Una famiglia costretta a due diaspore, nel 48 e nel 67, la vita nel campo profughi di Deishe, dove alle cinque chiudevano i cancelli e per andarsene bisognava firmare che non si sarebbe tornati per tre anni, e poi la partenza, gli studi e il sogno di tornare, un giorno, ad aprire un laboratorio di biologia. Intervista a Nasser Salameh.

Nasser con il padre

Nasser con il padre

Ahmed Nasser Salameh, palestinese, è nato nel campo profughi di Deishe, vicino Betlemme, oggi studia biologia molecolare e anima l’associazione Hawiyya, www.hawiyya.orgVive a Siena.

I nostri nonni non ci hanno raccontato molto sulla Palestina del 48. C’era quella chiave … Nella stanza dove si dormiva tutti stesi per terra, uno accanto all’altro, i miei quattro fratelli e mia sorella, con dei materassi foderati di vestiti vecchi, c’era una specie di arco, sopra c’era questa chiave … la chiave della nostra casa d’origine. Oggi in quella casa vivono degli ebrei di origine francese … Ma è la nostra casa, hanno cambiato il colore delle tende, hanno piantato qualche fiore in più, forse hanno tenuto le piante che c’erano prima, non saprei. L’unica cosa che so è che la casa è lì, è ancora intatta e noi la sogniamo nostra, e possono fare tutto quello che vogliono, la casa continua comunque ad essere nostra.
Questa è un’ingiustizia che io non perdono. lo contesto la parola solidarietà, cioè l’ingiustizia va riparata e basta.
Che poi è impressionante: la Palestina è un posto così piccolo eppure si sono concretizzate tutte le forme di ingiustizia, dalla pulizia etnica al tentativo di distruggere un popolo, la sua storia. Quando torno, c’è sempre il soldato che ti fa la domanda provocatoria “Dove stai andando?”, “Vado in Palestina” “Non esiste la Palestina”. Oggi ho più coraggio e sfido anche il soldato. In passato qualsiasi dialogo era precluso. Lui diceva: “Sheket”, “Zitto”. E’ questa la parola che ho sentito da quando avevo due anni.

lo sono nato nel campo profughi di Deishe, vicino a Betlemme. Allora c’era il filo spinato alto otto metri e un unico ingresso, con una specie di porta girevole, come quelle delle banche, ma molto più brutta, che a una certa ora chiudeva. Ecco, immagina quindicimila persone, uomini, donne e bambini, che alle cinque del pomeriggio dovevano tutte rientrare, come fosse un pollaio, dopodiché scattava il coprifuoco. Ricordo che c’era l’altoparlante e questi soldati che gridavano e insultavano la gente anche in maniera molto volgare.
Dopodiché la mattina presto, alle sei, si toglieva il coprifuoco e la gente usciva. Un vero e proprio ghetto. Una forma di umiliazione pazzesca, e non entro nei particolari, ci si potrebbe scrivere un libro …
Noi siamo una famiglia abbastanza numerosa, cinque fratelli e cinque sorelle, e devo anche dire che abbiamo avuto una doppia diaspora, in verità, una nel ’48 e una nel ‘ 67.
Nel 1948, quando c’è stata la diaspora mio padre aveva 12 anni, quindi non è che ricordi molto. Per tanto tempo c’è stato questo anello mancante, nel senso che c’era una domanda che rimaneva senza risposta: perché noi viviamo così? Oggi sappiamo com’è andata, della cacciata dei palestinesi dopo il maggio’ 48. Ecco, quello di Deishe è uno dei tanti campi profughi sorti allora. All’inizio era una distesa di tende in una specie di depressione, attorniata da colline, molto vicina a Betlemme, a un paio di chilometri dal centro, per quanto non sia mai entrato a far parte della Municipalità di Betlemme, è stato sempre considerato un territorio quasi autonomo.

