizzano le esperienze dell’individuo” e “l’inconscio non convalidato, cioè le esperienze che non hanno potuto essere espresse perché non hanno mai suscitato la necessaria risposta convalidante da parte dell’ambiente.” (4) È evidente la somiglianza fra i principi organizzatori di Stolorow e i complessi inconsci di Jung: di questi ultimi si potrebbe dire esattamente la stessa cosa: modellano e tematizzano le esperienze dell’individuo. D’altra parte, anche la teoria dell’inconscio non convalidato, cioè l’impossibilità di formulare le proprie esperienze, dovuta ad un deficit di scambio e di relazione con il contesto interpersonale (I contesti dell’essere è il titolo del libro di Stolorow) è quanto mai attinente, da un lato alla teoria della dissociazione, dall’altro al concetto junghiano della differenziazione o della mancata differenziazione dell’io dall’inconscio. Secondo Jung, l’io non vede i contenuti dell’inconscio non perché sono attivamente rimossi, ma perché l’io, dissociato da se stesso, è ancora, in buona misura, tutt’uno con essi. Differenziandosi e integrandosi li può distanziare da sé, illuminare e mettere a fuoco.

I principi organizzatori di Stolorow corrispondono, peraltro, alle credenze patogene di Sampson e Weiss. Sulla base di tali credenze inconsce, il paziente mette inevitabilmente alla prova l’analista e la terapia procede soltanto se questi riesce a disconfermarle, superando i test che il paziente gli fa, nei fatti più che nelle parole (5). L’inconscio non convalidato, invece, per fare l’esempio di una concezione attuale, corrisponde all’esperienza non formulata di Donnel Stern.

Una prospettiva ancora più innovativa e promettente sull’inconscio non rimosso è quella che proviene dall’infant research, che ha spalancato degli squarci sconvolgenti sulla concreta realtà non conscia degli scambi interpersonali.

Su questo punto, troppo interessante ed attuale per essere sorvolato, consentitemi di fare una breve digressione e di allargare il discorso. Sono rimasto impressionato dall’incontro con George Downing, alcuni mesi fa a Milano. Ci ha mostrato alcuni filmati di video-micro-analisi che utilizza nella terapia della coppia madre-bambino, dove lo scambio preverbale appare in tutta la sua intensità, non appena possiamo focalizzare e confrontare in contemporanea le immagini della loro mimica e della loro gestualità durante la loro interazione, con una scansione temporale inferiore al decimo di secondo. È come avere inventato il microscopio per la seconda volta e quello che si vede accadere, fotogramma dopo fotogramma, è un flusso intercomunicativo ininterrotto che ha la velocità e la drammaticità del fulmine! Lo spezzone che abbiamo lungamente analizzato era costituito da 25 secondi di filmato. Un’idea mi si è imposta con evidenza alla mente: ecco il punto di contatto, dove psiche e nervi sono la stessa cosa. Non la ghiandola pineale ipotizzata da Cartesio, ma il flusso incessante d’interconnessione intersoggettiva, non conscia e non verbale. Ma la cosa più interessante di tutte è che il preverbale non riguarda soltanto i primi due anni di vita: si tratta in verità di una dimensione psichica sempre attiva e operativa, alla quale, con l’emergere dell’autocoscienza riflessiva si accompagna la dimensione verbale, senza affatto sostituirsi, senza affatto diminuirne l’importanza. Come psicoanalisti interessati a ricostruire le fasi di sviluppo precoce della psiche, abbiamo tanto pensato e immaginato il preverbale, ma vi assicuro che vederlo concretamente in azione è un’esperienza quasi sconvolgente. A proposito della concreta rilevanza di questa dimensione dell’inconscio non dinamico, vorrei leggere uno stralcio di terapia di coppia, condotta da Susan M. Shimmerlik sulla base di queste recenti acquisizioni di metodo:

Sono seduta accanto ad una coppia, Debbie e Bob, entrambi professionisti realizzati, entrambi disperati per le difficoltà che stanno incontrando in questo matrimonio che è il secondo per entrambi. Bob appare distante e distaccato, con una capacità auto-riflessiva estremamente limitata. È spesso deconcentrato durante la seduta, si aspetta che sia Debbie a sollevare argomenti di discussione, per poi arrabbiarsi facilmente se avverte la sensazione che lei abbia detto male qualcosa. Debbie è molto emotiva ed estremamente reattiva e dura fatica a contenere le proprie reazioni contro Bob. Il loro rapporto è stato finora caratterizzato da lotte ed escalation rabbiose in ogni momento decisivo per loro. In una fase precoce del nostro lavoro, quando ha cominciato a parlare della sua famiglia d’origine, ho chiesto a Bob cosa dobbiamo pensare dell’impressionante discrepanza fra la distanza che mantiene attualmente nella relazione con suo fratello e la vicinanza affettiva che c’era fra loro da bambini. Bob sembra sconcertato, forse un po’ confuso e, apparentemente, un po’ più vicino alla sua esperienza interiore. Per un attimo, avverto la sua vulnerabilità. Poi, nel giro di pochi secondi, Debbie comincia a singhiozzare. Lui si gira polarizzandosi completamente su di lei, esprimendo confusione in relazione a ciò che le sta accadendo e la breve parentesi di apertura su se stesso è subito chiusa.

Attualmente ci sono evidenze sempre più consistenti del fatto che per tutta la vita continuiamo a processare, immagazzinare e comunicare informazioni relazionali ed affettive al di fuori della nostra consapevolezza, attraverso il sistema implicito, o come dice Lyons-Ruth (1999) il dominio dell’agito: “l’apprendimento implicito, che opera al di fuori della coscienza consapevole, è fondamentale per il complesso funzionamento dell’adulto…”

Ciò di cui ero testimone, come arrivammo a comprendere nel tempo, era una sequenza affettiva interattiva, rigidamente modellata e mutualmente costruita, eseguita nel dominio dell’implicito o dell’agito: Debbie era altamente sintonizzata sul dolore di Bob e Bob contava in qualche modo su di lei perché lo distogliesse, consentendogli di non sperimentare il proprio dolore, mentre lei permetteva a se stessa di sperimentare il proprio dolore attraverso di lui. Bob si lamentava dell’intensa reattività della moglie, ma si sentiva più al sicuro, quando la donna esprimeva dei sentimenti ai quali egli aveva un accesso limitato e che sentiva al di fuori del proprio controllo. D’altra parte, per quanto Debbie si lamentasse della distanza di Bob e della sua mancanza di responsività, essa diventava estremamente ansiosa quando lui esponeva in qualche modo la propria vulnerabilità. Sentirlo in pena, scatenava in lei esperienze di risposta immediata e di cura [originariamente dirette] verso la madre depressa e incapace e il fratellino piccolo, dopo che il padre se n’era andato, lasciando la madre senza possibilità di esprimere i propri bisogni. Questo processo che avveniva fra di loro serviva a svolgere delle funzioni regolative degli affetti. Nel tempo, Debbie e Bob erano diventati eccezionalmente sintonizzati su ciò che potevano o non potevano tollerare, in se stessi o nel proprio partner. Quando Bob si sentiva ansioso o vulnerabile, sapeva a qualche livello cosa poteva fare per scatenare la reattività di lei, in modo che lo aiutasse a disconoscere la propria vulnerabilità, permettendo contemporaneamente a lei di esprimere il proprio dolore in un modo che a lei sembrava occuparsi del dolore di lui.

Bob è forse solo oscuramente consapevole del dolore che sta registrando, prima che Debbie se ne appropri e lo trasferisca nelle sue lacrime. Io e Debbie sperimentiamo adesso una gestalt relativa al complesso dell’informazione implicita che Bob sta comunicando: il cambiamento di postura, di espressione facciale e l’improvviso silenzio, che rappresentano un’esperienza poco o nulla simbolizzata per lui. Dalla prospettiva di lui, possiamo pensare a tutto ciò come ad un affetto “potenziale”, tagliato fuori da uno sviluppo possibile, simile forse al “conosciuto non pensato” di Bollas (1987), un’esperienza potenziale che continua ad essere corto-circuitata nel contesto di tante altre relazioni. Da parte di lei, tutto ciò viene registrato all’istante (6).

Ritornando a Jung, bisogna ammettere che la sua teoria di un inconscio onnipervasivo e non dinamico non era poi così balzana come poteva sembrare. L’inconscio era per lui un universo di significati nei quali siamo continuamente immersi e dai quali possiamo facilmente essere afferrati e sopraffatti. Ciò che non possiamo condividere è l’elaborazione teorica e filosofica di questa corretta percezione delle cose. Jung ha concretizzato l’inconscio, lo ha pensato come una realtà a sé stante, che vive di vita propria nei miti, nelle fiabe, nei sogni e si organizza in base a leggi proprie che hanno caratteri di universalità: i cosiddetti archetipi dell’inconscio collettivo.

L’ambiguità fondamentale

È molto strano questo modo di pensare. Tradisce un’ambiguità fondamentale: Jung si colloca contemporaneamente dentro e fuori ai fenomeni che intende studiare. Credente abbindolato di ogni mito e religione e studioso disincantato, entrambi dentro alla stessa persona. Non a caso, il primo capitolo di Simboli e trasformazioni della libido, prima opera junghiana di Jung, pietra miliare che segnò nel 1913 la separazione definitiva da Freud, è un capitolo metodologico, dove si teorizza che i modi di pensare sono due: quello logico analitico e quello sintetico immaginativo. Quando, negli anni successivi, Jung si appassionerà all’alchimia, dirà che i due “luminari” dell’astrologia esoterica, il sole e la luna, corrispondono a queste due modalità opposte del pensiero.

