Alberto Lorenzini presenta:

L’abisso della follia

Di George Atwood

Il 9 maggio dello scorso anno mi sono recato nella sede della John Cabot University, per incontrare George Atwood e assistere alla presentazione della traduzione italiana del suo ultimo libro, L’abisso della follia.

Questa università americana si trova in un punto splendido di Roma, accanto alla Farnesina, e il percorso che si deve fare a piedi, arrivando con la metropolitana, merita da solo un viaggio a Roma. Si costeggia il Circo Massimo, con la netta sensazione di passare accanto all’antica città imperiale che resiste quietamente arroccata al di là del tempo e osserva impassibile lo scorrere dei secoli, e si attraversa il Tevere in un punto estremamente suggestivo, proprio all’inizio dell’Isola tiberina, dove gettando lo sguardo si resta colpiti da un intrico di vegetazione fitta e fantasiosa e un impensabile accatastamento di antichi ponti rovinati.

George (lasciatemelo chiamare con il nome di battesimo) è un mito per me, un punto fermo nella mia auto-formazione psicoanalitica. Insieme a Robert Stolorow e Bernhard Brandchaft e, successivamente, Donna Orange ha creato quella corrente psicoanalitica che va sotto il nome di “psicoanalisi intersoggettiva”. Una ventina di anni fa m’innamorai a tal punto dei loro lavori, non ancora tradotti in italiano, che mi lanciai nell’impresa di tradurli io stesso, uno dopo l’altro in bella forma, dopocena e nel tempo libero, quasi un tributo solitario all’importanza che riconoscevo a quegli scritti [1]. Provai anche a proporli ad alcuni editori italiani di testi psicoanalitici, senza riuscire a suscitare il loro interesse. Soltanto diversi anni dopo cominciarono ad essere tradotti e pubblicati, dimostrando evidentemente che la mia proposta era in anticipo sui tempi. La maggiore peculiarità di questa Scuola consiste nello straordinario talento di penetrare nel nucleo della sofferenza psicologica, anche nei casi più gravi, quelli tradizionalmente considerati come “non analizzabili”. Questa abilità non è affatto disgiunta da un’impostazione teorica molto pensata, una vera e propria filosofia della mente e della terapia, sempre meglio articolata nel corso degli anni, alla quale attualmente George dà il nome di “contestualismo fenomenologico”.

Abilità clinica e consapevolezza filosofica sono al massimo grado presenti proprio in questo ultimo prodotto, il libro che George è venuto a presentarci a Roma, il primo che ha firmato da solo, poiché tutti i precedenti lavori sono apparsi come opere a più mani. Ma introdurlo in questo modo non rende minimamente l’idea. L’abisso della follia è un libro diverso da tutti quelli che lo hanno preceduto, e leggerlo produce un’esperienza emotiva d’intensità quasi sopraffacente, data l’immediatezza con la quale ci trasporta ad ogni pagina nel vivo della sofferenza più grave, ma soprattutto ci guida a comprendere ciò che pareva incomprensibile, ciò che istintivamente collocheremmo al di là di ogni possibile spiegazione razionale, la follia per l’appunto, e, paradosso dei paradossi, attraverso un cambio di prospettiva di 180 gradi ci fa apparire miracolosamente semplice quel che prima sembrava un enigma insolubile. Intendiamoci, il modo di operare che il libro ci presenta è estremamente impegnativo e richiede una disponibilità “rivoluzionaria” verso l’altro, forse dovrei dire un atto di fede nella follia, o meglio nel valore generativo dei significati che essa non è più in grado di rappresentare simbolicamente, ma solo di incarnare, concretizzandoli e rompendo gli schemi della comunicazione ordinaria, socialmente “corretta”.

Una prima intuizione della differenza che corre fra i significati rappresentati e quelli agiti, tipici della disperazione totale di chi si trova nell’abisso, si potrebbe guadagnare contrapponendo l’arte classica all’arte contemporanea, dominata come questa spesso è dallo svuotamento e dallo smembramento delle forme classiche, fino, talvolta, alla negazione e all’annichilimento dei significati condivisi. Ma andiamo per gradi.