Il campo profughi è grande poco più, poco meno, di un chilometro quadrato, all’inizio i profughi si sono ammassati con delle tende, quando è sorta l’agenzia Unrwa hanno cominciato a costruire queste casette senza fondamenta, senza cemento armato, delle baracche praticamente. Noi siamo nati lì, forse qualcuna delle mie sorelle è nata nelle tende. Noi abbiamo passato la nostra vita in tre stanze, una accanto all’altra. La cosa curiosa è che avevamo perfino una stanza per gli animali, ci dovevano dare da mangiare e noi non li lasciavamo mai fuori … Se c’è un paese che tratta bene gli animali, è la Palestina!
Davanti mio nonno aveva piantato qualche alberello, mandorli, ulivi, ecc. Voleva in qualche modo riprodurre la Palestina dei suoi ricordi. Lui infatti era originario di una terra molto fertile lungo la costa palestinese. Le zone di Betlemme, Hebron non sono molto verdi, più a sud c’è il Negev che è deserto. Invece verso il nord, o lungo la costa verso ovest, è tutta un’altra cosa. Ecco, la mia famiglia viene da là, dalla zona di Haifa, dove la terra è molto fertile … Così c’era anche questo rimpianto, di aver lasciato una terra bellissima per ritrovarsi in condizioni pazzesche. La rabbia poi non era tanto per la condizione in sé, ma per il motivo per cui ci eravamo trovati in quelle condizioni lì: cosa abbiamo fatto?
Vivere in diaspora, in quelle condizioni, per i palestinesi è stato come essere sepolti vivi sul piano della cultura, delle tradizioni, del modo di vivere …
Dopo la seconda guerra, quella del ’67 la maggior parte dei miei parenti, gli zii, i fratelli e le sorelle di papà se ne sono andati. Noi invece siamo rimasti. E’ stata la mia nonna a decidere: lei infatti ha voluto rimanere in Palestina, si è rifiutata di fare una seconda diaspora. Questo naturalmente ha segnato la nostra vita. In Palestina tradizionalmente la “famiglia” non è intesa come genitori e figli, ma comprende anche gli zii e tutti gli annessi. E quindi un po’ ci siamo sentiti soli.
In un secondo tempo, quando io ero ancora piccolo, tre delle mie sorelle si sono sposate e mio fratello è andato in Arabia Saudita, così ci siamo ritrovati ulteriormente isolati e separati dal resto della famiglia.
Da allora non ci siamo mai ritrovati tutti insieme, non ho mai più visto tutti i fratelli e le sorelle, gli zii. Infatti il mio sogno, un giorno, è quello di poterci ritrovare con tutti i nipoti, i fratelli, le sorelle, i genitori.
La nonna ora non c’è più e negli ultimi anni i miei genitori si sono trovati a essere quasi completamente soli.
Dopo lo scoppio della prima Intifada, con l’intensificarsi delle manifestazioni di protesta, la situazione è precipitata. Le università erano chiuse, per cui non rimaneva che sbrigarsi a fare l’esame di maturità e partire, perché l’unica alternativa, se si voleva studiare, era quella di andare all’estero. Così ho deciso di partire anch’io. Per poter lasciare il paese, ho anche dovuto firmare una carta in cui dicevo che non sarei rientrato prima di tre anni. Ho ancora la fotocopia. Era una sorta di ricatto. Non solo, per partire ho dovuto chiedere ai militari israeliani la “buona condotta” altrimenti non avrei potuto andare in Giordania. Lo so, è un po’ complicato, ma è così.
Comunque, per avere la buona condotta occorreva non aver partecipato all’intifada. Puoi immaginare: era impossibile trovare un ragazzino palestinese che non avesse partecipato all’Intifada perché partecipare voleva dire scioperare, protestare, manifestare per la strada con degli striscioni, gridare ai soldati israeliani di andarsene via, lanciare qualche sasso che il più delle volte non arrivava neanche a toccarli. Loro poi erano protetti con casco, manganelli, tuta, ma non era una protesta armata né niente, era semplicemente una ribellione dell’anima palestinese, per dire: “Basta, non vi vogliamo più”, non volevamo che i soldati israeliani controllassero la nostra vita.

