Riflessioni teoriche sull’importanza della definizione di limiti per la creazione di una relazione di Counselling

Introduzione

La creazione di limiti nella relazione di Counselling può sembrare un metodo artificioso, volto a togliere naturalezza ad un processo, quale quello relazionale, che si viene a creare all’interno di un setting predefinito. Interessante diviene andare a verificare come il limite (e qui non posso non rimandarmi all’etimologia latina di questa parola) non si presenta solo come distanziamento tra due campi, ma anche come sentiero, via, strada capace di dare direzione alla relazione stessa. Come afferma Carl R. Rogers nel suo lavoro Psicoterapia di Consultazione i limiti del colloquio terapeutico “servono a dare alla situazione terapeutica tutti gli aspetti di una normale situazione di vita”(1). Utilizzando questa affermazione di Rogers come assioma essenziale dal quale partire, cercherò poi di dimostrare come il limite possa trasformarsi in risorsa, risorgendo a nuova vita, laddove si vadano ad intendere questi due elementi come le facce differenti della medesima medaglia.

A tal fine, non potrò esimermi dall’andare ad introdurre il mio lavoro con argomentazioni relative all’odierno contesto socio-culturale, ormai privo di limiti, entro il quale il professionista delle relazioni d’aiuto tende ad operare. Laddove il margine venga inteso come bordo e delimitazione, e cioè come ciò che si situa fuori dal centro e contemporaneamente lo avvolge, allora soltanto esso può assumere senso positivo e divenire libertà di scelta. Il limite a quanto avviene nella società moderna, non può che essere capacità di rilettura di regole e disposizioni che si trovano in un centro incomprensibile e frammentario. Si tratta, per dirla con N. Heinich, di riformulare i concetti di autenticità e bellezza e per noi di senso della vita, di prospettiva e orizzonte, di muoversi nel campo del non-previsto, del non-convenzionale, del non-conosciuto, dell’instabile. Il limite allora, non come rigida barriera, ma come soglia verso nuove forme relazionali(2).

Successivamente effettuerò una analisi su cosa è il counselling, cercando di evidenziare quali sono le sue possibili applicazioni in uno scenario complesso quale quello attuale. Infine proseguirò con un’analisi attenta rispetto alla costituzione del setting, guardando alla relazione dinamica fra setting interno ed esterno e soprattutto al processo a doppio binario di interiorizzazione dello stesso e dei suoi limiti, da parte di cliente e counsellor.

La Società del Non-Limite: la ricerca di senso

Ma quando fu solo, così Zarathustra parlò al suo cuore:
E’ mai possibile?
Questo santo vegliardo non ha ancora sentito dire,
qui nel suo bosco, che Dio è morto!”

(F. Nietsche, Così parlò Zarathustra)

Nella nostra società si sta imponendo un vero e proprio quotidiano della precarietà. L’irruzione continua nelle nostre vite dell’imprevisto non fa che immergerci in un sentimento di continua emergenza(3). In questo scenario diviene lecito domandarsi quale senso e quale valore abbiano i limiti quando vi è difficoltà a comprendere dove si trovi il limite allo sfacelo al quale stiamo assistendo. La domanda diviene ancora più complessa se si cerca, in qualità di operatori delle professioni di aiuto, di aiutare coloro che si rivolgono a noi al fine di alleviare il senso di malessere che sembra governare le loro vite. Come affermano Benasayag e Schimt, ci troviamo in una situazione molto imbarazzante nella quale non ci è più possibile accompagnare al “porto di arrivo” le persone che attraversano una crisi e spesso dobbiamo semplicemente accontentarci di stabilizzarle in essa. Questo porta ad intendere la crisi come un orizzonte insormontabile(4). Ancora non possiamo non chiederci quanto sappiamo stare nella crisi, laddove essa si presenti come un fatto strutturale della realtà che viviamo e, dunque, maggiormente presente nei fatti più quotidiani e banali ed in ciò che inconsapevolmente ci accade. Come afferma Umberto Galimberti,

« […] la domanda di senso si fa più acuta nell’età della tecnica, perché la tecnica tende a mortificare l’individuo nella sua peculiarità, per ridurlo a puro funzionario di un apparato, la cui efficienza è garantita più dalla sostituibilità degli individui che dalla loro specificità»(5)

In una società dove i confini tendono a divenire sempre più labili diviene allora fondamentale dare dei confini a se stessi, recuperando quell’aretè, di cui parlavano i greci, ovvero la capacità di reperire dentro di noi la nostra legge. Si tratta dunque non di oltrepassare i confini della nostra professione ma al contrario di assumere fino in fondo il nostro ruolo al fine di aiutare davvero coloro che richiedono il nostro aiuto. Si tratta di intraprendere un cammino di conoscenza e consapevolezza rispetto a quello che sta avvenendo, ma soprattutto di umiltà rispetto a quello che non sappiamo. Si tratta di una scelta di congruenza dunque, poiché

«[…] non ci sottraiamo alla consapevolezza di non sapere e ci sforziamo di riconoscere i nostri limiti, non certo per abbandonare coloro che si rivolgono a noi ma al contrario, proprio per affermare che siamo all’ascolto di questa angoscia contemporanea»(6).