La luce del sole è potentemente definitoria, perché separa nettamente gli oggetti che illumina dalle loro ombre, impenetrabilmente oscure, mentre la luce della luna è debole ma non inchioda gli oggetti nella loro oggettività, ed esercita un’azione misteriosa e profonda sui cicli della vita (pensate soltanto al fatto che il ciclo mestruale si è sincronizzato con il ciclo lunare): potremmo dire che la luna, a differenza del sole, svolge un’azione “empatica”. Il poeta si sente capito dalla luna. Il sole, invece, è l’io eroico, maschile e attivo alla conquista del mondo esterno, mentre la luna è l’io femminile, recettiva, disposta ad accogliere tutto ciò che nasce all’interno dell’essere. Il pensiero solare è la spiegazione riduttiva, attraverso nessi di causa ed effetto, quella che tenta di chiarificare l’inconscio, ordinandone i contenuti mediante catene lineari di libere associazioni. Wo es war, soll ich werden!, diceva Freud, mentre il pensiero lunare si orienta attraverso il precetto ermetico ignotum per ignotius: spiegare l’ignoto per mezzo di ciò che è ancora più ignoto. In analisi corrisponde al tentativo di non risolvere le tematiche dell’inconscio riduttivamente, ma, secondo Jung, di comprenderle come il proprio mito personale, aiutati dalla conoscenza delle religioni, dei miti e di tutta la letteratura universale; mito personale che si deve svolgere, evolvere e non risolvere. Quella che oggi chiameremmo una disposizione prettamente ermeneutica.

A questo punto, non si può ignorare un altro sorprendente parallelismo fra Jung e Kohut. Come Jung è partito dai due modi di pensare, Kohut è partito metodologicamente da una presa di posizione inaspettatamente molto simile, marcando, o forse bisogna dire concretizzando, la contrapposizione fra mondo interno e mondo esterno, come se davvero fossero due ambiti separati del reale. Nel saggio sull’empatia del 1959, il quale a sua volta è la prima opera kohutiana di Kohut, egli afferma categoricamente che, così come percepiamo il mondo esterno attraverso gli organi di senso mediante l’ “esterospezione” (neolingua!), altrettanto percepiamo il mondo interno attraverso l’introspezione. Da qui il discorso dell’empatia come introspezione vicariante, che definisce operativamente il campo della psicoanalisi e tutta una costruzione coerente della psicologia del sé, come vedremo dopo.

Tornando a Jung e al suo modo di porsi dentro-fuori rispetto ai miti, alle religioni e ai sogni, ho trovato illuminante lo studio psico-biografico che Atwood e Stolorow hanno dedicato proprio a lui. La loro ricostruzione psico-biografica parte dal fatto che, fin da bambino, Jung aveva sviluppato e coltivato nel proprio intimo un mondo segreto che gli serviva come rifugio dove ritirarsi di quando in quando, per fare fronte ad un senso di sé particolarmente poco coesivo. Egli stesso, nella propria autobiografia, ci informa a riguardo:

Scoprii che [i miei compagni di scuola] mi alienavano da me stesso. Quando ero con loro diventavo diverso rispetto a quello che ero a casa… i miei compagni di scuola… mi costringevano a essere diverso da quello che pensavo di essere… Era come se sentissi e temessi una scissione del mio essere: ne avevo paura, quasi fosse una minaccia per la mia sicurezza interiore (Jung 1961, trad. it. 1965: 38-39).

Così Atwood e Stolorow descrivono quel periodo infantile della vita di Jung:

Insieme allo spaventoso cambiamento e alla scissione interna generatasi in Jung con il suo ingresso a scuola e con la frequentazione di un mondo sociale più ampio della cerchia familiare, egli sviluppò un certo numero di giochi simbolici, veramente affascinanti, perché chiariscono i temi soggettivi che dominarono quel periodo della sua vita (fra i 7 e i 10 anni). Uno dei giochi richiedeva il fuoco… un altro gioco si basava su una curiosa relazione con una pietra. Spesso, quando Jung si sentiva solo, andava a sedersi su una pietra particolare che sporgeva sullo stesso pendio dove il ragazzo si prendeva cura del fuoco sacro. Allora cominciava un dialogo che rispecchiava le sue difficoltà nel differenziare fra il sé e l’oggetto (7).

“Io sto seduto sulla cima di questa pietra, e la pietra è sotto”, ma anche la pietra potrebbe dire “io” e pensare: “Io sono posata su questo pendio ed egli è seduto su di me”. Allora sorgeva il problema: “Sono io quello che e seduto sulla pietra, o io sono la pietra sulla quale egli siede?”… La risposta era tutt’altro che chiara… [ma] non nutrivo dubbi che la pietra fosse in qualche oscuro rapporto con me (8).

A Jung veniva voglia di andare sulla pietra, soprattutto quando si sentiva confuso e in conflitto per via del suo interminabile rimuginare sulle rivelazioni segrete della sua prima infanzia (il gesuita, il mangiatore di uomini, ecc.). Egli spesso sentiva un gran desiderio di comunicare le sue esperienze a qualcuno e interrompere l’isolamento psicologico nel quale lo avevano precipitato i suoi segreti. Allo stesso tempo, tuttavia, temeva che mostrare i suoi pensieri segreti lo avrebbe esposto all’incomprensione e al trauma del ridicolo (9).

A partire da queste premesse precoci, acquista un significato molto particolare il fatto che, molti anni dopo, trovandosi nella necessità di contrapporre il proprio punto di vista a quello di Freud, Jung abbia scelto di analizzare le fantasie e i sogni di miss Miller, una ragazza gravemente schizoide che non incontrò mai direttamente: quasi 500 pagine, nelle quali vediamo dipanarsi in tutta la sua vertiginosa farraginosità il labirinto fantastico, o gorgo, nel quale, di lì a poco, si sarebbe totalmente smarrita la mente della poveretta. Se Jung fu capace di riconoscere così a colpo sicuro le avvisaglie di un ritiro senza ritorno, è perché conosceva bene, per esperienza diretta, le vie insidiose, o forse anche le seduzioni, che conducono al distacco dalla realtà condivisa. Jung profetizzò la schizofrenia di miss Miller, che si manifestò puntualmente pochi anni più tardi.

Secondo Jung, la psicoanalisi freudiana non forniva l’aiuto necessario a chi, per proteggere il proprio sé fragile, si era rifugiato dentro se stesso, sollevando il ponte levatoio.

Quando Kohut sviluppò il concetto di empatia come introspezione vicariante, sotto le mentite spoglie di un asettico metodo osservativo, ebbe esattamente la stessa preoccupazione di Jung e la stessa necessità terapeutica di riattivare il ponte, la comunicazione fra il dentro e il fuori.

Il segreto di Jung

In quell’autentica miniera che è l’autobiografia di Jung troviamo un sogno rivelatore che risale proprio a quell’età precoce dei suoi giochi solitari. In questo sogno si esprime, a mio avviso, il nucleo di un potenziale processo delirante futuro:

Pressappoco nello stesso periodo feci il primo sogno del quale riesco a ricordarmi, un sogno che mi avrebbe preoccupato per tutta la vita.

Presso il castello di Laufen, in posizione appartata, vi era la canonica; dietro, a partire dalla fattoria del sacrestano, si stendeva un grande prato: nel sogno mi trovai in questo prato. Improvvisamente scoprii, nel terreno, una fossa scura, rettangolare, orlata di pietra, mai vista prima; con curiosità mi avvicinai e mi sporsi per guardarvi dentro. Una scala di pietra conduceva giù; scesi, esitando per la paura, e in fondo trovai una porta ad arco, chiusa da una tenda verde, pesante, enorme, che pareva di broccato, molto sontuosa. Preso dalla curiosità di vedere che cosa potesse nascondere, la sollevai da una parte. Innanzi a me, nella luce incerta, vidi una stanza rettangolare, lunga circa dieci metri; il soffitto era a volta, di pietra sbozzata; il pavimento era lastricato, e al centro un tappeto rosso si stendeva dall’entrata fino a una bassa piattaforma, sulla quale si ergeva un meraviglioso trono d’oro, con sopra – ma non ne sono sicuro – un cuscino rosso. Era un trono splendido, un vero trono regale come in un racconto di fate! Sul trono c’era qualcosa, e a tutta prima pensai che fosse un tronco d’albero, di circa quattro o cinque metri d’altezza e cinquanta centimetri di diametro. Era una cosa immensa, che quasi toccava il soffitto, composta stranamente di carne nuda e di pelle, e terminava in una specie di testa rotonda, ma senza faccia, senza capelli e con un solo – proprio in cima – unico occhio, che guardava fisso verso l’alto.

La stanza era sufficientemente illuminata, sebbene non vi fossero finestre e non si vedesse alcuna sorgente di luce; comunque al di sopra della testa vi era un’aureola luminosa. Quello strano corpo non si muoveva, eppure io avevo la sensazione che da un momento all’altro potesse scendere dal trono e avanzare verso di me strisciando come un verme. Ero paralizzato dal terrore, quando sentii la voce di mia madre, proveniente dall’esterno, dall’alto della stanza, che diceva “Sì, guardalo! Quello è il divoratore di uomini!” ciò mi spaventò ancora di più, e mi svegliai in un bagno di sudore, con una paura da morire. Per molte notti poi ebbi paura di andare a dormire, temendo di poter avere un altro sogno simile (10).

Questo bambino molto fantasioso e, penso io, considerato zero cade come Alice nel Paese delle Meraviglie dentro al buco di un mondo immaginario, dove potrebbe rinchiudersi completamente: potrebbe essere divorato dalla sua stessa creazione. Fortunatamente c’è una mamma da qualche parte che non è totalmente distratta e lo richiama alla realtà. Il guaio è che, attorno a questo nucleo di fascino e di paura, Jung cominciò realmente a costruire tutto il suo sistema di pensiero. Ci tornò sopra e ci girò attorno infinite volte nella sua vita. Pensò che il fallo fosse una divinità sotterranea da non nominare, che la luminosità che ne circondava la cima fosse connessa con l’etimologia della parola fallo (falòs = lucente, splendente), e a un certo punto, molti anni più tardi, si convinse che avesse a che fare con il motivo del cannibalismo insito nel simbolismo dell’eucaristia… e alla fine trasse queste conclusioni: «Con questo sogno infantile fui iniziato ai segreti della terra; ciò che avvenne allora fu una specie di seppellimento nella terra, e molti anni dovevano passare prima della mia resurrezione. Oggi so che ciò avvenne affinché la massima luce si facesse nell’oscurità. Fu una sorta d’iniziazione al regno delle tenebre: la mia vita intellettuale ebbe le sue inconsce origini in quell’epoca» (11).