Nemmeno dire che il testo di George è ricchissimo di esempi clinici rende lontanamente l’idea; bisogna dire piuttosto che, a imitazione del suo oggetto di cura, la follia, questo libro è un testo follemente agito, un discorso che si articola attraverso una scorribanda senza pause nelle sconvolgenti esperienze terapeutiche che sono capaci di bypassare la mente verbale e di parlare direttamente ai sensi. Ora che scrivo e posso dipanare meglio i pensieri, mi torna improvvisamente alla memoria ciò che disse George all’inizio della sua presentazione. Consigliò provocatoriamente di essere prudenti con la lettura del suo libro, perché si tratta di un libro pericoloso, che molti farebbero meglio a non leggere affatto. Sul momento presi quelle affermazioni come una forma di gigioneria, tipica del modo ironico e sdrammatizzante con il quale si fanno oggi le cose in pubblico, anche quelle più serie. Invece è proprio vero, ma è vero non soltanto per l’impatto emotivo delle storie che si presentano come interventi chirurgici a cielo aperto, ma soprattutto per il totale capovolgimento di prospettiva che il libro propone. “Débâcle intellettuale” per i terapeuti di mezzo mondo, sarebbe forse il concetto più adeguato. Ma io penso che questa débâcle non ci sarà, perché conosco bene la potenza delle difese mentali e sono sicuro che la maggior parte dei miei colleghi seguirà il consiglio di George e si guarderà bene dal leggere questo libro. Quei pochi che lo faranno con la mente aperta si troveranno di fronte ad una proposta di metodo rivoluzionaria e a mille dimostrazioni del fatto che funziona. Un po’ come se – consentitemi il paragone – Einstein avesse presentato in appendice al suo lavoro sulla relatività anche tutte le prove che sono state raccolte negli anni successivi alla pubblicazione.

Non credo di avere altra scelta, per parlare di un libro così “agito”, se non quella di riportare direttamente alcuni esempi dal testo, commentarli brevemente, nonostante la loro auto-eloquenza, e provare soltanto in seguito a sintetizzare la rivoluzione di sto parlando.

George introduce il racconto di una vita dedicata a curare la follia (lui direbbe: a tirare fuori dal gorgo coloro che rischiano di precipitare nell’abisso) riferendo del primo caso con il quale si trovò alle prese, ancora specializzando, sotto la guida del suo maestro Des Lauriers. L’incontro con Grace fu fatale per lui e segnò per sempre il suo rapporto con la follia.

Grace arrivò una mattina sul presto – erano le tre – all’accettazione dell’ospedale dove stavo svolgendo il mio training, urlando e dimenandosi… aveva visto dei lampi accecanti di luce dorata invadere la sua stanza e disse che i lampi erano in qualche modo penetrati nel suo corpo. Le chiesi a cosa pensava fosse dovuto questo evento. Lei rispose ad alta voce: “Ho avuto un rapporto sessuale con Gesù Cristo! Sono stata rapita dalla sua energia e sto per scoppiare!”

… profondamente invischiata con Dio, la Chiesa Cattolica e uno speciale destino che si prospettava per la sua vita su questo pianeta, Grace soffriva per la cosa più dannosa che un genitore può fare a un bambino: il suicidio di suo padre che lei amava teneramente.

… come aveva fatto Grace a passare dalla tragedia della morte di suo padre all’appartenenza alla Santa Trinità? Come si arriva da una perdita devastante al destino messianico della preparazione della fine del mondo? Sentendo la triste storia della mia paziente mi ponevo queste domande.

… ho passato molto tempo con lei, vedendola ogni giorno per i primi sei, sette mesi, a volte anche per due ore. Si era attaccata molto a me, ma non c’era nessun miglioramento degno di nota.

… Una volta mi guardò intensamente negli occhi e urlò: “Dottore! Io la solleverò da qui a qui (facendo cenno alle ginocchia e poi alzando le mani fino alla sua testa)!

