Maurizio Buoncristiani è psicologo e psicoterapeuta. Collabora con l’università di Firenze, con la ASL e con il servizio di Psicologia Clinica della Fondazione Pro Juventute Don. C. Gnocchi di Firenze. m.buoncristiani@libero.it

Delle istanze psichiche che definiscono e determinano la complessità della personalità umana, il Sé risulta assumere una rilevanza sempre maggiore dal punto di vista esistenziale e clinico, e benché tutte le istanze si caratterizzino nelle relazioni interpersonali, il Sé sembra esserne maggiormente influenzato rispetto all’Io, all’Es e al Super-Io. Nella formazione del Sé, precedente alla strutturazione dell’Io, un peso notevole viene attribuito all’influenza modellatrice dell’Altro; in sostanza alle condizioni e ai comportamenti che le persone significative possono esercitare su quel dato soggetto. Proprio perché è ormai accettato che l’individuo sia frutto della società e dei sistemi collettivi a cui appartiene, il risultato di un numero infinito di campi di interazione interpersonale che lo circondano, la visione dinamica ed intersoggetiva del Sé, costruito nella gradazione del dialogo Sé-Altro, risulta essere attuale e di grande interesse da un punto di vista terapeutico.

L’approccio interpersonale-relazionale, per sua natura, affronta e focalizza queste tematiche in maniera approfondita dandone, a mio avviso, una prospettiva degna di essere presa in considerazione. Utilizzo la prospettiva interpersonale e quella relazionale, benché esse presentino delle differenze tra di loro; preferisco considerare ciò che le accomuna, allargare il campo e non ridurlo al dominio dell’una o dell’altra. Questo duplice orientamento ha dimostrato, specialmente negli ultimi anni, di saper apportare notevoli contributi teorici innovativi alla teoria psicoanalitica di base. Forse l’assunto teorico di maggior spessore introdotto da questa metodologia, poi accettato dall’intero mainstream psicoanalitico, risulta essere il ruolo di paziente e analista, entrambi partecipanti attivi nella creazione dello spazio analitico. Oggi tra gli autori contemporanei più importanti che operano all’interno dell’orientamento interpersonale-relazionale troviamo, Hoffman, Odgen, Benjamin, Bromberg, Daniel Stern, Greenberg, Aron, Pizer, Racker, Levenson, Donnel Stern, Stolorow, Atwood, e il compianto Mitchell. Questi autorevoli psicoanalisti si rifanno all’impianto teorico della scuola interpersonale di Harry Stack Sullivan, di Enrich Fromm, di Karen Horney, di Frida Fromm-Reichmann e Clara Thompson da un lato e, inoltre, alle relazioni oggettuali e alla psicologia del sé dall’altro.

IL SÉ DA SULLIVAN IN POI

In maniera un po’ superficiale il Sé e la sua cura vengono ricondotti generalmente alla psicologia del Sé di Kohut o alla psicologia analitica di Jung. Ma numerosi altri autori hanno trattato l’argomento del Sé da molte ed interessanti prospettive, a testimonianza della grande valenza teorica e clinica del tema. Già nei suoi assunti Kohut stesso (1971, p. 7) riconosce a Hartmann di aver attuato “la separazione concettuale del Sé dall’Io” e poi considera i contributi della Psicologia dell’Io, della Mahler, di Erikson, di Reich e della Jacbson come apporti decisivi alla costruzione teorica del Sé. Comunque altri importanti autori avevano già preso in esame il concetto del Sé, tra questi ricordiamo: l’alluso di Freud che senza creare confusione o malintesi utilizza il termine Ich (Io) per indicare sia l’Io che il Sé, i neofreudiani Sullivan, Horney, Fromm, ma anche i “dissidenti” Adler e Jung e i “discepoli critici” Ferenzci e Rank.

Limito la mia trattazione all’impostazione di base interpersonale-relazione, ancora oggi densa, a mio avviso, di spunti di grande interesse e di spazi circoscritti che necessitano di essere osservati, studiati e approfonditi.

Il fondatore della teoria interpersonale, Sullivan, appare così attratto dall’importanza dell’altro e dalla collocazione dell’individuo nelle rete sociale tanto da, secondo alcuni, trascurare uno studio centrato sull’individualità. In effetti, non rientra negli scopi di Sullivan la presentazione di una completa teoria della personalità umana, poiché, ci dice Clara Thompson sua allieva e collaboratrice, l’autore si propone piuttosto di cominciare ad organizzare in modo scientifico dati osservabili sulle persone:

La sua premessa fondamentale era che tutto ciò che positivamente possiamo sapere di un’altra persona è quello che ci è dato di osservare nei suoi rapporti con gli altri (Thompson, 1964, p. 55).