Tra i palestinesi è radicatissimo il fatto di far studiare i figli. Basterebbe vedere le foto, io ce le ho, del campo profughi nel ’51, com’era fatto, era una distesa di tende, l’unica struttura in cemento era la scuola. Anche nei villaggi palestinesi che sono stati presi dagli israeliani, l’unica struttura che è rimasta è la scuola. E poi ci sono le foto dei laureati che tornavano da Oxford, da Harvard e lì i festeggiamenti duravano una settimana. Ancora oggi, quando si supera l’esame di maturità, è una festa grande in tutto il paese, tutti fanno festa. Questa cosa dello studio è proprio radicata. D’altra parte, se andiamo a vedere il tasso dei laureati in Palestina, è dieci volte più alto che in Italia.
Una scena che ho visto giusto ieri mattina su Al Jazeera: si parlava di un campo profughi in mezzo al deserto, con una ventina di tende, dove stanno un centiniaio di persone, venti famiglie, dal 2003, da quando l’esercito degli Stati Uniti insieme agli alleati hanno occupato l’Iraq. Questi palestinesi erano stati cacciati dalla Palestina nel’ 48 ed erano finiti in Giordania. Da lì erano poi andati a studiare in Iraq, che era un paese abbastanza avanzato dal punto di vista accademico, il più avanzato nel Medio Oriente. Molti di questi poi avevano messo su famiglia, si erano sposati lì, eccetera.
Dopo la fine di Saddam, con l’occupazione dell’Iraq, è successo che questi palestinesi siano stati visti come collaboratori del regime e siano stati perseguitati, alcuni anche uccisi, altri mandati via dalle proprie case, come già era successo in Kuwait. .. e così sono finiti in mezzo al deserto, al confine giordano -ce ne sono anche al confine siriano- e nessuno si è più occupato di loro, solo alcune organizzazioni umanitarie.
Nessun paese arabo li ha accettati, e gli israeliani non li fanno ritornare, così sono rimasti al confine, intrappolati.
Ma la scena pazzesca è stato vedere i sacrifici che facevano i bambini per non perdere anni di scuola.
C’era la storia di questa bambina che andava a farsi dare delle lezioni da un’ insegnante sempre del campo profughi, in un’altra tenda. Ecco, dovevi vedere con che cura si metteva lo zaino, con tutte le penne, le matite, i quaderni, e faceva finta di andare a scuola.
E’ proprio una cosa che abbiamo nel sangue. C’è stata un’intera generazione di analfabeti, fra gli anni 30 e gli anni 50 … ma oggi l’analfabetismo è quasi zero nelle nuove generazioni. ..

Da piccolo guardavo passare gli aerei sopra e dicevo: “Un giorno vorrei salire in un aereo”. Devo dire che si è realizzato moltissimo di quello che volevo fare: ho viaggiato moltissimo in aereo, ho studiato, tra l’altro partendo da zero, perché durante l’Intifada, con la chiusura delle scuole, mi ero trovato con un livello di formazione scientifica equivalente a quello della prima superiore, perché i tre anni della maturità li avevo fatti in un anno in Palestina e nelle condizioni che ho raccontato prima.
In quei giorni tra l’altro c’era il coprifuoco totale così con alcuni compagni ci eravamo sistemati tutti in una stanza, d’altra parte, se ti beccavano fuori venivi messo in prigione, così senza nessun processo, e costretto a rimanere rinchiuso tre mesi e un giorno, e per noi voleva dire perdere l’esame di maturità …
Insomma per noi era questione di vita e di morte, non nel senso fisico, ma rispetto al futuro: era un attimo, quando passavi davanti a questi soldati dovevi sperare che non ti chiamassero, perché se guardavano la carta di identità e ti trovavano fuori dal campo … erano botte a volontà, e poi dopo la prigione. Ancora oggi non so come ho fatto a mantenere i nervi saldi, oltre al fatto di dover studiare tra gli ulivi e dormire fuori, che poi la notte i soldati venivano a fare dei controlli in giro, quindi facevamo le guardie, facevamo il turno, e poi la mattina si andava a scuola … Questa era la vita di uno studente “normale” in quegli anni. Finiti gli esami sono partito. Alla fine gli israeliani hanno fatto anche alcuni giochi con me, mi hanno chiesto: “Vuoi collaborare?”.
Comunque sono venuto in Italia e ho cominciato gli studi. Un altro mondo!