Quello che Jung intende dire con queste parole è che quell’esperienza onirica gli fece capire che esiste un mondo di significati precostituiti, che concretamente abita dentro di noi a nostra insaputa: significati che possono risucchiarci e dissociarci o, viceversa, che noi possiamo conoscere e fare nostri, con il risultato di arricchire la nostra consapevolezza e, magicamente (dico io) anche la nostra personalità. Ecco da dove nasce la teoria degli archetipi e dell’inconscio collettivo: da un tentativo di non smentire il fascino di un’esperienza psicotica o quasi-psicotica precoce, trasformandola in teoria e prassi psicoterapeutica. Costruire una visione del mondo che gira attorno al nucleo psicotico, per renderlo sufficientemente plausibile e non perderlo, e costruire in continuazione un ponte fra di esso e la realtà condivisa, per mantenere una via di fuga e non farsi risucchiare completamente nel gorgo. Poco invidiabile come condizione esistenziale, invidiabile dal punto di vista della inesauribile spinta creativa.

Dopo la separazione da Freud, cominciò per Jung un periodo di incertezza e disorientamento. Era perseguitato da fantasie paurose, di cadaveri nel forno crematorio che poi erano ancora vivi. Fece sogni inquietanti che lo riportavano indietro nei secoli. Riprese intenzionalmente i giochi con le pietre che faceva da bambino. In riva al lago trovò

un frammento di pietra levigato dall’acqua […] Appena vistolo, capii che doveva essere un altare. Sistemai la pietra al centro, sotto la cupola, e il quel momento mi ricordai del fallo sotterraneo sognato da bambino e provai un senso di sollievo (12).

Si scatenò un flusso incessante di fantasie […] ero inerme di fronte a un mondo estraneo, dove tutto appariva difficile e incomprensibile[…] annotai le mie fantasie come meglio potevo […] Per prima cosa esponevo le fantasie come le avevo osservate, di solito in un “linguaggio elevato”, poiché questo corrisponde allo stile degli archetipi. Gli archetipi parlano un linguaggio patetico e perfino ampolloso. Uno stile che mi riesce fastidioso e mi dà ai nervi, ma poiché non sapevo di cosa si trattasse, non avevo altra scelta che scrivere tutto nello stile voluto dall’inconscio stesso. A volte era come se lo udissi con le mie orecchie, a volte come se fosse sulla mia bocca e la mia lingua stesse formulando parole; di tanto in tanto mi coglievo a bisbigliare parole: sotto la soglia della coscienza era tutto un fermento di vita (13).

Questo rapporto d’intimità con la patologia grave orientò inequivocabilmente Jung verso un preciso modello di terapia: per lui fu istintivamente ovvio interpretare la malattia come debolezza strutturale dell’io e arresto o deragliamento evolutivo. La teoria della cura come ripresa dello sviluppo interrotto avvicina una volta di più questi due grandi psicologi del sé: Jung e Kohut. Ma Jung fu il primo, in psicoanalisi, ad esserne assertore convinto.

L’ironia grottesca del sogno

Prima di passare al secondo dei due, vorrei soffermarmi un poco sull’interpretazione dei sogni, perché qui sento di conservare un debito particolare verso Jung e verso il suo straordinario talento ermeneutico.

Nei sogni ai quali ho accennato all’inizio c’è qualcosa di inequivocabilmente junghiano. Per citarne ancora uno, mi ricordo che, sempre in quel periodo di tormentoso trapasso esistenziale oltre che professionale, un collega junghiano, una persona veramente cara, voleva convincermi ad interessarmi all’astrologia. Allora feci un sogno, nel quale una voce mi diceva che io, essendo del segno del toro, come Freud, avevo una mente troppo concreta e non potevo in nessun modo credere nell’astrologia! Cosa c’è di junghiano in questi sogni? Potrei dire l’autorivelazione o l’evidenza immediata. Per Jung non vale la regola del sospetto, per cui dietro al sogno manifesto si nasconde un pensiero onirico latente: per lui, il significato del sogno è già lì, presente davanti ai nostri occhi: sta a noi diventare capaci di leggerlo. Questa impostazione verso il sogno è coerente con la posizione generale di Jung verso l’inconscio, inteso soprattutto come inconscio non dinamico. In questo modo, Jung prefigura ancora una volta Kohut, il quale, come sapete, pensava che i sogni rappresentassero lo stato del Sé e non la realizzazione camuffata di un desiderio. Prima di Kohut, già Fairbairn aveva preso una posizione simile: per lui i sogni erano dei “cortometraggi” nei quali si metteva in scena il mondo interno del sognatore. Ultimamente ho scoperto che anche Antonino Ferro, partendo da Bion, è arrivato ad una posizione molto simile:

Il sogno, secondo me, non ha bisogno di essere interpretato, ma intuito. Il sogno è la poesia della mente: o lo capisco o no. Se non lo capisco, ho una seconda chance: chiedere al paziente cosa gli faccia venire in mente, in questo modo mette in funzione la propria funzione alfa e, credendo di fare delle associazioni libere, fa un sogno sul suo sogno dando all’analista una seconda possibilità per comprendere (14).

Tornando a Jung, siamo di nuovo a confronto con la sua duplice posizione, da una parte di iniziato ai misteri, che si rivolge all’inconscio come ad una forma di saggezza oracolare, dall’altra di pensatore scientifico in anticipo sui tempi. Jung riteneva che l’inconscio svolgesse una funzione di compensazione nei confronti della coscienza e che orientasse lo sviluppo della personalità, perciò interpretava i sogni in senso prospettico, andava a cercare in essi i semi di uno sviluppo futuro. Ebbene, sentite cosa dice Daniela De Robertis in un lavoro dedicato alla complessità della coscienza (15):

Nel chiederci in quale modo la coscienza, nella sua dimensione profonda possa essere restituita alla psicoanalisi, mi viene il sospetto che forse per ritrovarla sia necessario non solo sottolineare la differenza tra il livello dell’esperienza cosciente e il livello dell’esperienza della coscienza, ma anche sottrarre la coscienza profonda al management conscio, considerando questo ultimo un registro pertinente solo alla consapevolezza o coscienza di base.

In sostanza ritengo opportuno nel maneggiare il concetto di coscienza di secondo livello, affrancarsi dal parametro del conscio, perché conscio e coscienza profonda non sono concetti solidali. Mi rendo conto che proporre una coscienza che non abita nel conscio e di conseguenza sia inconscia genera un ossimoro, un paradosso linguistico, per evitare il quale preferisco parlare di autoriflessione. Se questa funzione metariflessiva, abita lo spazio dell’inconscio, non è certamente riferibile all’inconscio freudiano, al rimosso, perché in tal caso sarebbe veramente un paradosso concettuale. La diversa e più ampia formalizzazione dell’attuale inconscio ci permette di situare la coscienza profonda nell’inconscio implicito.

[…] Quando il paziente penetra uno spazio di riflessione in cui il suo presente può presentarsi configurato in modo diverso dal suo passato, prende corpo e si mentalizza lo spazio temporale del futuro. L’insight della coscienza non è una percezione del passato, ma una percezione del futuro. Una dimensione del “poter essere malgrado e al di là dei vincoli dell’essere già stato”.

Inoltre, Jung valorizzava molto la dimensione prospettica del sogno e sono rimasto meravigliato a leggere l’ultimo lavoro ancora non pubblicato che Daniela mi ha mandato via mail, un lavoro dedicato al tempo fenomenologico nella cura psicoanalitica. Ebbene, l’ultima parte dello scritto è intitolata Considerazioni cliniche sull’interpretazione prospettica. Ovviamente, non cita Jung (Jung, purtroppo, si è autosqualificato, collocandosi praticamente al di fuori del dibattito scientifico per tutte le ragioni che abbiamo detto), eppure gran parte di quello che sta succedendo nella ricerca psicoanalitica attuale si potrebbe benissimo vedere come un’inconsapevole riscoperta di Jung. Dice Daniela:

Nell’ottica prospettica, tra i compiti in appannaggio dell’analista, ritengo che l’analisi del passato non basti; anzi, che, se esclusiva, risulti iatrogena e reificante. Perciò, concordo con Di Benedetto nell’as-serire «che, molte volte, i pazienti non sanno che farsene della fotografia psichica della loro vita». Piuttosto ascriverei tra i compiti che più mettono in campo la sensibilità dell’analista, e che caratterizzano una cura “felice”, la capacità di saper individuare la funzione gestativa in riferimento alla nascita di elementi potenziali della personalità del paziente, nei momenti in cui essa comincia a prendere forma.

[…] Nell’interpretazione prospettica, capace di comunicare la presenza di un potenziale alternativo, anche se non ancora dato, sta il valore assolutamente non profetico e non prescrittivo dell’intervento analitico rivolto al futuro; perché, a differenza della profezia che è un dire prima (profemí) e della suggestione che è un dire al posto di, l’intervento dell’analista rispetta lo scarto temporale, riconoscendo il tempo interno del paziente.

Jung attuava dei procedimenti piuttosto farraginosi, dei percorsi di cosiddetta “amplificazione” degli elementi onirici, che transitavano attraverso la mitologia, l’alchimia, l’esoterismo, la cabala, le religioni arcaiche e la simbologia di tutti i tempi e di tutti i luoghi, allo scopo di interpretare ossessivamente ogni particolare di una fantasia o di un sogno. Io non faccio così. Non idealizzo e non concretizzo l’inconscio: non penso che l’inconscio sia una tale fonte inesauribile di saggezza, che trasuda significato da ogni briciola. Passando, tuttavia, attraverso un lungo allenamento ermeneutico di tipo junghiano, sono approdato ad un metodo molto più essenziale: ho capito che il sogno, nella quasi totalità dei casi, si esprime attraverso una chiave espressiva ironico-grottesca. Lo considero come un genere letterario fatto così. Lo leggo così, vado in cerca del vertice ironico-grottesco e risolvo l’enigma. Mi trovo molto bene con questo metodo e vi assicuro che funziona quasi sempre.