Secondo Sullivan, il mondo esterno inizia subito a farsi sentire nello sviluppo del bambino, nei panni della madre, che stabilisce cosa è buono e cosa è non buono, prendendo come riferimento le norme della società di appartenenza. Compare così l’esperienza del conflitto tra ciò il bambino che desidera e ciò che può fare, il che lo porterà verso ripetute prove di soluzione dell’angoscia che ne deriva. Così i bisogni di approvazione e di sicurezza resteranno per tutta la vita legati alle pressioni che la società esercita sulla personalità di ognuno.

La tesi sostenuta da Sullivan è che la personalità umana si formi nell’interazione con gli altri. Il Sé è qualcosa che esiste non come struttura intrapsichica ma come organizzazione delle esperienze di oggettosé, che mi permette di pensare a me come un Sé, con la capacità di vedermi e sentirmi e pensarmi. La nascita biologica non corrisponde alla nascita del Sé: inizialmente il bambino non ha un senso di sé, né è capace di distinguersi dalla madre con cui ha un legame molto stretto; tra i due la comunicazione avviene solo a livello non verbale. In virtù di questo il bambino sperimenta come disagio i vissuti della madre, la collera, il rifiuto, l’angoscia, ecc. Man mano che il bambino prende coscienza di sé come entità separata dalla madre, comincia ad accorgersi che gli è possibile controllare in parte alcuni degli umori materni. La mamma va in collera quando egli fa certe cose ed è contenta quando ne fa altre. Come fa notare la Thompson:

Attraverso queste esperienze nell’infante comincia a depositarsi un’idea rudimentale del Sé e delle cose che gli appartengono, come entità diverse dal resto del mondo (Thompson, 1964, p. 58).

Nelle fasi evolutive, il bambino si appropria lentamente del suo senso di Sé che sembra costruirsi a partire dal primo riconoscimento delle parti del suo corpo come doppie portatrici di piacere: la suzione del pollice stimola infatti, contemporaneamente, il sistema sensoriale della bocca e del dito. Per Sullivan questo atto forma la “prima idea rudimentale” di Sé, in quanto inteso come prima esperienza di autosufficienza dove il desiderio viene esaudito senza aspettare, e si farà strada dentro di lui l’idea di un Sé distinto dal resto del modo che lo circonda e dalle cose che gli appartengono.

Secondo Sullivan, la consapevolezza del Sé avviene sperimentando due tipi di esperienze, una che a che fare con la soddisfazione dei bisogni (madre buona), l’altra legata ai vissuti di angoscia della madre (madre cattiva). Il bisogno di difendersi da questa angoscia è considerato centrale nello sviluppo del Sé, perché il bambino, nel tentativo di sfuggirvi, imparerà a riconoscere e ad eliminare quei comportamenti che generano angoscia nella madre. Si può arrivare addirittura alla rinuncia e alla distorsione della propria esperienza (non Io), pur di mantenere buone relazioni con altri significativi. Sono evidenti le attinenze dal punto di vista concettuale con il Falso Sé di Winnicott. Così la personalità nascente si sviluppa, il bambino inizia a pensare alla somma del proprio comportamento come ad un Io. Poiché per crescere e sopravvivere ha bisogno di tenerezza e approvazione, sacrifica quelle parti dell’Io che gli creano difficoltà e, nel suo modo primitivo di pensare, si forma in lui l’idea di un “io buono” e di un “io cattivo”. Se la disapprovazione è mite, l’“Io cattivo” può a volte affermarsi senza produrre troppa insicurezza, ma se la disapprovazione è distruttiva, questa parte di attività potenziale cessa di funzionare apertamente o di essere riconosciuta come appartenente al Sé, si ha il “non Io”. Così la strutturazione della personalità è sottolineata dalla Thompson:

Da tali influenze sull’essere umano durante lo sviluppo risulta la formazione del sistema Sé, formato da pensieri e attività che le persone importanti hanno ritenuto accettabili, tanto da non produrre un’angoscia insostenibile. Sullivan postulò un concetto del Sé basato sull’eliminazione dell’angoscia e creato nel materiale grezzo della vita umana dall’interazione con gli altrui sistemi del Sé. Questo sistema del Sé tende a costituire un insieme di atteggiamenti caratteristici, durevoli, relativamente invariabili (Thompson, 1964, p. 60).