Al contempo, il rischio, in questo caso, sta nel cadere in false simmetrie con il proprio cliente, perdendosi ed invischiandosi così nel mondo dell’altro. Ascoltare l’altro (per non dire farlo empaticamente) significa soprattutto cercare di comprendere come l’altra persona viva quello che sta avvenendo e quanto e a quale livello questo possa costituire un blocco nella sua vita. Si tratta di impegnarsi con lui su un cammino comune, di cui accettiamo di non conoscere la direzione e il percorso. Per cui «oggi che la tecnica non ci consente di pensare la storia inscritta in un fine, l’unica etica possibile è quella che si fa carico della pura processualità, che come il percorso del viandante, non ha in vista una meta»(7).

Si tratta dunque di non cadere nella trappola di “allagare” la relazione di aiuto rispetto a quelli che sono i pericoli che incombono su di noi, delle nostre personali paure e convinzioni, ma di chiarire qual è il senso che per clienti e utenti ha il vivere contemporaneo. Si tratta di fornire un orientamento di senso, ma soprattutto di dare direzione ad un processo, quello relazionale, provando a sperimentare insieme il fatto di essere, nel qui ed ora della relazione. Dare direzione al processo significa muoversi non in maniera direttiva, ma dare alla relazione stessa un significato orientato, laddove la nostra stessa presenza all’interno della medesima è in grado di generare un effetto sull’altro(8).

In una società dove la mancanza di limiti sembra provocare smarrimento, perdita di speranze progetti, la persona sembra non avere più futuro e per dirla con Maslow essa “[…] è ridotta al concreto, alla disperazione, al vuoto. Per lei il tempo è continuamente da ‘riempire’”.(9) Questo perché viene a mancare proprio la possibilità di sentirsi incentrati in un dato periodo storico. Si è cristallizzati in una dimensione temporale del vuoto, poiché ciò che la società di oggi è, sembra non essere il continuum di quello che è stato. Possiamo dire che in termini di valori, cultura, di paradigmi di lettura ai quali fare riferimento per leggere la realtà, vi sia stato uno scarto qualitativo notevole rispetto al passato. Questo si traduce in una incapacità a leggere, in termini procedurali ciò che è stato e soprattutto ciò che sarà. Alla perdita di un filo conduttore che leghi insieme passato, presente e futuro corrisponde una perdita di quello che è il senso ed il valore del tempo. Occorre chiederci a cosa ci riferiamo quando parliamo di tempo?

«Che cosa è dunque il tempo? Se nessuno me ne chiede, lo so bene: ma se volessi darne spiegazione a chi me ne chiede, non lo so: così, in buona fede, posso dire di sapere che se nulla passasse, non vi sarebbe il tempo passato, e se nulla sopraggiungesse, non vi sarebbe il tempo futuro, e se nulla fosse, non vi sarebbe il tempo presente. Ma in quanto ai due tempi passato e futuro, in qual modo essi sono, quando il passato, da una parte, più non è, e il futuro, dall’altra, ancora non è? In quanto poi al presente, se sempre fosse presente, e non trascorresse nel passato, non più sarebbe tempo, ma sarebbe, anzi, eternità. Se, per conseguenza, il presente per essere tempo, in tanto vi riesce, in quanto trascorre nel passato, in qual modo possiamo dire che esso sia, se per esso la vera causa di essere è solo in quanto più non sarà, tanto che, in realtà, una sola vera ragione vi è per dire che il tempo è, se non in quanto tende a non essere?»(10).

Infatti se fino a qualche decennio fa educare significava invitare l’altro ad intraprendere un determinato cammino, a prospettarsi in termini futuri cercando di rendersi parte integrante del progetto della società di appartenenza, quello che ci si chiede, e che ancora di più un professionista delle relazioni di aiuto deve chiedersi, è quale motivazione possa spingere la persona, ed i giovani in primis, ad integrarsi se il futuro e l’integrazione hanno tutto il sapore di una minaccia.

Il cammino possibile: la libertà del pensabile

Il cammino non esiste prima ancora di camminare.
Il cammino si fa camminando.