Voglio portare un esempio recente. Il sognatore è un uomo molto colto che presenta dei tratti caratteriali di tipo nevrotico ossessivo e anche di tipo schizoide ed è tormentato a tratti dalla presenza, nel suo mondo interno, di un sé grandioso, a paragone del quale si vergogna e si deprime quando sperimenta i propri normali limiti umani. È in cura da parecchi anni ed è molto migliorato. Nella seduta di stamani mi ha portato il seguente sogno: «Sono in ospedale e parlo con il medico che ha seguito mia madre prima che morisse. Mia madre è lì, morta, nel letto accanto a noi che non facciamo caso. Il medico disquisisce a lungo, indicando i dettagli delle radiografie, dove io, peraltro, non riesco a vedere niente. Le mette a confronto, studia i particolari e mi espone la sua teoria che mia madre potrebbe ancora essere operata». Il sogno è stato fatto in seguito a un dopocena tragico, nel quale il sognatore è rimasto preso fino a tarda notte da una forma di ossessività-compulsività che coinvolgeva il computer e una ricerca da lui stesso definita infruttuosa e assurda. Non ho bisogno di chiedere associazioni d’idee per sapere che il medico del sogno è la sua stessa ossessività e che rappresenta, inoltre, il suo funzionamento schizoide, che avviene quando lui si ritira spaventato nelle retrovie di se stesso e lascia che il proprio corpo e il proprio cervello interagiscano meccanicamente con gli altri. L’elemento grottesco del sogno è facile da reperire: sta nel fatto che la madre è manifestamente già morta e il cadavere è lì accanto. Non sembra una barzelletta? Proviamo a valorizzare maggiormente questo elemento ironico-grottesco e ad osservare la scena del sogno a partire da questo vertice. Il sogno dice questa cosa assurda, che pur sapendolo si comporta come se non si accorgesse che sua madre è già morta. Ma noi sappiamo bene cosa significa questo: la madre morta è l’“oggetto interno cattivo”, per chiamarlo così, dal quale non riesce ancora ad allontanarsi e al quale anzi si aggrappa nelle situazioni di maggiore difficoltà. Questo era il senso della ricerca ossessiva, nella quale egli recitava per sua madre la parte del bravo bambino che non tralascia nulla dei compiti che deve fare.

Non voglio dire che non chiedo libere associazioni, anzi le chiedo sempre e mi aiutano, ma io arrivo al significato del sogno per via diretta, diciamo per illuminazione, come quando capiamo una barzelletta, appunto, e il mio metodo consiste nell’individuare l’elemento ironico-grottesco, focalizzando il mio ascolto su questa precisa lunghezza d’onda.

Un altro sogno, portato da una donna che si è recentemente separata mettendo fine ad un matrimonio protettivo ma estremamente depressivo: «Nuoto in piscina e seguo le istruzioni dell’in-segnante, ma fuori formazione, rispetto al gruppo degli altri allievi. L’istruttore m’incoraggia a cimentarmi nello stile libero, uno stile che per me è sempre stato difficile. Per un po’ ci riesco, poi una gamba mi si contrae a squadra, contro l’altra e mi blocco». Qui forse l’ironia è fin troppo evidente: la paralisi isterica concretizza la sua paura, separandosi, di cimentarsi diversamente con l’acqua, cioè con la vita emotiva, e nuotare libera.

Cerco di ricordare un sogno meno ironico. Ragazza da poco laureata che si sta avventurando con fiducia discontinua verso l’inizio della propria carriera professionale, ecco il sogno: «La madre di M. (il suo ragazzo) ha fatto una speculazione ed è venuta in possesso di una quantità di stoffe preziose. Dice che possiamo prenderle noi. Nel negozio, però, troviamo solo due sciarpe del valore di 19 euro». È bastato chiederle qualcosa a proposito della donna, per capire che questa futura suocera è l’ultima persona al mondo dalla quale potrebbe aspettarsi un aiuto. Allora dov’è il vertice ironico-grottesco? Nel vedersi confidare così poco in se stessa, da andare a fare la cosa più assurda: chiedere aiuto all’ultima persona in grado di poterglielo dare. Il sogno apre un discorso sull’autotostima, come mai è così bassa, chi l’ha ferita ecc.

Io sono ironico nel mio rapporto con l’inconscio, mentre Jung era tragico e lo prendeva tremendamente sul serio, come l’antico greco di fronte all’oracolo, o come l’ipnotista che interroga l’ipnotizzato sulle vite precedenti e crede davvero nel materiale che la psiche, dissociata dal procedimento ipnotico, gli racconta creandolo ad hoc proprio per rispondere al suo comando. Ciò dipendeva dalla condizione psichica tragica di Jung di fronte all’inconscio, dal buco nero del nucleo psicotico che lo risucchiava e dalla necessità impellente di ricostruire una diga, oltre che un ponte. Per questo motivo interpretava ossessivamente tutto, fino nei minimi dettagli, perché aveva il bisogno di tappare ogni piccola falla. E gli junghiani fanno ancora oggi così. Soprattutto dalla sua crisi in poi, il metodo più caratteristico di Jung fu quello di dialogare con le immagini dei sogni e con le personalità separate che parlavano attraverso le immagini e alle quali dette nomi pittoreschi: Ombra, Persona, Anima-Animus, Puer-Senex, ecc. La sua posizione fu sempre doppia: quella di credere e di non credere nella loro esistenza oggettiva e, in questo senso, egli incarnò davvero un archetipo, quello dello sciamano che si mantiene contemporaneamente in contatto con la salute e la malattia e tiene aperta un’improbabile via di salvezza al prezzo di un grande, incredibile impegno personale. Allontanandomi da Jung, ho capito che io non sono fatto così: io sono ironico e disincantato, istintivamente predisposto a cogliere e a valorizzare lo scarto fra coscienza consapevole e coscienza profonda preriflessiva. Per citare ancora una volta Daniela:

la coscienza è un dispositivo centralizzato che ha la funzione di mettere a confronto la configurazione del sistema-soggetto con quello che è il sistema strutturato e consolidato (sistema del Sé), costituito da procedure psichiche immagazzinate in memorie procedurali. Se nel confronto il soggetto “percepisce” la discrepanza, si avrà un riaggiustamento e una modifica delle procedure immagazzinate in memorie procedurali, il che equivale ad un accomodamento in senso piagettiano, e ad un cambiamento.

Per me, la percezione di questa discrepanza è la cosa più bella e quasi esaltante nella interpretazione dei sogni. È il motivo per cui il mio secondo (e ultimo) libro junghiano, pubblicato ironicamente quando già junghiano non ero più, si intitola Lo zen e l’arte dell’interpretazione dei sogni.

PARTE SECONDA: KOHUT

La definizione del Sé di Kohut: una rassegna tratta dai suoi scritti, scelta da lui stesso (16)

(a) Il Sé (nella cornice concettuale della psicologia del Sé in senso stretto) si presenta sulla scena della psicoanalisi come contenuto dell’apparato mentale e viene concettualizzato come un’astrazione di basso livello, cioè relativamente vicina all’esperienza […] È una struttura interna della mente, [ … ] caratterizzata da una continuità nel tempo [ …] ed ha una collocazione nella psiche [ … ] Il Sé quindi, proprio come le rappresentazioni degli oggetti, è un contenuto dell’apparato mentale, ma non è uno dei suoi componenti, non è cioè una delle istanze della psiche (1971, p. XV).

(b) Lettera a Jurgen vom Scheidt, novembre 1975 (vedi Jurgen vom Scheidt, Der falsche Weg zum Selbst. Munich: Kindler, 1976, p. 166):

Secondo me, il Sé e l’identità sono due concetti completa­mente diversi. Il Sé è un concetto di psicologia del profondo che si riferisce al nucleo della personalità ed è fatto da diverse componenti che stanno in intergioco con gli oggetti-Sé arcaici del bambino. Il Sé contiene: (1) quegli strati fondamentali della personalità dai quali proviene l’ambizione al potere e al successo, (2) i principali obiettivi idealizzati e (3) i talenti e le abilità fondamentali che mediano fra le ambizioni e gli ideali: tutto ciò si accompagna al senso di essere un’unità nello spazio e nel tempo, un’entità sensibile alle impressioni e capace di prendere l’iniziativa nelle azioni. L’identità, per contro, risulta dall’incontro fra il Sé della tarda adolescenza o della prima età adulta e la posizione socioculturale dell’individuo.

Questa distinzione mi sembra molto utile. Molti individui, per esempio, sono caratterizzati da un Sé forte, saldo e ben delimitato, precocemente acquisito nel corso della vita, ma la loro identità, a causa di circostanze successive, appare piuttosto incerta. Credo che la personalità di alcuni psicoanalisti corrisponda a questo modello. Un’identità del genere consente loro di empatizzare con persone molto diverse, mentre un Sé sufficientemente saldo li protegge dalla frammentazione. Altri presentano un’organizzazione di genere opposto: un Sé debole ma un’identità forte, magari troppo forte e, per di più, rigida. Perciò si tengono insieme intensificando l’esperienza del proprio ruolo sociale o dell’appartenenza etnica o religiosa ecc., e se queste persone vengono private dell’identità (come succede quando si spostano da una cultura ad un’altra, per esempio dal paese alla città), subiscono una disintegrazione psichica. E, per finire, ci sono anche coloro la cui identità forte e rigida poggia su un Sé saldamente strutturato.

(c) La seguente definizione è estrapolata da una proposizione negativa. Essa afferma che, quando il bambino ancora non dispone di un Sé, cioè quando ancora non è in grado di avere un’esperienza di sé, egli tuttavia è già fin dall’inizio fuso con un ambiente che fa esperienza di lui come se avesse un Sé. Questa è la definizione che possiamo estrapolare: «Il Sé è un’unità dotata di coesione nello spazio e di continuità nel tempo, è un centro d’iniziativa ed è sensibile alle impressioni» (1977, p. 99).