Se le norme di accettazione e punizione sono molto rigide, cioè se il mancato conformarsi viene punito con grande severità, il sistema del Sé sarà assai rigido, e ogni tentativo sperimentale di comportarsi in modo diverso dal prescritto produrrà estrema angoscia, tanto che il tentativo sarà probabilmente abbandonato. La personalità si formerà in larga misura attraverso le reazioni all’appro-vazione e alla disapprovazione delle persone significative. Ancora la Thompson ci fa notare:

L’uomo pertanto ha bisogno di rapporto con gli altri uomini non soltanto per la sicurezza fisica, ma anche perché, mancandogli forti modelli pulsionali innati, deve associarsi ad altri per imparare a vivere. Tale apprendimento per mezzo di esempi, imitazioni, accettazioni e punizioni crea il sistema del Sé (Thompson, 1964, p.61).

Seguendo questa visione del Sé multiplo che si struttura nella relazione con l’altro, Racker utilizza una sua terminologia in merito:

in questo caso potremo dire che i nostri stati del Sé vengono modellati a volte intorno alle identificazioni con le modalità di esprimere se stessi di coloro che interagiamo (Racker, 1968, p. 134),

fenomeno questo che Racker definisce “identificazione concordante”, o “identificazione con l’Io dell’altro”, mentre altre volte le identificazioni scaturiscono dalle modalità con cui gli altri hanno fatto esperienza di coloro con cui abbiamo interagito noi, situazione che Racker definisce “identificazione complementare” o “identificazione con gli oggetti interni”. D’altronde il valore della identificazione per la strutturazione della personalità, è già stato notato da Freud, (1921, p. 293) il quale accorda ad essa un posto di rilievo nella sua teoria “come prima manifestazione di un legame emotivo con un’altra persona” e come comportamento che permette la risoluzione del complesso edipico. Sintetizzando, potremo dire che per riuscire a trovare il nostro Sé abbiamo bisogno dell’immagine dell’Altro, e il processo di identificazione partecipa alla costruzione del nostro Sé.

Sullivan sottolinea ripetutamente la natura illusoria del Sé in quanto ogni persona può essere diversa con i diversi altri e spesso anche diversa con la stessa persona in circostanze diverse, e come ogni differenza significativa nel nostro universo evoca configurazioni specifiche di sentimenti, pensieri, comportamenti e stati del Sé. Quindi, perseverare a considerarci detentori di una personalità individuale unica è semplicemente un’illusione narcisistica finalizzata a mitigare l’ansia che proviamo nell’agire nelle nostre interrelazioni. A questo proposito, Mitchell analizzando il punto di vista di Sullivan, ci suggerisce che:

Sullivan sottolineò ripetutamente la natura illusoria del Sé, […] la vera e propria madre di tutte le illusioni nutrita allo scopo di mitigare l’ansia e distrarre l’attenzione dai modi in cui ciascuno di noi di noi si muove di fatto nel rapporto con gli altri (Mitchell, 1991, pag. 13).

Pertanto ognuno di noi agisce in base a determinate configurazioni io-tu, particolari modi di rappresentare noi stessi attraverso rappresentazioni che possono essere discontinue – e spesso ce ne rendiamo conto – ma ciò nonostante assai radicate sia sul piano affettivo, sia su quello cognitivo.

Sullivan è sicuramente il pioniere della concezione convalidata, che le rappresentazioni interne del Sé riflettono le primissime esperienze emotive ed educative vissute con i caregiver e includono anche gli atteggiamenti di questi verso il bambino. Il sistema del Sé nasce a causa, e si potrebbe dire anche allo scopo, di assicurarsi le soddisfazioni necessarie senza incorrere troppo nell’angoscia. Sullivan pensa che il sistema del Sé e il suo conseguente dinamismo sono il nucleo delle interazioni interpersonali e dei sentimenti relativi a se stessi. Come oggi è ormai accettato dall’intero mainstream psicoanalitico, egli argomenta esaurientemente come il sistema del Sé risulti centrale per la comprensione del cambiamento terapeutico. Tale sistema contiene, come ho detto, i concetti del me buonome cattivo e non me, l’ultimo dei quali riflette gli stati di angoscia più gravi. Secondo Sullivan questi dinamismi, insieme al sistema dell’Io, che rappresenta uno strumento di sicurezza, possono influenzare il processo di riconoscimento o di orientamento che segue di solito la percezione in quanto coscienza. E possono anche giocare un ruolo fondamentale nell’insorgere di particolari problematiche e patologie, quali l’invidia, la colpa, l’ipocondria, l’isteria, la paranoia, i disturbi ossessivi e la schizofrenia. In questa ottica, la dissociazione, come meccanismo dinamico, è la separazione forzosa o la disconnessone di alcuni tipi di esperienza associati a Sé differenti, una separazione motivata da un disagio inconscio e non, e persino da un senso di calamità e di terrore, che accompagna la possibilità di conoscere, percepire e avvertire emotivamente la simultaneità di certe esperienze. Quanto più separata deve rimanere l’esperienza di due stati del Sé, tanto più essi sono dissociati: molto spesso la comprensione di noi stessi o la comprensione reciproca deve superare una reciproca dissociazione. Questa embrionale ma produttiva concezione sulla dissociazione è stata successivamente ripresa ed elaborata e numerosi sono i punti di vista in proposito: Per Bromberg ad esempio:

La mente umana è sin dall’inizio non integrata e l’esperienza di sé origina in stati mentali relativamente scollegati, ognuno coerente in se stesso, con le proprie costellazioni ed affetti, memorie valori e capacità cognitive. Proprio per via del fatto che l’esperienza di possedere un Sé unitario è un’illusione adattiva acquisita solo secondariamente, quando questa illusione di unità viene traumaticamente minacciata da una inevitabile e precipitosa distruzione, essa diventa in se stessa una responsabilità, poiché è in pericolo di essere schiacciata dagli input che possono essere processati simbolicamente (Bromberg, 1993, p. 130).

Bromberg sostiene che la mente abbia a disposizione la dissociazione come soluzione protettiva e difensiva per assicurare forme di continuità nell’esperienza soggettiva accessibile alla coscienza, e precisa:

Essa sospenderà i collegamenti tra gli stati del Sé coesivi, impedendo a certi aspetti del Sé di avere accesso alla personalità entro lo stesso stato di coscienza (Bromberg, 1993, p. 138),

quindi impedendo, in sintesi, alla psiche l’esperienza del conflitto psichico. I fallimenti ambientali del riconoscimento intersoggettivo lasciano nella mente del bambino un senso di vuoto invece della conferma della sua soggettività, e intorno all’esperienza di quei buchi, si possono organizzare dei moduli interni dissociati (MOID).

Secondo Sullivan, l’essere umano, nel continuo tentativo di soddisfare i propri bisogni, adotta un particolare sistema dell’Io o self system. Ciò consiste nell’adozione di misure di protezione e controllo del comportamento per evitare un’angoscia potenziale o reale, per cui l’individuo incoraggia alcuni comportamenti (good me self) e ne impedisce altri (bad me self). Secondo l’autore, più la persona cerca di proteggersi dall’angoscia e più rischia di dissociare il proprio Io dal resto della personalità e dalle relazioni interpersonali.

Nell’ottica della teoria interpersonale, dunque, quando ci si interroga sulla natura e sulla formazione del Sé, si attribuisce un peso notevole alle circostanze ed in particolare all’influenza modellatrice degli atteggiamenti che le persone significative possono esercitare su un dato soggetto. Tale influenza agisce in modo permanente sull’individuo giocando sul suo bisogno di approvazione ed accettazione, finendo con il promuovere un vero e proprio processo di adattamento nella personalità. Ciò che si delinea è quindi un Sé relazionale, multiplo e discontinuo, frutto di interazioni con altri diversi da noi e di differenti modi di relazionarsi con uno stesso Altro da noi.

Quella interpersonale è una visione dinamica del Sé; secondo questo approccio l’individuo è il frutto della società a cui appartiene. L’influenza che deriva dal dialogo tra Sé e Altro non riguarda solo le relazioni passate, ma anche quelle presenti, non esclusa la relazione analitica, e due sono essenzialmente le situazioni che possono modificare il Sé di una persona: circostanze di rilevante sforzo e/o tentazione che promuovono l’emergere di aspetti prima considerati inaccettabili di Sé ed il venire a contatto con nuovi Altri significativi, ai quali adattarsi abbandonando talune nostre caratteristiche o promuovendone di inedite. In quest’ultimo caso i cambiamenti possono anche assumere una connotazione positiva, ma la loro direzione può altresì assumere aspetti negativi e distruttivi.