(A. Machado)

Oggigiorno è cambiata la configurazione del limite, ma esso non è stato del tutto abolito

« semplicemente al limite dell’impotenza si è sostituito il limite sotteso al delirio di onnipotenza, che nasconde tra le sue pieghe persino lo spettro di un’’ingloriosa soluzione finale dell’esperimento umano»(11).

Come afferma Greggio nel suo scritto riferendosi a F. Hèritier, ogni cultura si regge sulla distinzione fra il possibile ed il pensabile. Il pensabile, contrariamente a quanto si potrebbe ritenere, non è ciò che ciascuno può pensare, né tantomeno un’attività di riflessione o di elaborazione concettuale, ma è dato dall’insieme di quegli atti che una cultura o una società accetta in quanto rispettosi dei suoi fondamenti e dunque come conformi o adatti alla vita.(12)

Il possibile, di contro, si presenta come un insieme più vasto: esso può anche rappresentare la possibilità di commettere atti violenti ed aggressivi contro gli altri, di travalicare quella linea del sacro che non “limita”, ma protegge e permette alla società stessa di continuare ad esistere. Il campo del pensabile si presenta come un insieme scelto e condiviso da parte degli esseri umani del possibile(13). Se tutto è possibile allora è ancora più facile che l’essere umano prima o poi scopra con dolore la sua finitezza ed i suoi limiti e che conseguentemente non sopporti la frustrazione del fallimento. Tuttavia proprio questo dolore può rappresentare una via d’uscita all’indefinitezza del mondo odierno. Perché è proprio nel dolore che riusciamo a recuperare il senso della nostra individualità, in quanto nel patire ciò che non possiamo evitare, ci mettiamo in contatto profondo con il nostro limite, per dirla con Galimberti, ci consegniamo ad esso(14) e scopriamo di essere sospesi nel nulla, venuti dal nulla e a nulla destinati. Questo significa rintracciare i propri fini, i propri obiettivi dentro sé stessi e non più in una natura ed in una realtà esterna indifferenti. Si tratta, non di piegarsi al proprio destino, ma di accettarlo scegliendo liberamente di viverlo. Ed il nostro destino è proprio quello di essere collocati temporalmente e storicamente in una realtà che limiti non ne ha e che ci chiede di crearli per continuare ad essere. Questo comporta il fatto che si scelga non di vivere qualsiasi possibile vita, ma quella in cui ciò che siamo trova espressione. Si tratta di recuperare la relazione fondamentale con la propria vita, con sé stessi, in quanto soggetti ontologici, poiché è tale relazione che fa da supporto al legame con il mondo da conoscere. Se “la vita non rinuncia mai a sé stessa” significa che è proprio dentro di noi che possiamo trovare risorse che si tramutino in condizioni per dare alla nostra tendenza attualizzante la possibilità di procedere nel suo cammino. Essa infatti

«mira costantemente a sviluppare le potenzialità dell’individuo per assicurare la sua conservazione e il suo arricchimento tenuto conto delle possibilità e dei limiti dell’ambiente»(15).

Conseguentemente il termine arricchimento e ciò che da esso deriva, non deve e non può essere letto come qualcosa che si realizza in maniera indiscriminata e senza poggiarsi sulla realtà. Del resto l’esperienza che personalmente e soggettivamente riteniamo come frustante assume tale connotazione a seguito del senso positivo o negativo con la quale la “etichettiamo”. Pertanto l’accrescimento non può che essere letto in termini fenomenici e dunque soggettivi:

«quello che la tendenza attualizzante mira a raggiungere è che il soggetto percepisca come edificante o arricchente ciò che non necessariamente è obiettivamente o intrinsecamente arricchente»(16).

Possiamo allora darci la possibilità da un lato di riorganizzare le nostre esperienze e al contempo dare valore alla frustrazione, al dolore al pericolo, nel senso che Maslow ci insegna:

«Per essere forte, una persona deve acquisire la tolleranza della frustrazione, la capacità di percepire la realtà fisica come essenzialmente indifferente ai desideri umani […]. Proprio attraverso il fatto che la realtà fisica, gli animali, e le altre persone, non cedono a noi, il che è frustrante, apprendiamo qualcosa circa la loro natura e pertanto impariamo anche a differenziare i desideri dai fatti. […] e siamo pertanto in grado di vivere nel mondo e di adattarci ad esso quanto è necessario. Impariamo altresì, qualche cosa sulle nostre energie e sui nostri limiti, impariamo a estenderli superando le difficoltà, tendendoci al massimo, non rifiutando la sfida e la fatica e, persino sbagliando».(17)

In qualità di operatori del sociale porre come premessa il riconoscimento delle nostre difficoltà può dunque rappresentare un atto terapeutico: significa accettare autenticamente quelli che sono i propri limiti e stabilirne di nuovi per se stessi così come per e con gli altri. La persona che sa darsi dei limiti costruisce un nuovo mondo, un nuovo spazio ( che assume pienezza di significato grazie a ciò che lo confina) per le proprie potenzialità.