(d) Questa definizione è tratta dalla definizione di analisi riuscita nel caso di pazienti con disturbo del Sé (si può dire che un’analisi è riuscita quando si è stabilito un Sé saldo e coesivo). Si tratta, in parte, di una definizione genetica che si riferisce alla ripresa del processo di sviluppo infantile nel corso della terapia e, più precisamente, alla trasformazione degli oggetti-Sé (i genitori durante l’infanzia e l’analista in quanto oggetto-Sé transferale) in un Sé: «Il Sé (il Sé nucleare) consiste nelle ambizioni nucleari e negli ideali di un individuo, che agiscono insieme con un complesso di talenti e di abilità. Tali attributi interiori devono essere abbastanza forti per fungere da unità auto-propulsiva, auto-diretta e auto-sostenuta, per fornire un progetto fondamentale alla personalità e riempire di senso e di significato la vita della persona. In altri termini (geneticamente parlando), si può dire che si sia costituito un Sé (in analisi) «quando gli oggetti-Sé e le loro funzioni si sono trasformati in strutture psichiche, capaci di funzionare, per certi versi… indipendentemente, come modelli d’iniziativa autonomamente generati (ambizioni) e guida interiore (ideali)» (1977, p. 139). Ho aggiunto che l’idea di un Sé che si è definitivamente «costituito» non deve esser presa troppo alla lettera, perché certi bisogni d’oggetto-Sé permangono per tutta la vita: è segno di salute che il Sé non debba essere costretto a farcela sempre da solo, a tutti i costi, ma che in certe emergenze possa ricevere il sostegno di oggetti-Sé (vedi 1971, p. 278; 1977, p. 188).

(e) Altre definizioni possono essere estrapolate da enunciazioni più complesse, riguardanti la genesi, la struttura e le dinamiche (cioè il funzionamento) del Sé. Per esempio, mi riferisco all’esperienza introspettiva del Sé quando parlo del «senso di continuità del Sé [sarebbe meglio dire: il senso della nostra continuità], cioè il senso di essere la stessa persona durante tutta la vita, a dispetto di ogni cambiamento fisico o mentale, o di carattere, o dell’ambiente nel quale viviamo» (1977, pp. 178-182). Inoltre ho parlato della percezione del Sé come del «senso di esser sempre la stessa persona nel contesto di una realtà che ci impone limiti di tempo, mutamento e transitorietà irrimediabile». Sono arrivato alla conclusione che perfino le componenti del Sé (ambizioni, ideali, abilità e talenti) possono mutare senza che noi dobbiamo necessariamente smarrire il «senso di esser sempre la stessa persona», cioè senza determinare la perdita del Sé. Propongo perciò che non siano le componenti del Sé a stabilirne la natura, ma 11 gradiente di tensione fra esse, «la specificità immutata delle tensioni creative e auto-espressive che puntano verso il futuro». Alle pp. 180-181 paragono l’approccio freudiano verso il ritrovamento del passato a quello proustiano. Freud pensa che si possano risolvere al presente quei conflitti che il bambino non era in grado di affrontare. Proust è più vicino alla psicologia del Sé, perché si interessa al passato allo scopo di ristabilire un senso di continuità e di unitarietà del Sé, per lo meno lungo l’asse temporale. «Cosa resta in me di quei tempi andati?» sembra chiedersi il narratore nel romanzo di Proust. Si pone questa domanda subendo l’impatto di uno spaventoso senso di cambiamento (l’invecchiamento), di discontinuità e di squilibrio al quale cerca di porre rimedio.

(f) Il Sé è una struttura che si forma attraverso l’interazione di fattori ereditari e ambientali. Tende verso la realizzazione di un proprio specifico programma d’azione, determinato dalle ambizioni, mete ideali, abilità e talenti e dalle tensioni che insorgono fra queste

componenti. [In altri termini,] le ambizioni, le mete, le abilità e ì talenti, le relative tensioni, il programma d’azione che creano e tutte le attività che tendono verso la realizzazione di tale programma vengono sperimentati come un complesso dotato di continuità nello spazio e nel tempo: essi sono il Sé, centro indipendente d’iniziativa e recettore indipendente di impressioni» (Kohut e Wolf, p. 363).

(g) «Il Sé [è] il nucleo della personalità. Possiede diverse componenti che nascono nell’interazione con quelle persone dell’ambiente infantile che vengono sperimentate come oggetti-Sé. Un Sé saldo, risultato dell’interazione ottimale fra il bambino e i suoi oggetti-Sé, è costituito da tre componenti principali: (1) un polo dal quale promanano le fondamentali ambizioni al potere e al successo; (2) un secondo polo che ospita le mete ideali e (3) un’area intermedia di talenti e abilità fondamentali che vengono attivate dall’arco di tensione che si stabilisce fra le ambizioni e gli ideali» (Kohut e Wolf, p. 362).

Un rigore scientifico di vecchio stampo, a imitazione di Freud

C’è una frase nell’ultimo libro di Kohut, uscito postumo nel 1984, che Jung non avrebbe mai scritto:

Se c’è una lezione che ho imparato durante tutta la mia vita di analista è che ciò che i miei pazienti dicono è probabilmente vero: molte volte, quando avevo creduto di avere ragione e i miei pazienti torto, è venuto fuori, ma solo dopo una lunga ricerca, che la mia verità era superficiale mentre la loro verità era profonda (17).

Mi verrebbe da esclamare: gloria imperitura all’analista che ha avuto il coraggio di pronunciare questa affermazione, a prescindere da tutto il resto della sua opera e del suo pensiero!

Kohut si presenta, a differenza di Jung, con tutti i carismi della scientificità. Il suo edificio concettuale appare estremamente rigoroso; la sua originalità sorprende e certe innovazioni terminologiche e concettuali destano disagio, perché fanno l’impressione di una cosa impossibile, cioè della creazione di qualcosa dal nulla. È difficile da leggere, proprio perché questa sua forma di originalità è un po’ autistica e, a tratti, assomiglia ad una neolingua. Penso di avere letto tutto quello Kohut ha scritto, e anche più volte, traducendo inoltre parecchio dall’americano, quasi a raccogliere una sfida rispetto all’impenetrabilità del testo.

Voglio presentarvi un’osservazione curiosa di carattere introspettivo, o meglio, controtransferale. Dopo avere già letto un bel po’ di Kohut, forse per via della particolare assertività di certe sue affermazioni, mi ero fatto una vaga idea di lui come persona e me lo immaginavo fisicamente come un omone. A quel punto vidi una sua fotografia e rimasi di stucco a scoprire che invece era un omino dall’aspetto piuttosto minuto e fragile (18).

Dopo essermi approfondito maggiormente nello studio delle sue opere ed avendone raggiunta una visione complessiva, sono riuscito ad analizzare meglio il disagio che si opponeva inizialmente in me alla lettura e ho messo a fuoco diversi insight:

1) Molti suoi concetti, presentati come innovazioni assolute, sono già stati elaborati prima di lui. Lasciamo correre Jung che è così lontano dalle pretese scientifiche di Kohut, ma le sovrapposizioni con Winnicott si sprecano e il fatto di non riconoscerle, non citarle e non restituire a Winnicott quanto gli spettava di diritto rappresenta un demerito assoluto di Kohut (19). Per non parlare di Carl Rogers che aveva la propria scuola nello stesso edificio universitario dove si trovava Kohut a Chicago e da anni portava avanti il proprio discorso sull’empatia e addirittura i propri esperimenti sulle conseguenze cliniche dell’empatia e di Karen Horney che da Chicago se n’era andata due anni prima dell’arrivo di Kohut, dopo avere sviluppato una dettagliatissima psicoanalisi del sé.

2) Non solo Kohut non ha riconosciuto i propri debiti verso chi lo ha preceduto, ma nell’edificazione della Psicologia del Sé ha grottescamente imitato Freud, nel senso di presentare implicitamente se stesso come nuova incarnazione di Freud e, in un certo senso, come se Freud stesso non fosse mai esistito. Qui la cosa è più sottile, perché Kohut non ha mai disconosciuto il valore di Freud ed ha costruito la propria psicoanalisi accanto a quella freudiana (“scissione verticale”, per usare la sua stessa terminologia). Quel che è certo, l’impressione che fa è quella di averne imitato troppo lo scheletro. Io penso che Kohut fosse inconsciamente e grandiosamente identificato con Freud e a conferma di ciò e anche del fatto che la verità più nascosta è sempre quella più apertamente evidente, dovete sapere che Kohut, prima di diventare kohutiano, metteva tanto zelo nel suo insegnamento freudiano ortodosso all’istituto psicoanalitico di Chicago che aveva ricevuto il soprannome di “Mister Psicoanalisi”!

3) Le premesse filosofiche sulle quali poggia il suo rigoroso edificio concettuale sono fragili, come il gigante dai piedi d’argilla.

4) Concretizza il Sé e si sbarazza in questo modo delle difficoltà teoriche e metodologiche inevitabilmente presenti in ogni tentativo di analizzare la soggettività, ricadendo in una logica di tipo oggettivante. Questo gli serve per evitare la crisi della prospettiva intrapsichica monopersonale, perché la soggettività comporta l’intersoggettività e di questo Kohut non ne voleva sapere. Ben gli stanno le critiche di Stolorow che lo colloca fra i teorici della mente isolata.