Per Sullivan forte è la tendenza umana ad evitare e ad allontanarsi, anche attraverso la disattenzione selettiva, da tutte quelle situazioni, quegli impulsi e quelle attività che potrebbero non essere approvate dagli Altri significativi; ed è proprio la continua ricerca di evitamento delle possibili angosce future a foraggiare le operazioni di sicurezza portate avanti dal sistema Sé, il sistema difensivo della persona, relativamente rigido e difficilmente modificabile dall’esperienza. Ancora secondo Sullivan, il Sé è in definitiva costituito da “valutazioni riflessive”, dall’essenza, dalla qualità e dallo stato del mezzo riflettente, ma anche del mutuo riconoscimento dell’uno contro l’altro.

Nell’ottica della prospettiva relazionale Mitchell analizza varie prospettive sul Sé. Il Sé visto come relazionale, multiplo e discontinuo, proprio della teoria interpersonale:

Dal momento che noi impariamo a diventare persone attraverso l’interazione con gli altri diversi da noi, la nostra esperienza di noi stessi è discontinua, composta di differenti configurazioni, Sé differenti con differenti altri (Mitchell, 1991, pag. 11).

Il Sé come indipendente e separato dagli altri proprio delle teorie della relazioni oggettuali della scuola inglese,

che risiede nella profondità di noi stessi e che può essere rivelata o nascosta agli altri secondo la nostra volontà (Mitchell, 1991, pag. 15)

Il Sé integrale e continuo, proprio della psicologia del Sé di Kouht e della psicologia analitica di Jung, che assegnano uno status motivazionale primario allo scopo di organizzare e mantenere un senso integrato del Sé, una funzione autoriflessiva che crea continuità:

Sé integrale e continuo, una predisposizione archetipica che le persone hanno a dar vita a un senso di Sé singolare e integrato (Mitchell, 1991, pag. 21),

Mitchell sottolinea, nel suo testo Prospettive contemporanee sul Sé: verso un’integrazione, la presenza di tutti e tre gli aspetti del Sé, anche se da buon psicoanalista relazionale, tende a far prevalere le componenti del gioco dialettico Sé-Altro. Come abbiamo visto, anche se queste impostazioni ci possono apparire contrapposte, sono solo punti di osservazione diversi su uno stesso processo psichico. Se la creazione o strutturazione del Sé avviene come difesa, è naturale che la persona tenda a conservare questo elemento strutturato come indipendente e continuo, esercitando su di esso un investimento narcisistico, anche se inevitabilmente risulta poi che il Sé si struttura e si modifica nella relazione con gli altri significativi. Nella visione di Mitchell tutti e tre questi modelli rappresentano aspetti del Sé: il primo fa riferimento alle multiple configurazioni del Sé variamente strutturate in diversi contesti relazionali, gli altri due all’esperienza soggettiva della configurazione del processo di sviluppo.

Anche Levenson sembra affermare la natura privata del Sé ed anche quella reattiva determinata dalla relazione:

In breve si può vedere il Sé come qualcosa che viene alla luce, alla ricerca delle sue stesse potenzialità, perché sta lì; oppure di un aggregato contro l’angoscia (Levenson, 1983, p. 110).

Oggi sembra delinearsi una teoria del Sé, dal punto di vista interpersonale-relazionale, che guarda, sostanzialmente, le posizioni indipendenti, integrali e relazionali intersecarsi senza soluzione di continuità. Quindi la determinazione del Sé come una conseguenza del mancato riconoscimento dell’altro, una introversione, una regressione narcisistica, una difesa dall’angoscia, che poi si perpetua fino a determinare un continuum nella relazione con l’Altro.

A testimonianza di ciò, Garofalo considera importanti le teorie odierne sul Sé, da quella classica di Aron, al filone costruttivista di Hoffman, all’intersoggetivismo di Stolorow, al modello relazionale di Mitchell, sostenendo:

Con questi ultimi, infatti, sono convinto che esista un nucleo del Sé, precostituito, solo in minima e virtuale parte, che si costruisce piuttosto continuamente in una unità interna unica e specifica proprio attraverso le relazioni intersoggettive (Garofano, 2006, p. 9).

Concludendo la riflessione sulla natura del Sé nella tradizione interpersonale-relazionale voglio citare come pensiero riassuntivo alcune osservazioni di S. Mitchell, a mio avviso estremamente esaustive sulle varie direttrici del Sé:

[…] le varie prospettive del Sé presenti nel pensiero psicoanalitico contemporaneo non conducono ad un nitido e preciso modello del Sé e del suo sviluppo. Piuttosto noi ci troviamo con uno spiegamento di modi di pensare relativi alla generazione della soggettività che arricchisce la nostra partecipazione nell’infinita complessità del processo psicoanalitico (Mitchell S., 1991, pag. 34).

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