Divenne intollerante a ogni risposta che non sembrasse collegata a qualsiasi cosa lei stesse tentando di comunicare e spesso gridava con rabbia: “Smettila d’interrompermi, mi stai interrompendo, smettila d’interrompermi!”

Alla fine Grace informò George che c’era un progetto segreto, al quale aveva lavorato a lungo e che era prossimo al compimento e tentò di arruolarlo all’interno del suo piano delirante. Divenne prepotente e intrattabile e dava ordini perentori. Voleva che George convocasse due persone del suo passato, che lei identificava come le altre due persone della Trinità, con le quali voleva riunirsi per portare a compimento la Fine del Mondo:

Questo rappresentava il punto di crisi nel progredire della nostra relazione: mi era stata data l’opportunità di partecipare alla sua missione e seguire i suoi ordini, o di rifiutare e uscire dalla sua vita… Riuscii a rimandare, promettendo di risponderle il giorno successivo.

Nella notte George si confrontò a lungo con Des Lauriers e insieme presero la decisione che George si mettesse a capo del delirio di Grace, assumendolo come struttura relazionale, invece di screditarlo come forma di pensiero illogico e patologico:

Voglio che tu sappia che ora ho un nuovo piano, un piano per te, e nel mio piano tu starai meglio e riuscirai a uscire dall’ospedale e a stare con le persone che ti amano. Se qualche incontro deve essere organizzato, non ve ne saranno altri se non quelli fra noi due, poiché è con il nostro lavoro che si attuerà il piano di cui ti sto parlando. C’è una sola persona sulla terra che devi preoccuparti d’incontrare. Io sono quella persona.

Questo fu il punto di svolta verso la guarigione e, paradossalmente, il sollevamento di George di almeno tre spanne, come Grace aveva predetto, perché creo in lui la convinzione profonda che la follia non fosse una malattia incurabile, ma l’abisso dentro al quale ognuno di noi, in determinate circostanze della vita, ha la possibilità di precipitare, oltre alla possibilità contraria di essere afferrato per i capelli e riportato alla vita. La svolta nel metodo è già tutta qui, nel primo caso di follia affrontato da George, sebbene in nuce e non ancora sviluppata come caposaldo di una teoria. Invece di screditare il delirio come insensato prodotto patologico, si tratta di fare esattamente il contrario: accoglierlo come la testimonianza più preziosa del dramma, la chiave per risolvere l’incantesimo.

In un altro caso, stavo camminando con una giovane donna, una ventiquattrenne, nei giardini di un ospedale psichiatrico dove risiedeva da un certo numero di mesi. Eravamo in silenzio all’inizio della nostra passeggiata, ma poi si girò verso di me e mi disse: «Sai, George, c’è una caverna sotto questo ospedale e ci sono degli assassini che vi si nascondono. Di notte escono e uccidono i pazienti. Penso che lavorino per la CIA. Ogni ospedale in America ha una caverna». Non sapevo come rispondere. Lei mi guardò negli occhi per cinque o dieci secondi e poi gridò una serie di domande, chiedendomi le risposte: «Credi a ciò che ti ho appena detto? Dimmi se pensi che sia vero: c’è una caverna o sono solo una malata mentale? Quale dei due? Dimmelo ora, bastardo! Mi credi? Voglio saperlo: vero o malata? Sì o no?» Continuammo con difficoltà per pochi minuti, finché non me ne andai via di corsa, mentre lei mi gridava dietro.

Dopo molte riflessioni e turbamenti, George prese una decisione coraggiosa:

Le parole della mia paziente comunicavano un messaggio sulla violenza emotiva che subiva come conseguenza di un’oggettivazione psichiatrica. Iniziai a vedere che ciò che diceva era, dal suo punto di vista, interamente veritiero… Nel nostro incontro seguente lei mi stava aspettando con le stesse domande urgenti che ripeté ancora e ancora. Le chiesi di ascoltare la mia risposta: «Mia cara, ascoltami. Devo chiederti scusa per essere scappato e non avere risposto alle tue domande. Il problema era che non avevo capito cosa tu mi stessi chiedendo, nonostante la tua grande chiarezza. Ora ho capito e ti dirò quello che penso. Stai dicendo la verità. La morte è dovunque in questo ospedale e hai ragione anche sul fatto che è presente in ogni ospedale di questo Paese. Questa non è una malattia, sei tu che mi parli della pura e semplice verità. La mia risposta a te è sì, sì, sì!»