Partiamo dalle premesse filosofiche. Nel saggio intitolato Introspezione, empatia e psicoanalisi: indagine sul rapporto tra modalità di osservazione e teoria, pubblicato nel 1959 (20), Kohut compie una sorta di rifondazione epistemologica e definisce operativamente la psicoanalisi a partire dal metodo di osservazione che utilizza. Il metodo consiste nell’impiego dell’introspezione e dell’empatia (concepita come una forma particolare d’introspezione, detta vicariante), come “costituenti essenziali” dell’osservazione. Il metodo, a sua volta, delimita il campo. Infatti, Kohut argomenta così: la realtà conoscibile si presenta ai nostri sensi ordinari attraverso l’“esterospezione” come “mondo esterno” e al nostro senso interno, cioè all’introspezione, come “mondo interno”. La psicoanalisi viene perciò definita, al di là delle teorie che possono cambiare nel corso del tempo, come scienza del mondo interno. Gli oggetti osservati attraverso l’introspezione e l’empatia sono gli stati mentali complessi: sono questi i costituenti elementari della psiche, per il fatto che non sono scomponibili senza snaturarsi in niente altro di più elementare. Le pulsioni, per esempio, non sono costituenti elementari: sono secondarie alla rottura patologica di stati mentali più complessi. Per capirci meglio, potremmo dire che la psiche (cioè la soggettività) non si scompone in parti secondo Kohut: non esistono nemmeno gli affetti o le emozioni come entità isolate a sé stanti, esistono solo gli stati del Sé. Non esiste la tristezza se non come astrazione verbale. In realtà, esiste un Sé triste, un Sé angosciato, un Sé emozionato ecc.; per cui Luigi Ruggiero, il mio maestro, parla nel suo libro di cambiamento di paradigma e di metodo olistico della psicologia del Sé (21).

Come ho detto, tutto ciò appare di un rigore impressionante, ma riflettiamo un poco. Kohut non vuole isolare le emozioni e tutti gli altri elementi che caratterizzano il mondo interno, ma che significa concretizzare il mondo interno nel suo insieme, come fa lui, e definirlo tout court come una realtà ontologica a se stante, pari grado rispetto al mondo esterno? L’introspezione, a differenza degli occhi e delle orecchie, non è un organo di senso, ma una direzione nella quale si volge la coscienza. Che dire del flusso comunicativo non cosciente che vediamo con la video analisi: si tratta di mondo interno o di mondo esterno? La verità è che il “mondo interno” è una metafora, perché di mondo ce n’è uno solo! E, alla fine, che differenza c’è fra la concretizzazione delle due forme del pensare di Jung e la concretizzazione di due mondi contrapposti secondo Kohut? Forse era più coerente Jung che rinunciava in partenza alle pretese di una spiegazione totalmente razionale delle proprie idee.

L’osservazione empatica continuativa e prolungata

Kohut voleva essere uno scienziato rigoroso e quindi doveva dire che l’empatia è un metodo scientifico di osservazione. Poi ha sostenuto che bisogna osservare a lungo le persone in questo modo, a volte anche per anni, prima di proferire verbo. Secondo la versione scientifica del procedimento, ciò è necessario, perché è veramente difficile capire con la necessaria precisione come sono fatte dentro le persone. Io invece sono convinto che l’empatia vada mantenuta a lungo, perché svolge il suo ruolo facendo sentire le persone profondamente comprese e così mette in moto un processo psicoanalitico che altrimenti, nei casi gravi, rimarrebbe bloccato per sempre.

Sono convinto che Kohut sia riuscito a fare esattamente questo e che questo sia stato il suo vero, grande merito. Egli è riuscito a dimostrare che anche i casi gravi, precedentemente considerati non analizzabili perché sembrava che non sviluppassero un transfert, sottoposti ad un ascolto empatico prolungato e continuativo, altrochè se sviluppavano un transfert, e anche molto forte ed esigente, caratterizzato da forti idealizzazioni e pressanti richieste di rispecchiamento, entrambe di tipo fusionale. Su questo importante fenomeno, Kohut ha saputo lavorare in maniera magistrale e i suoi contributi rappresentano una pietra miliare nella storia della psicoanalisi. Prima di tutto, ha saputo riconoscere e accogliere questo fenomeno: «Se l’analista è capace di sopportare il calore, se continua ad allargare la sua osservazione empatica anziché allontanarsi dal paziente dichiarandolo non analizzabile – come se questo termine connotasse una realtà oggettiva nella quale l’analista stesso non è incluso – potrà essere ricompensato dall’assistere al modo in cui un caso al limite diventa un disturbo narcisistico della personalità (cioè una nevrosi grave ma analizzabile)» (22). E ancora: «se l’analista può mostrare al paziente che gli chiede di lodarlo il bisogno disperato del bambino senza specchio che è dentro di lui, e se l’analista può mostrare al paziente rabbioso la disperazione e l’incapacità che stanno dietro la rabbia, se può dimostrargli cioè che la sua rabbia è la diretta conseguenza del fatto che non può avanzare le sue effettive richieste, allora i vecchi bisogni cominceranno ad apparire in modo più manifesto, mentre il paziente diventerà più empatico verso se stesso.» (23) Poi ha saputo lavorarci su teoricamente in maniera originale e creativa. Kohut chiamò “transfert d’oggettosé” questo fenomeno e capì che il paziente grave ha bisogno di usare chi lo aiuta come un’estensione di se stesso, senza riguardo per la sua soggettività. Nel transfert d’oggettosé non è in gioco una valenza dinamica e, in realtà, neppure il termine “transfert” sarebbe appropriato, perché non c’è nessuno spostamento del passato sul presente. È in gioco qualcosa di molto più drammatico e basilare: la fragile e inaspettata ripresa della disperata speranza di riabilitare il proprio sé malato.

Esiste uno scritto interessantissimo, Le due analisi del signor Z., dove Kohut presenta lo stesso caso, precedentemente da lui analizzato secondo il metodo classico e successivamente rianalizzato alla luce delle nuove scoperte della psicologia del Sé.

[…] in conseguenza del sentirsi all’interno dell’ambiente messo a disposizione dall’analista idealizzato… il paziente diventò centrato su di sé, esigente, con pretese di empatia perfetta e incline a reagire con rabbia alla più piccola mancanza di sintonia con il proprio stato psicologico, alla minima incomprensione delle proprie comunicazioni. Questa fase della seconda analisi era assolutamente simile alla fase corrispondente della prima. Ciò che differiva, tuttavia, era la mia valutazione del significato del suo comportamento. Mentre nella prima analisi lo avevo considerato in sostanza come difensivo, e all’inizio lo avevo tollerato come inevitabile e in seguito avevo preso posizione contro di esso, ora lo mettevo a fuoco con la serietà rispettosa dell’analista di fronte a materiale analitico importante. […] Questo atteggiamento diverso ebbe due conseguenze favorevoli. Liberò l’analisi da un pesante artefatto iatrogeno – la sua rabbia improduttiva contro di me e i conseguenti scontri con me – che avevo prima ritenuto una concomitante inevitabile dell’analisi delle sue resistenze. Inoltre permise che l’analisi cominciasse a penetrare nelle profondità di un settore precedentemente inesplorato della personalità del paziente e a illuminarlo (24).

Ripete spesso Kohut nei suoi scritti che il sé ha bisogno di un ambiente empatico per vivere, così come il corpo fisico ha bisogno di ossigeno nell’aria per respirare. Questo, per quanto riguarda un sé sufficientemente sano. Nella patologia del sé, non basta la normale risonanza empatica di cui tutti abbiamo bisogno e ci accontentiamo, perché essa non è fruibile da parte del sé malato. Per guarire, il sé malato deve riprendere uno sviluppo interrotto in fasi precoci, per cui è indispensabile che i suoi bisogni arcaici siano accolti e non respinti. Secondo Kohut, e qui torniamo al paradigma scientifico e all’imitazione di Freud, tali bisogni non devono nemmeno essere soddisfatti, ma semplicemente compresi e, solo quando sarà il momento, interpretati. Ma sulla teoria della cura secondo Kohut torneremo in seguito. Quello che vorrei adesso presentare è un Kohut inedito, colto in flagrante, al di fuori degli scritti scientifici, in un discorso che fece in occasione di una premiazione, durante il quale evidentemente si lasciò un po’ più andare e raccontò qualche aneddoto preso dalla sua pratica professionale. Abbiamo così la possibilità di vedere attraverso un’insolita finestra come realmente se la cavava Kohut, quando era alle prese con l’impasse terapeutica di un caso grave:

Circa 15 anni fa ero impegnato in una lunga, lunga analisi con una donna estremamente vulnerabile. Dopo un’improvvisa rottura dell’analisi precedente, venne da me e si stese sul lettino. Disse che si sentiva come se fosse distesa su una bara, di cui presto il coperchio si sarebbe chiuso con un secco rumore… Era profondamente depressa, tanto che a volte pensavo che l’avrei persa, che… si sarebbe suicidata. Ma questo non avvenne. Ad un certo punto, nel periodo peggiore della sua analisi, nel corso del primo anno o giù di lì, stava talmente male che, avvertendo il suo stato d’animo, improvvisamente le dissi: «Come si sentirebbe, se le permettessi di tenere le mie dita per un po’, mentre parla? Forse questo l’aiuterebbe». Dubbia manovra, non ve la raccomando, ma mi sentivo disperato e profondamente preoccupato. Così le porsi due dita, mi sollevai leggermente sulla sedia e le porsi due dita. E ora vi dico cosa c’è di positivo in questa storia. Perché un analista rimane sempre un analista. Io le porsi due dita. Lei si attaccò alle due dita e io immediatamente detti a me stesso un’interpretazione genetica [cioè, Kohut ebbe un’intuizione, un “pensiero onirico della veglia”]. Erano le gengive senza denti di un bambino piccolo che stringevano un capezzolo vuoto. Questo era quello che si avvertiva. Non dissi nulla. Non so se è stato giusto. Ma anche lì, io reagii come analista. Dopo di allora non fu più necessario. Non direi che fece girare il vento, ma aiutò a superare un’impasse in un momento molto difficile e in tal modo, guadagnando tempo, andammo avanti per molti anni ancora, con discreto successo (25).