Ciò significa sentirsi pienamente parte del mondo, laddove la conoscenza di quelle che sono le leggi che lo governano diminuisce la nostra angoscia di vivere da un lato e dall’altro porta all’acquisizione di responsabilità. Per dirla con Morin, ognuno deve essere pienamente consapevole di partecipare all’avventura dell’umanità(18).

Per cui se come afferma Rogers, la malattia del nostro tempo sta proprio nella mancanza di ideali, nell’assenza di un ruolo significativo, il rifiuto di ogni impegno da parte degli individui(19), a questo si può rispondere solo con la partecipazione e con la proiezione del nostro intero organismo verso la realizzazione di qualcosa, che probabilmente sfugge al razionale ma, partendo dal di dentro di ciascuno di noi, è scelta libera e creativa dei possibili mondi entro i quali potremmo vivere.

È questo uno dei possibili viatici all’incertezza, la scommessa sul futuro è quella su noi stessi.

Sui limiti del Counselling

In una società come quella finora delineata, i problemi ad essa connaturati e le modalità attraverso le quali l’individuo cerca di farvi fronte assumono un significato diverso rispetto al passato ed interessante può essere andare ad evidenziare tutte quelle pratiche utili a superare il disagio moderno, fra le quali il Counselling. Ciò che oggigiorno risulta patologico è il semplice vivere e la necessita di prendere decisioni (veloci quanto il tempo) al fine di dare uno scarto al senso di precarietà che ci affligge. Tutto ciò sicuramente tende a tramutarsi in sofferenza e disagio psichico, ma mi sembra lecito domandarmi quanto esso abbia un’origine propriamente psicologica.

Detto ciò cercherò di evidenziare quali sono le possibili applicazioni del counselling in uno scenario complesso quale quello attuale, attraverso la definizione di cosa è il counselling e di quelli che sono i suoi confini e quindi i suoi limiti.

Umberto Galimberti, nel suo Dizionario di Psicologia, definisce il counseling come «un’azione di sostegno terapeutico allo scopo di creare le condizioni per un’autonomia decisionale, attraverso la considerazione di fattori coscienti[…]. Scopo del counseling è quello di consentire all’individuo una visione realistica di sé e dell’ambiente sociale in cui si trova ad operare, in modo da poter meglio affrontare le scelte relative alla professione, al matrimonio, alla gestione dei rapporti interpersonali con la riduzione al minimo della conflittualità dovuta a fattori soggettivi»(20).

Rogers può essere definito come autore della prima opera sistematica sulla professione di Counsellor, intitolata significativamente Psicoterapia di Consultazione e pubblicata negli Stati Uniti nel 1942. Parafrasando le sue parole vediamo che egli afferma che il counselling consiste nell’avere colloqui per determinare, mediante tali contatti personali e diretti, delle modificazioni costruttive negli atteggiamenti di coloro che definirà come clienti. Ed ancora:

«A tali procedimenti di colloquio si possono dare nomi diversi: possiamo chiamarli, con un’espressione semplice e descrittiva, colloqui terapeutici; più spesso vengono definiti globalmente counselling […]. Si è notata la tendenza a usare l’espressione ‘counseling’ per i contatti più casuali e superficiali, e di riservare il termine ‘psicoterapia’ per i colloqui lunghi e più approfonditi, volti a una riorganizzazione più radicale della personalità. Sebbene questa distinzione possa avere una sua validità, è ugualmente chiaro che il counseling più intenso e riuscito non è distinguibile da una psicoterapia altrettanto intensa e riuscita»(21).

Tali affermazioni sembrano stridere con quanto nel panorama italiano avviene oggi e con la conseguente linea di demarcazione molto netta che esiste fra counselling e psicoterapia.