Ma probabilmente il caso più illuminante, al fine di comprendere la rivoluzione di cui stiamo parlando è quello di Anna, un caso che era già stato pubblicato, in versione ridotta, nel Trattamento psicoanalitico (Stolorow, Branchaft, Atwood, 1987).

Anna era una diciannovenne, già ricoverata per un certo numero di anni e il mio lavoro con lei coprì diverse decadi. Credeva che dei malvagi “raggi della morte” emergessero dagli occhi dei suoi nemici e solcassero lo spazio per poi colpire il suo volto. Si trasformavano poi in piccole macchine rotanti che perforavano la pelle e il cranio, raggiungendo la morbida materia grigia in profondità. I raggi producevano nel centro del suo cervello un indurimento, quasi una calcificazione, e i tessuti calcificati le impedivano di formulare pensieri o sentimenti e le facevano sentire che stava morendo.

… Non potevo capire di cosa stesse parlando, con tutti i suoi riferimenti alla nascita, ai raggi, alle macchine e alle solidificazioni. Come risposta a questo mio vuoto di comprensione, iniziò a vedere questi raggi uscire anche dai miei occhi. In una serie d’incontri lei gridava: «Per favore, fermali! Mi stanno uccidendo! Sto morendo! Oddio, George, mi stai uccidendo! Via, via… andata!»

Dato che inizialmente non capivo il simbolismo dei suoi deliri, sono sicuro di aver mostrato la mia mancanza di comprensione nei miei occhi, mentre lei provava disperatamente a esprimere la crisi che attanagliava la sua vita.

… L’elemento che ci aiutò a uscire da questa impasse fu un sogno venuto dopo una visita di Anna a casa di sua madre. Sognò di essere di fronte a un alto specchio che guardava a un lungo corridoio a forma di tunnel. Dall’altro capo del tunnel comparve sua madre con una rivoltella carica. Rimasero entrambe lì, l’una di fronte all’altra, e lentamente la madre sollevò la pistola e gliela puntò contro. Tuonò un colpo di pistola, lo specchio dietro ad Anna si frantumò in una nuvola di frammenti turbinanti e lei sparì. A seguire, una voce incorporea intonò le parole: “Ma un ombra sul muro, ma un’ombra sul muro”, mentre una fievole sagoma di qualcosa d’indistinto apparve fugacemente.

Durante buona parte della giornata passata a casa della madre, questa l’aveva rincorsa, dicendole cose come: «Hai già preso i tuoi farmaci oggi? I dottori ti hanno dato le medicine per aiutarti! Lo sai che sei una ragazza malata, quindi non dimenticarti le tue pillole!»

Questo tipo di ingiunzioni, riproducendo il trattamento medico che Anna stava ricevendo nell’ambiente ospedaliero, fu vissuto da lei come screditante e invalidante.

… Risposi al sogno di Anna dicendole in termini semplici e concreti: «Che sogno orribile e che visita orribile deve essere stata per te. Tutta l’agitazione di tua madre ti ha letteralmente spazzata via!»

… Pensai che mi avesse presentato il sogno come un dono per aiutarmi a comprenderla. Capii che quando guardava i miei occhi e incontrava la mia confusione si sentiva invasa e indebolita… stava simbolizzando la violenza che sentiva attraverso le immagini dei raggi e delle solidificazioni mortali. Aveva bisogno che io riconoscessi direttamente la violenza di cui era vittima; questa altrimenti avrebbe solo potuto andare avanti. Dissi queste parole: «Mia cara, ho qualcosa d’importante da dirti e vorrei che l’ascoltassi con attenzione. So che ti stavo facendo del male ed è stato molto, molto brutto. Ora lo vedo chiaramente e prima non lo vedevo. Per favore, sappi che non ho mai voluto farti del male; è solo che non l’avevo capito. Ora sì. Spero e prego che tu e io riusciremo a trovare un modo di riparare al danno che ti ho procurato».