Qui Kohut ci presenta un esempio di “contenimento empatico”, cioè uno scambio ad un livello arcaico, dove l’empatia è mediata dal contatto corporeo. Possiamo immaginare che se egli avesse espresso solo verbalmente il suo pensiero (“sento che un contatto fisico potrebbe rincuorarla”), ciò sarebbe stato insufficiente, o forse addirittura derisorio nella percezione della paziente. Sembra però che toccare la paziente sia stato necessario anche per Kohut, perché soltanto toccandola gli si è illuminata la mente ed è riuscito a fare una reverîe molto importante. Ma questo ci porta fuori dal seminato, direttamente su di un terreno molto sdrucciolevole per Kohut: da somministratore di empatia a soggetto coinvolto in uno scambio intersoggettivo, dalla prospettiva classica della psicoanalisi monopersonale alla validità di un agito e alla psicoanalisi relazionale…

L’equivoco di mantenere una prospettiva della mente isolata

Sarà meglio affrontare, a questo punto, la teoria della cura secondo Kohut. Si tratta di una teoria geniale, ma non del tutto convincente. Con molta sagacia, direi quasi con un colpo di scena che serve a salvare la scientificità del procedimento, Kohut suggerisce che il vero fattore terapeutico non risiede nell’empatia, ma nel fallimento della comprensione empatica da parte dell’analista impegnato a comprendere. Beninteso, si tratta di un fallimento sopportabile, non traumatico: un fallimento che non deve nemmeno essere introdotto artificialmente, perché la comprensione dell’anali-sta, per quanto accurata, non sarà mai perfetta e il fatto stesso di tradurre le emozioni in parole com-porta di per sé una frustrazione inevitabile, una comprensione imperfetta. So che sembra strano, ma a pensarci bene si tratta di una trovata piuttosto convincente. Io me la spiego così: il paziente guarisce perché decide di dare una mano all’analista. Vede che il brav’uomo s’impegna a fondo e più di tanto non riesce a fare. Qualcosa capisce e poi brancola nel buio. A quel punto, il paziente apprezza la buona volontà, sopporta la delusione e fa un passo totalmente al di fuori dalle proprie abitudini mentali (almeno per quanto riguarda l’area della sua psicopatologia): osa attivarsi emotivamente e andare incontro ad un altro essere umano, per aiutarlo a capire qualcosa di più. In linea di principio, è fatta: non sarà un gran ponte, ma almeno una fragile passerella è gettata fra le due sponde e nasce di qui la speranza che, passo dopo passo, pezzetto per pezzetto, si proceda all’edificazione del sé nucleare.

Kohut elenca le qualità che un sé progressivamente più sano è in grado di esprimere: empatia nei confronti di se stesso, capacità di autocalmarsi, regolazione dell’autostima che non si abbassa più traumaticamente nell’esperienza del fallimento e non s’innalza vertiginosamente nell’esperienza del successo, senso della prospettiva e della proporzione delle cose, continuità spaziale e temporale nell’esperienza soggettiva di sé, senso di agency ecc.

Personalmente, questa spiegazione mi convince a metà. Va bene quando si tratta di disturbi nevrotici non tanto gravi, non mi pare del tutto adeguata nei casi di una certa gravità, proprio quelli che Kohut ci ha incoraggiati a trattare. In questi casi, secondo la mia esperienza, la terapia procede attraverso una serie di crisi, drammatizzazioni e sdrammatizzazioni ben più faticose del semplice comprendere e spiegare:

[…] l’empatia in senso kohutiano è un’idealizzazione di ciò che l’analista può fare, perché in realtà nessuno può provare emozioni […] senza essere personalmente e imprevedibilmente coinvolto e, quindi, essere se stesso e non l’altro della relazione […] Essere personalmente coinvolto, sostiene Fosshage, comporta due livelli: diventare in maniera controtransferale l’altro del paziente […] o, più autenticamente, essere se stessi: “prospettiva centrata sul sé dell’analista” […]. Il nostro lavoro riguarda l’intergioco di queste diverse modalità di ascolto e l’effetto terapeutico che ne può derivare. Nella crisi, il paziente vive la disperazione del fatto che io non posso essere lui, cioè la necessità di rompere una simbiosi. Nella svolta si realizza una specie di morte e rinascita, avviene una trasformazione, o meglio una nuova delimitazione e una nuova organizzazione del sé nucleare, per cui il paziente diventa improvvisamente capace di autoriflessione in un’area in cui non lo era e di scoprire ancora una volta (o per la prima volta) e di accettare il fatto che io non sono lui, pur non essendo nemmeno il suo vecchio oggetto. Sulla base dell’esperienza che fa di me come oggetto nuovo, ricostruisce improvvisamente un senso di sé nuovo che gli consente di riorganizzare in forma non più patologica determinate esperienze emotive che non poteva precedentemente integrare con il vecchio senso di sé che era mantenuto fisso nella ripetitività della relazione con il vecchio oggetto (26).

L’esperienza che io faccio nel trattamento dei casi più impegnativi, quelli che definirei secondo Kohut come “disturbi narcisistici della personalità” o disturbi borderline, è molto faticosa e consiste nell’accettare di partecipare a intense drammatizzazioni e successive sdrammatizzazioni delle convinzioni patologiche che coprono difensivamente e contemporaneamente anche riproducono e perpetuano dei granitici blocchi evolutivi e il vuoto abissale di enormi lacune di vita non vissuta.

Dopo avere brevemente discusso della cura, vorrei tornare sul concetto di oggettosé, senza trattino, un concetto rivoluzionario e profondamente ambiguo, come la duplice posizione di Jung, contemporaneamente interna ed esterna all’oggetto dell’indagine psicologica.

Secondo Kohut, l’empatia è come l’ossigeno nell’aria: non possiamo farne a meno. Restiamo vivi soltanto all’interno di questa bolla di ossigeno e di empatia, cioè all’interno di un mondo sufficientemente amico, dove i nostri significati conservano un valore comprensibile e sono sufficientemente valorizzati ad un qualche livello: un mondo capace di parlare la nostra lingua. Mi viene in mente la domanda filosofica di Einstein, che tenne me adolescente con il fiato sospeso e il naso rivolto all’insù verso le stelle, catturandomi in intense meditazioni. Così ragionava Einstein: «È un fatto che la totalità dell’esperienza sensoriale sia costituita in modo tale da permetterci di ordinarla attraverso il pensiero – un fatto che ci può solo lasciare stupiti, ma che non comprenderemo mai. Si può dire: la cosa eternamente incomprensibile del mondo è la sua comprensibilità!» (27) L’unica realtà naturale e culturale nella quale siamo in grado di esistere è quella di un mondo che ci accoglie e ci valorizza, un mondo che noi possiamo respirare, mangiare, plasmare, sul quale poggiare le nostre costruzioni, depositare i nostri ricordi e confidare in tanti diversi modi come su un’indispensabile matrice esistenziale, una vera e propria estensione del nostro Sé.

Secondo la psicologia del Sé, il rapporto d’oggettosé cambia qualità nel corso della vita, passando dalla fusionalità arcaica a forme sempre più mature e quando siamo vecchi e saggi ci accontentiamo della cosiddetta risonanza empatica: ci accontentiamo di avvertire certe intonazioni nella voce di chi ci sta vicino per sentirci accolti e non abbiamo più bisogno di tante coccole o di fare fisicamente all’amore (almeno, così dice Kohut, io per ora non lo so se è vero). Comunque, il rapporto d’oggettosé cambia qualità ma non finisce mai e non si esce mai dal rapporto d’oggettosé, come non si esce mai dalla bolla di ossigeno e di empatia che ci tiene in vita, in nessun modo. Questa è la visione sorprendente della psicologia del Sé, che non crede alla reale esistenza di soggetti separati dagli oggetti, perché se i nostri oggetti fossero realmente separati da noi, se non parlassero al nostro sé del nostro sé, allora non ci interesserebbero affatto, anzi non li vedremmo nemmeno. Da questo punto di vista, la psicologia generale del sé, cioè la versione più matura, dove non si parla più di libido o di narcisismo ma solo di disturbi del sé (che Kohut contrappone alla psicologia ristretta del sé, quella iniziale di Narcisismo e Analisi del sé), rappresenta una rivoluzione filosofica, come la teoria generale della relatività.

La svolta della psicoanalisi relazionale

In un lavoro che ho pubblicato su Ricerca Psicoanalitica (28) mi sono interrogato sulle somiglianze e le differenze fra il concetto kohutiano di oggettosé e il concetto winnicottiano di dimensione transizionale e sono giunto alle seguenti conclusioni. Le qualità transizionali secondo Winnicott sono illusioni necessarie e la sua teoria è che la crescita consente di eliminare progressivamente le illusioni, in modo da accorgerci dell’oggettiva realtà dell’altro e prendercene cura. Però la sua teoria è contraddittoria, perché Winnicott dice anche che il vero sé si esprime nella creatività e nel gioco e che questo lo può fare solo all’interno di uno spazio transizionale dal quale definitivamente non si esce mai. Per cui siamo punto e a capo. La contraddizione è dunque molto esplicita in Winnicott, mentre come al solito è più nascosta in Kohut. L’occultamento della contraddizione in Kohut dipende dall’occultamento dell’esistenza dell’altro come soggetto. Dopo avere descritto con maestria la soggettività, Kohut evita di interrogarsi sull’intersoggettività. Lascia intendere che si tratta di un ambito che riguarda la sociologia e non la psicoanalisi. Secondo lui, in psicoanalisi non si esce realmente dal mondo interno e, come abbiamo visto, nella psicologia del sé l’altro in quanto tale non è affatto contemplato, l’altro esiste solo come estensione del proprio sé.

Io credo che per uscire dalla contraddizione bisogna sostituire la polarità di mondo interno e mondo esterno con quella dell’uno e l’altro, o meglio con quella dei diversi soggetti della realtà intersoggettiva, che sono contemporaneamente soggetto e oggetto di se stessi e di ogni altro soggetto della relazione. In altri termini, bisogna passare dalla psicologia del Sé alla psicoanalisi relazionale. Ne derivano conseguenze importanti, e la prima fra tutte è che lo spazio transizionale non è un’illusioneL’illusione, semmai, è quella relativa all’esistenza di una realtà esterna che ha lo stesso grado di oggettività e lo stesso significato per tutti.