Infatti è importante tenere presente che la parola e la professione di counselling, nella loro accezione moderna, rappresentano due realtà distinte. Infatti nei Paesi anglosassoni il counselling si presenta come una psicoterapia breve. In Italia esso non è psicoterapia, ma consulenza indirizzata a risolvere specifici problemi in momenti di transizione del ciclo di vita(22). Comprendiamo bene come la definizione italiana di counselling contrasti con quella dei paesi anglosassoni. Il counselling in Italia pone come sua prima linea di confine il fatto di differenziarsi dalla psicoterapia e di poter essere utilizzato solo in una situazione problematica contingente e relativa ad un momento di vita specifico della persona. Se la psicoterapia prevede una riorganizzazione profonda dell’organizzazione mentale della persona, come abbiamo visto, il counsellor agisce delimitando quella che è la sua area di intervento. Tuttavia, non si deve erroneamente ritenere che il counseling sia un intervento di superficie, in quanto:

1 – attraverso un’analisi della domanda puntuale e dettagliata, è possibile delimitare quella che è l’area problematica;

2 – successivamente si prosegue con un lavoro di “carotaggio” per scendere in profondità rispetto al problema al fine di promuovere non la semplice risoluzione dello stesso, ma generare una presa di coscienza rispetto a quello che è il bisogno sottostante. Questo favorisce l’acquisizione di meta-competenze spendibili anche in futuro, qualora dovessero ripresentarsi altre situazioni problematiche, senza l’aiuto del counsellor (in fin dei conti modificare una parte significa modificare il tutto).

L’analisi della domanda inoltre, è un momento di incontro fra un professionista ed un cliente, nel quale ci si propone di mettere in luce quali sono i bisogni del cliente non soddisfatti e che trovano esplicitazione nel problema. Se utilizziamo il modello concettuale dell’Approccio Centrato sulla Persona, vediamo infatti che nel Counselling si passa da bisogni più generali, universali e condivisibili, verso soluzioni sempre più particolari, individuali e specifiche. Pertanto obiettivo del Counselling è promuovere lo sviluppo delle potenzialità dell’individuo, sviluppo che ritengo essenziale per rispondere alla domanda di senso che la società moderna ci pone.

Il CNCP, all’art. 6 dello statuto, definisce il Counselling come un processo relazionale tra Counsellor e uno o più clienti con l’obiettivo di fornire ad essi opportunità e sostegno affinché sviluppino le loro risorse e affinché promuovano il proprio benessere come individui e come membri della società affrontando specifiche difficoltà o momenti di crisi (23).

Ciò che si può innanzitutto evincere da questa definizione è proprio il fatto che la promozione di empowerment che il counselling pone come propria specifica finalità, guarda da un lato alla persona come individuo, ma anche come membro della società. Mi sembra che qui ci si richiami ad una idea di persona globale, di un organismo il cui benessere dipende non solo da fattori biologici. Di fatto l’OMS, stilando la carta di Ottawa 1986, ha sottolineato proprio che la salute di un individuo dipende anche da fattori personali e contestuali(24). Pertanto mi sembra che in questo modo, il counselling così inteso tenda a rispondere non solo alle esigenze della società moderna e al bisogno di partecipazione che costituisce il viatico per il superamento della crisi, ma si fa anche motore propulsore per una nuova forma di benessere e salute dei cittadini membri di una società. Possiamo ora delineare quelli che sono i punti di forza del counselling:

  • Empowerment e responsabilizzazione;
  • Promozione dell’autoconsapevolezza;
  • Promozione dell’alleanza partecipativa.

Evinciamo anche quello che è il ruolo duale del Counsellor, il quale da un lato è l’esperto (relativamente alla metodologia da usare e non rispetto alla persona-cliente) ed il facilitatore del processo di cambiamento e dall’altro ha il compito di porre in essere dei limiti, ovvero di dare direzione e tracciare il percorso di crescita dell’altro.

Dunque la competenza del counsellor sta proprio nello stabilire una relazione con il proprio cliente a partire da quello stato di maggiore congruenza che lo caratterizza rispetto a colui che chiede aiuto.

La definizione di counselling fornitaci da Pio Scilligio, nel tentativo di dare una definizione di counsellor, sembra chiarire questo aspetto relazionale laddove il counselling viene inteso come un intervento interpersonale nel quale due persone condividono atti ed esperienze ed insieme effettuano una co-costruzione di significati rispetto ad essi (25).

Quello che possiamo chiederci è come è possibile stare in una relazione siffatta? Con quali limiti?

Il setting dal punto di vista terapeutico: la definizione dei limiti

Sono abbastanza sicuro di me,
da permettere all’altro
di essere da me distinto?

(Carl R. Rogers)

In questa sede il concetto di setting non sarà impiegato nella sua accezione di situazione psicoterapica bensì, come ben afferma Gianni Sulprizio, da un punto di vista molto ampio che indipendentemente dal ruolo svolto dal professionista (psicoterapeuta, educatore ecc…), guardi alla funzione della relazione di aiuto, cioè la promozione del cambiamento(26). Egli definisce il setting come

«l’insieme di variabili personali, interpersonali e ambientali che costituiscono la premessa e il supporto di una relazione di aiuto»(27).