Da quel momento i raggi smisero di uscire dai miei occhi e tutto il delirio cominciò a retrocedere, perché ora poteva guardarmi e capire che avevo compreso cosa le stava succedendo. Questo era tutto ciò che serviva. È veramente incredibile quanto una piccola comprensione umana possa arrivare lontano.

In cosa consiste, in conclusione, il capovolgimento del punto di vista che consente a George di avventurarsi nel campo nuovo della terapia psicoanalitica delle psicosi e di operare simili miracoli?

Freud fu il primo a credere che ci fosse un senso nei sintomi nevrotici e valesse la pena ascoltare le libere associazioni dei malati, invece d’intervenire con la sicumera del medico che fa diagnosi e terapia dall’alto della sua conoscenza preconcetta, senza coinvolgersi personalmente nella relazione. Ma quale fu il limite di Freud? Egli identificava la coscienza con la ragione e le parole e, di conseguenza, poteva accedere soltanto ai significati rappresentati attraverso il comune e condiviso valore simbolico delle parole, per quanto essi potessero risultare distorti, spostati, condensati e rimossi a opera dell’inconscio. Ma nella sofferenza più grande le ragioni travalicano completamente le parole s’esprimono molto più drammaticamente, attraverso concretizzazioni e non rappresentazioni simboliche condivise. È proprio questo che George ha capito; lo ha capito anche in pratica e non soltanto in teoria, motivo per cui egli è in grado di avventurarsi con convinzione oltre Freud, pur mantenendo intatta l’essenza del metodo: la comprensione e la restituzione dei significati. Ciò che a mio avviso lo ha ispirato si potrebbe chiamare la fede nella relazione piuttosto che nella verità precostituita, o nel fatto che i significati stanno nelle relazioni prima che nelle parole: una forma di apertura mentale che non pone mai barriere e contrapposizioni di logica binaria fra ciò che è giusto/sbagliato, sano/patologico, saggio/folle e compagnia dicendo.

Questo è il vero miracolo: come quest’uomo abbia potuto spogliarsi a tal punto del camice e di tutti i pregiudizi, anche quelli più comprensibili che restano sempre a salvaguardia di sé, nell’andare incontro a persone considerate perse e irrecuperabili perfino dalla scienza che si occupa di loro.

La scoperta che George ha fatto e tante volte rivissuto nel trattamento dei suoi casi è che la nostra vera essenza, e non soltanto il nostro sapere si ricrea e si ritrova ogni volta nel coinvolgimento e nello scambio: si ricrea la malattia, così come si può ricreare la salute. Non abbiamo a che fare con delle realtà in sé, come la diagnosi psichiatrica ci fa pensare che sia costruendo la malattia mentale sulla falsa riga di quella organica, ma con emozioni sopraffacenti che ci coinvolgono e ci tengono imprigionati in un tragico gioco di parti.

La cosa più difficile da riconoscere, però, è che questo nuovo modo di intendere e di operare non è soltanto una strategia terapeutica che vale quando ci si trova in prossimità dell’abisso, ma l’aspetto abissale di ogni verità umana. Solo a partire da una sincera condivisione del “male” si può generare il bene. E il male non è mai il contrario del bene, ma la sua ombra e la sua unica e paradossale possibilità di nascere.

 

George Atwood
George Atwood,
geniale folletto che ama combattere al fronte della psicoterapia

 

[1] Tradussi: Faces in a Cloud, Intersubjectivity in Personality Theory, di Atwood e Stolorow; Structures of Subjectivity, Explorations in Psychoanalytic Phenomenology, di Atwood e Stolorow; Psychoanalytic Treatment, an Intersubjective Approach, di Stolorow, Brandchaft e Atwood.

http://www.albertolorenzini.eu/

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