Aron ha spiegato che è perfettamente possibile interpretare lo spazio transizionale Winnicott in maniera essenzialmente relazionale. Riflettendo sul gioco dello scarabocchio, egli dice:

Il modello del gioco dello scarabocchio, una tecnica terapeutica che Winnicott elaborò per usarla con i bambini più grandicelli, è rilevante come modello del tipo d’interazione che Winnicott potrebbe avere proposto con i pazienti in generale. Nel gioco dello scarabocchio, Winnicott gioca con il suo paziente liberamente e spontaneamente. Winnicott disegna delle linee su un pezzo di carta e il bambino deve trasformare le linee in qualcosa. Poi è il bambino a disegnare delle linee ed è Winnicott che deve completarle. Di chi è il disegno finale? È del bambino o di Winnicott? Come l’oggetto transizionale, esso non è né interno né esterno sia per Winnicott sia per il paziente. Come l’interpretazione, dal punto di vista di Winnicott, esso non proviene dall’analista o dal paziente ma al contrario nasce dallo spazio transizionale tra loro (29).

Quello che vorrei fare notare, è che la ricorrente allocuzione “né interno né esterno” con la quale Winnicott si riferisce allo spazio transizionale non deve necessariamente significare che la posizione di un fenomeno, pur collocandosi (“in realtà”) da una parte o dall’altra, resta tuttavia imprecisata o indeterminata, come vorrebbe l’interpretazione corrente e “debole” del concetto. Proporrei una interpretazione più “forte”: i fenomeni transizionali si collocano in una dimensione diversa che non è, letteralmente, né quella del mondo interno, del soggetto univoco ed autosussistente, né quella esterna, dell’oggetto separato ed altrettanto autosussistente. Dimensione che io chiamerei tranquillamente e semplicemente “dimensione relazionale”. Credo che solo ultimamente cominciamo a disporre del linguaggio e della filosofia adeguati ad esprimere concettualmente in positivo ciò che Winnicott non poteva altro che tratteggiare in negativo, dicendo soltanto ciò che lo spazio transizionale non è (né interno, né esterno; né questo, né quello):

la partecipazione personale dell’analista al processo ha un effetto costante su ciò che egli comprende di se stesso e del paziente nell’interazione […] L’idea di fondo non è che fantasia e realtà siano state ridistribuite, piuttosto che siamo entrati in un mondo d’influenza reciproca e di significato co-costruito. L’espe-rienza viene considerata in un continuo processo di formulazione o spiegazione […] il racconto di vita del paziente non è solo una questione di ricostruzione storica, ma anche in parte una nuova storia che viene creata all’interno dell’interazione immediata (30).

In conformità con la concezione del costruttivismo sociale proposta da Hoffman, si può dire che lo spazio transizionale coincide con quell’intergioco molto reale di significati che si determina nel confronto e nello scambio intersoggettivo. Esso crea il mondo umano intorno a noi, l’unico mondo che la nostra mente sia in grado di comprendere e spesso, di conseguenza, l’unico che i nostri sensi siano in grado di percepire. Cosa sia la realtà, al di là di questo spazio transizionale, cioè al di là dei nostri significati e, di conseguenza, della nostra capacità di organizzare l’esperienza che ne facciamo, fondamentalmente non ci è dato sapere.

Per quanto mi riguarda, ahimé, credo che lo spazio transizionale più caratteristico della psicoanalisi relazionale sia lo “psicodramma” che fatalmente coinvolge paziente e analista nei momenti caldi della loro interazione, psicodramma e non illusione, perché comunque è una forma di realtà; è la realtà che si attua in quel luogo e in quel momento e che deve essere accettata e fatta oggetto di sincera curiosità:

Come siamo arrivati a questo? Perché avverti le differenze fra noi come aggressive e irriverenti? Perché spesso mi trovo ad aggredirti (o a volerti aggredire)? Come possiamo trovare insieme un modo di parlarci che permetta a te di avere rispetto di te stesso e a me qualche possibilità di essere e di usare me stesso in modo più autentico, in un modo che ti sia di aiuto?

[…] In questa visione del processo psicoanalitico, il cambiamento non è prodotto né dall’esplorazione e dal rispecchiamento né dallo holding dell’esperienza soggettiva del paziente, e nemmeno dall’intimare all’analizzando di riorganizzare le sue speranze e i suoi desideri secondo il senso di adeguatezza dell’analista (presentato come “realtà” o “maturità”). Piuttosto, il cambiamento psicoanalitico implica una lotta da parte di entrambi i partecipanti per superare proprio questi tipi di squilibri, che caratterizzano i modelli patologici di integrazione e le cui differenze di esperienza minacciano il legame interpersonale invece di arricchirlo. Come ha scritto Schwartz, “nella situazione psicoanalitica il lavoro dell’interpretazione non è quello di scambiare l’illusione con la realtà, ma di stabilire un confine fra l’esperienza del paziente e quella dell’analista e contemporaneamente di costruire un ponte tra di esse(31).

Alberto Lorenzini

Medico, psicoterapeuta, bolognese di nascita. Formatosi inizialmente alla psicologia analitica junghiana, si è successivamente interessato alla relazioni oggettuali e alla psicologia del Sé di Kohut. Attualmente si riconosce nel movimento della Psicoanalisi Relazionale. Ha pubblicato divesi articoli su riviste specializzate e due libri: “La psicologia del cielo” e ”Lo Zen e l’interpretazione dei sogni”, entrambi presso le Edizioni Mediterranee. E’ membro della SIPRe (Società Italiana Psicoanalisi Relazionale). Esercita a Pisa continuativamente, da trent’anni, la professione privata di psicoterapeuta.

alberto.lorenzini(at)gmail.com

Note:

(1) C. G. Jung, Mysterium coniunctionis, in OPERE, vol. 14**, Boringhieri, pp. 543-546.

(2) Ricordi, sogni, riflessioni di C. G. Jung, BUR.

(3) C. G. Jung, Tipi Psicologici, in Opere VI, Boringhieri.

(4) Robert D. Stolorow e Gorge E. Atwood, I contesti dell’essere. Le basi intersoggettive della vita psichica, Bollati Boringhieri 1995, p. 43.

(5) Joseph Weiss, Come funziona la psicoterapia, Bollati Boringhieri 1999.

(6) Susan M. Shimmerlik, Il dominio dell’implicito nelle coppie e nella terapia di coppia,Psychoanalytic Dialogues18:371–389, 2008, traduzione di Alberto Lorenzini.

(7) Atwood G.E. & Stolorow R.D. (1969) Faces in a Cloud: Intersubjectivity in Personality Theory, Jason Aronson inc., Northvale, New Jersey, p. 87. Traduzione mia.

(8) Jung C.G. (1961) Ricordi, sogni, riflessioni di C.G. Jung trad. it., II Saggiatore, Milano 1965, p. 39.

(9) Atwood G.E. & Stolorow R.D., op. cit., p. 88.

(10) Jung C.G. (1961) Ricordi, sogni, riflessioni di C.G. Jung trad. it., II Saggiatore, Milano 1965, pp. 30-31.

(11) Jung C.G. (1961) idem, p. 34.

(12) Jung C.G. (1961) idem, p. 202.

(13) Jung C.G. (1961) idem, pp. 204-205.

(14) Ferro A. (2010) Pensiero onirico e teoria del campo. Ricerca Psicoanalitica n. 1/2010.

(15) De Robertis D. Coscienza, livelli di espansione e tempo. Alcuni spunti per la cura psicoanalitica. Ricerca Psicoanalitica, 2009, XX, 1.

(16) Traduzione mia da Four Basic Concepts in Self Psychology, che costituisce il capitolo 12 di The Search for the Self, omesso (!) nella traduzione Italiana della Ricerca del Sé di Boringhieri.

(17) H. Kohut, La cura psicoanalitica, Bollati Boringhieri 1986, p. 127.

(18) A proposito del carattere di quest’omino, alcuni anni fa mi trovai ad una cena di lavoro, nel corso della quale Paul Ornstein ci raccontò il seguente aneddoto. Un bel giorno, egli fu invitato da Kohut che aveva indetto una riunione straordinaria di tutti gli allievi e i collaboratori più stretti. Kohut, il maestro, si fece trovare vestito molto elegantemente, accompagnato da una bella bottiglia di champagne. Con fare piuttosto cerimonioso fece accomodare tutti e disse che aveva un annuncio importante da fare: dopo lungo ripensamento, aveva deciso di togliere il trattino dal termine oggetto-Sé: da quel momento in poi si sarebbe chiamato oggettosé, senza trattino!

(19) Tanti collegamenti e sovrapposizioni concettuali fra relazioni oggettuali e psicologia del Sé sono stati identificati e messi in luce da: H. Bacal e K. Newman, Teorie delle relazioni oggettuali e Psicologia del Sé, Bollati Boringhieri 1993.

(20) Pubblicato nella Ricerca del Sé, Bollati Boringhieri, pp. 25-49.

(21) Luigi Ruggiero, Nevrosi e salute psichica, Lombardo Editore.

(22) H. Kohut, La cura psicoanalitica, Bollati Boringhieri 1986, p. 243, corsivo mio.

(23) H. Kohut, La ricerca del Sé, Bollati Boringhieri 1982, p. 182.

(24) H. Kohut, Le due analisi del signor Z, Astrolabio 1989, pp. 39-40.

(25) H. Kohut, The Psychoanalyst in the Community of Scholars, 1978.

(26) A. Lorenzini, La crisi necessaria, in Ricerca Psicoanalitica, 2006 n° 1, pp. 109-110. Vedi, in appendice (3), il resoconto del trattamento di un caso grave che segue la procedura descritta.

(27) Tratto da Pensieri, idee e opinioni di Einstein, Newton Compton.

(28) A. Lorenzini, Jung, Kohut e la psicoanalisi relazionale, Ricerca Psicoanalitica 2008, n° 1.

(29) L. Aron, Menti che s’incontrano, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004, p. 119.

(30) I. Hoffman, Rituale e spontaneità in psicoanalisi, Astrolabio, Roma 2000, p. 155.

(31) S. Mitchell, Gli orientamenti relazionali in psicoanalisi

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