Nonostante le premesse, mi sembra doveroso provare ad effettuare una definizione di setting terapeutico, sottolineando che comunque essa non deve essere vista in maniera dogmatica, ma può essere paradigmaticamente riportata a qualunque contesto in cui si cerchi di promuovere cambiamento nell’altro. Come afferma Sulprizio, le condizioni basilari che consentono l’esplicarsi di una relazione di aiuto sono rappresentate dall’intenzionalità, il contatto psicologico, la qualità della presenza di colui che opera e, conseguentemente, si tratta di variabili indipendenti dal ruolo esercitato dal professionista.

Tuttavia possiamo genericamente affermare che il setting è tutto quello che noi mettiamo nella nostra relazione con il cliente e possiamo distinguere:

  1. il setting esterno: dato dal paradigma di riferimento del counsellor, cioè quell’insieme di strumenti scientifici ed efficienti di cui egli si serve per operare e che contestualizza storicamente; dalla personalità del counsellor, che potremmo definire come il suo modo di essere; dal codice deontologico che rappresenta un punto di riferimento al quale ispirarsi al fine di operare in scienza e coscienza nell’interesse del proprio cliente(28).
  2. il setting interno: dato delle condizioni interne al terapeuta che regolano il suo modo di essere in relazione con il cliente.

È ovvio che, nella realtà della relazione di counselling, setting interno ed esterno non si presentano in maniera scissa così come qui vengono descritti. Ad esempio, per quanto riguarda il paradigma di riferimento del counsellor esso, quantomeno nell’approccio rogersiano, non è un insieme normativo di riferimento, ma qualcosa che, in maniera dinamica si fonde con la persona del Counsellor e che gli permette di stabilire una relazione di aiuto volta a generare un cambiamento effettivo nel cliente. Al contempo vi è sempre un fondersi ed un intrecciarsi fra regole interne ed esterne nel counsellor, e la crescita del cliente si realizza all’interno di questo “porto” sicuro fatto di una struttura chiara e limitata. Le regole del setting rappresentano dunque dei limiti e possono apparire come un procedimento artificiale e non necessario, volto a togliere naturalezza alla relazione. In realtà, come afferma Carl R. Rogers, i limiti del colloquio terapeutico servono a dare alla situazione terapeutica tutti gli aspetti di una normale situazione di vita(29).

Possiamo con lui andare ad individuare i limiti che è doveroso porre all’interno della relazione al fine di evidenziarne non solo la necessità ma anche il loro configurarsi come risorse per la relazione stessa.

Innanzitutto la limitazione che dobbiamo compiere è quella relativa alla responsabilità(30): si tratta di domandarci se siamo in grado di riconoscere la capacità da parte della persona di trovare dentro di sé la soluzione ai propri problemi. Si va qui a fare leva sul concetto di fiducia nella persona, assioma essenziale dell’approccio rogersiano. Rogers era convinto che fosse dannoso considerare la terapia come una relazione nella quale il “paziente” fosse malato o squilibrato, inconsapevole circa la soluzione dei suoi problemi, e che a tal fine si rivolgesse ad un terapeuta considerato come unico detentore di sapere e potere. La persona, all’interno della relazione d’aiuto, viene chiamata Cliente, proprio per affermare il suo essere soggetto attivo all’interno della medesima. Come afferma Rogers durante la sua intervista con David Russel riportata nel libro Carl Rogers: Un rivoluzionario silenzioso: «Un cliente è responsabile di sé stesso, sta andando da qualcun altro per avere aiuto, ma il centro di valutazione, di decisione è ancora dentro sé stesso. E non sta mettendo sé stesso nelle mani di qualcun altro. Conserva ancora la sua opinione»(31). Il Cliente, e conseguentemente qualsiasi persona, ha insita in sé una tendenza attualizzante che se trova condizioni favorevoli si rivela come un processo in continuo divenire nel quale l’individuo sviluppa il suo naturale potenziale di autorealizzazione. Egli è pertanto soggetto attivo capace di auto-orientarsi, auto-modificarsi, auto-realizzarsi. Questo implica anche il riconoscimento da parte del soggetto di quella che è la libertà che intrinsecamente lo connota (l’approccio Centrato sulla Persona, afferma Rogers, non da potere alle persone ma semplicemente non glielo toglie(32). Pertanto il fine ultimo dell’essere umano sta nel cercare di realizzare quello che potenzialmente ha già dentro di sé. Così la chiarificazione di quelli che sono le proprie responsabilità, da parte del terapeuta, permette di scoprire le motivazioni che spingono il cliente a stabilire, ad esempio, relazioni di dipendenza con gli altri, ad esplorare quest’area problematica, a farne trampolino di lancio per la propria crescita.

In secondo luogo la limitazione del tempo. Essa si presenta come un arbitrario limite umano a cui l’individuo, così come fa nel quotidiano, deve adattarsi(33). Il tempo è una regola sociale che ascrive e descrive la realtà contenendola. Possiamo allora affermare che non vi è bisogno di modificare la realtà, ma permettere al cliente di comprendere che anche quella realtà limitata nel tempo è dotata di un senso proprio. Ancora: «sebbene l’individuo possa reagire a questo limite in uno dei qualsiasi modi che sono naturali per la sua personalità nella vita reale, qui esiste una differenza importante. Nella situazione terapeutica il terapeuta non discute il fatto né reagisce emotivamente al comportamento dell’individuo. Cerca semplicemente di svelare i sentimenti che si nascondono dietro le sue reazioni»(34). Posso anche affermare che chiudere, rispettando i canonici 50 minuti, mentre l’altro ad esempio piange, può avere un grande significato terapeutico, poiché potrebbe significare dire: “Sei indipendente, sei capace di andare via senza di me”!

Il limite di tempo dunque rappresenta, insieme agli altri limiti, una modalità attraverso la quale è possibile comprendere quelli che sono i limiti della relazione stessa, fin dove counsellor e cliente possono arrivare insieme; e soprattutto permette al cliente di avere uno spazio reale concreto, entro il quale scoprire parti di se stesso, le motivazioni che lo spingono a non accettare certi limiti, che essi non gli piacciono e scoprire contemporaneamente di poterli accettare e vivere.

In terzo luogo i limiti dell’azione aggressiva: sebbene alla persona venga concessa la piena libertà di esprimere tutti i sentimenti, positivi o negativi che vive, al contempo tale libertà non può essere concessa indiscriminatamente quando si tratta di comportamenti aggressivi a danno dello spazio fisico del setting e della persona del counsellor. Tale limitazione viene posta in essere, non solo attraverso l’esplicazione verbale di questa regola, ma anche attraverso il rimando verbale dei sentimenti ed il loro riconoscimento degli stessi. In questo modo «sia il bambino che il terapeuta possono affrontare in modo più costruttivo le rappresentazioni simboliche dell’aggressione»(35).

Infine la limitazione dell’affetto: «Una delle limitazioni più importanti da definire chiaramente nella situazione terapeutica è quella riguardante la quantità di affetto che il terapeuta può mostrare di sentire»(36). Porre in essere tali limitazioni permette alla persona di intendere la relazione terapeutica per ciò che è, e non per qualcos’altro. Infatti una richiesta di “amore esclusivo” da parte del cliente ad esempio, si scontrerebbe con la realtà del counsellor, che ha altri legami ed affetti ed incontra altri clienti. Ciò evita anche al cliente di non sentirsi in futuro tradito da una relazione che ha caricato di aspettative utopistiche di amore assoluto.

La costruzione di confini e l’interiorizzazione del setting esterno avviene, da parte del counsellor, attraverso la piena consapevolezza di ciò che si sta facendo; egli è saldo, rispetto a sé stesso e sa portare tale fermezza anche all’esterno, nella relazione con l’altro. Egli stesso trae beneficio dal fatto di porre in essere dei limiti, una struttura nella quale può muoversi liberamente, evitando che il suo desiderio di aiutare l’altro lo intrappoli. Dare e darsi dei limiti significa dunque non negare, ma dare dei punti di riferimento in cui l’altro possa misurare sé stesso, comprendersi e crescere.

È solo una relazione siffatta che trasforma il limite in risorsa, che attribuisce senso e valore alle regole, che guarda al limite non come ciò che blocca, ma come strumento per raggiungere la vetta che ogni essere umano cela dentro di sé: la possibilità ed il desiderio di realizzare sé stesso.

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Maria Antonietta Piazzola, laureata in Scienze dell’Educazione all’Università degli Studi di Bari, ha conseguito un master di secondo livello in Medicina della Sessualità presso la medesima Università, diplomata counselor di primo livello presso lo IACP di Roma (Istituto per l’Approccio Centrato sulla Persona, rogersiano).

Attualmente lavora come educatrice presso la Cooperativa sociale “La strada e le stelle” di Molfetta (Bari).

piazzollamaria(at)libero.it

Note:

1 ROGERS C. R., Psicoterapia di Consultazione. Nuove idee nella pratica clinica e sociale, Roma, Astrolabio, 1971 (tit. orig. Counseling and Psychoterapy, Houghton, Mifflin Company, 1942), p. 97.

2 LUSINI V., Margine, Confine, Limite. Appunti per un percorso Teorico in linus.media.unisi.it/solima/documenti/LUSINI.pdf p.1

3 BENASAYAG M.-SCHMIT G., L’epoca delle passioni tristi, Milano, Feltrinelli, 2006 (tit. orig. Les passions tristes. Souffrance Psychique et Crise Sociale, Paris, Editions La Dècouverte, 2003), p. 10.

4 Ivi, p.14

5 GALIMBERTI U., La casa di Psiche. Dalla Psicoanalisi alla pratica filosofica. Milano, Feltrinelli, 2005, p. 12.

6 BENASAYAG M.-SCHMIT G., L’epoca (2006) cit., p. 14.

7 GALIMBERTI U., La casa di Psiche, (2005) cit., p. 430.

8 MASLOW A. H., Verso una Psicologia dell’essere, Roma, Astrolabio Ubaldini editore, 1971 (tit. orig. Toward a Psychology of Being, D. Van Nostrand Company, Inc. New York, 1962) cit., pp. 30-31.

9 MASLOW A. H., Verso una Psicologia dell’essere, Roma, Astrolabio Ubaldini editore, 1971 (tit. orig. Toward a Psychology of Being, D. Van Nostrand Company, Inc. New York, 1962), p. 212.

10 AGOSTINO, Le confessioni, Bologna, Zanichelli, 1968, XI, 14.18, pp. 759.

11 GALIMBERTI U., La casa di Psiche, (2005) cit., p. 438.

12 BENASAYAG M., SCHMIT G., L’epoca (2006) cit., p. 92.

13 Ivi, p. 92.

14 GALIMBERTI U., La casa di Psiche, (2005) cit., p. 13.

15 ROGERS C. R.-KINGET G., Psicoterapia e Relazioni Umane, Torino, Bollati Boringhieri, 1970 (tit. orig. Psicoterapie et relations Humaines. Theorie et Pratique de la therarapie non directive 1962)p. 34.

16 Ivi, p. 34.

17 MASLOW A. H., Verso una Psicologia (1971) cit., pp. 199-200.

18 Vedi MORIN E., La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero.Milano, Raffaello Cortina Editore, 2007, (tit. orig. La tête bien faite, , Seuil, 1999), p. 63-64.

19 ROGERS C.R., Libertà nell’apprendimento, Firenze, Giunti Barbera, 1973, (tit. orig. Freedom to learn, Columbus Ohio, Charles E. Merril Publishing Company, 1969), p. 317.

20 Dizionario di Psicologia, a cura di U. Galimberti, Novara, De Agostini, 2006, sub voce.

21 ROGERS C. R., Psicoterapia di Consultazione. Nuove idee nella pratica clinica e sociale, Roma, Astrolabio, 1971 (tit. orig. Counseling and Psychoterapy, Houghton, Mifflin Company, 1942), p. 9.

22 SULPRIZIO G. – SPAZIANI S. – GREGGIO G. L., Introduzione al Counselling Centrato sulla Persona, Dispensa ad uso interno IACP, p. 8.

23 Ivi, p. 9.

24 Vedi ZUCCONI A. – HOWELL P., La promozione della Salute. Un approccio globale per il benessere della persona e della società, Molfetta, Edizioni La Meridiana, 2003, p. 40.

25 Vedi SCILLIGO P., Chi è il counsellor. Un tentativo di definizione, in «La bussola del Counsellor», 1 (2007)Roma, Alpes Italia s.r.l., pp. 1- 18, pp. 2-3.

26 SULPRIZIO G., Le variabili del setting, Dispensa ad uso interno IACP, p. 2.

27 Ivi, p. 3.

28 Su tali elementi si veda ZUCCONI A., La Bussola del Professionista, in «La Bussola del Counsellor»1 (2007), Roma, Alpes Italia s.r.l, pp. 19-21.

29 ROGERS C. R., Psicoterapia di Consultazione. Nuove idee nella pratica clinica e sociale, Roma, Astrolabio, 1971 (tit. orig. Counseling and Psychoterapy, Houghton, Mifflin Company, 1942).

30 Ivi, p. 92.

31 ROGERS C. R. RUSSEL D.E. Carl Rogers:Un rivoluzionario silenziosoLo psicoterapeuta centrato sulla persona che rivoluzionò la psicologia. Molfetta, La Meridiana, 2006, p. 279 (tit. orig. Carl Rogers. The quiet revolutionary. An oral history)

32 ROGERS R. C., Potere Personale, Roma, Astrolabio, 1978 (tit. orig. On Personal Power,New York, Delacorte Press 1970).

33 ROGERS C. R., KINGET M., Psicoterapia delle Relazioni umane (1971) cit., p. 97

34 Ibidem.

35 Ivi, p. 100

36 Ivi, p. 101

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