La prima a uscire è stata mia sorella, ha conosciuto un italiano, a Gerusalemme. Finito la terza media, aveva cominciato a lavorare per aiutare noi, come le altre sorelle, poi però è andata in questo istituto, a Gerusalemme, per ottenere la maturità e lì ha conosciuto mio cognato, si sono sposati. In quegli anni, eravamo nel 77, i matrimoni misti non erano così ben visti. C’è però da dire che la zona di Betlemme, e in particolare il campo profughi di Deisha, era abbastanza avanti. Era gente che aveva sempre fatto cose d’avanguardia, anche nell’Intifada, nella lotta, in generale avevano rotto molte tradizioni.
Comunque lei è venuta in Italia a proseguire gli studi, si è laureata, e poi si sono trasferiti in Spagna. Poi siamo partiti anche noi, dopo qualche anno. Oggi ho nipoti in tutto il mondo: a Mosca, in Romania, in Germania, in Spagna, in Italia, da tutte le parti. Sono cresciuti, recentemente si è laureato un altro mio nipote, ormai ha 25 anni, un altro è farmacista, insomma tutti sono laureati …. 

Con i parenti, in realtà non è che ci sentiamo spessissimo, e però siamo molto vicini. Tra l’altro la nostra è una famiglia molto divertente, c’è sempre la musica. Noi palestinesi non siamo un popolo di guerrieri, non lo siamo mai stati, non sappiamo neanche usare le armi. Dopo la seconda Intifada, col ritorno di Arafat nel 1993 e la firma degli accordi di Oslo, han cominciato a girare i fucili, ma non sapevamo usarli!
Quello che volevo dire che noi quando ci rivediamo, quei pochi che ci troviamo, è sempre musica accesa e danze. Se vedi mio fratello, il più grande, 46 anni, direttore di banca, che vive in Arabia Saudita e ha otto figli; ecco, se lo vedi ballare, fare stupidaggini con mia sorella, che ha un anno meno di lui, e si prendono in giro, e tutti a ridere, insomma è tutto il tempo così. Anche qui in Italia, quando c’è qualche rimpatriata di fratelli, sorelle, e nipoti, è così. Anche durante la raccolta delle olive, della verdura e della frutta, c’è sempre un’atmosfera festosa. Tant’è che mi basta pensarci che cambio espressione, divento allegro.

In Palestina mi sono rimaste tre sorelle, da poco è tornato anche un fratello che era in Italia. La cosa pazzesca è che due delle mie sorelle si sono sposate con palestinesi che sono cittadini israeliani, così durante la seconda intifada, per vederci, c’era da impazzire. Bisognava darsi appuntamento a un distributore di benzina che era al confine, dove stanno costruendo il muro. I miei genitori attraversavano il posto di blocco, dopodiché si fermavano, scendevano dalla macchina e stavano qualche ora con le figlie, poi tutti tornavano a casa. Per qualche anno è andata così.
Quest’estate quando sono tornato giù, i miei nipotini raccoglievano le olive dagli alberi, cercando di fare quello che faceva mia nonna. Lei prendeva le olive, le schiacciava con i sassi, le metteva con il sale, il limone e dopo una settimana erano da mangiare.
Ecco, loro volevano fare la stessa cosa, si ricordavano il suo racconto, ma sono piccoli, hanno quattro, cinque anni. Tra l’altro erano gli ulivi che avevo piantato io 20 anni fa, e mi chiedevano: “Zio, cosa bisogna fare?”. E io: “No, non bisogna lavarle così, bisogna metterle a mollo in acqua, così tutta la sabbia va fuori, e poi le schiacci, dopo che le hai pulite, mia nonna faceva così”, e così li vedevi, con queste manine, raccogliere le olive, tra l’altro bisognava cambiare l’acqua tre volte al giorno per due giorni, e loro lì, precisi, curavano queste cose come fossero giochi. Il rapporto con la terra, con le tradizioni, con i propri avi per noi è importantissimo.

In Palestina la donna ha sempre contato moltissimo, purtroppo non è più così. Il ruolo della del donna si è molto ridimensionato, e secondo me poi è molto per colpa dell’occupazione. Non è per dare sempre la colpa a Israele, e però…
Per tradizione, da noi, la donna, nella sua casa, è sempre stata la regina, per cui, riguardo l’ambito domestico, il marito si doveva sempre consultare con lei. Questo proprio storicamente: tutto quello che veniva deciso all’interno della famiglia, prima passava sotto il vaglio della donna.
lo ancora ricordo i racconti della nonna, che erano lezioni di saggezza, a volta anche di autorevolezza, infatti quando la nonna nel ’67 disse: “No, noi rimaniamo qui”, tutti le dettero ascolto.
Anche per questo aspetto, direi che noi palestinesi eravamo abbastanza avanti.
Nei momenti di crisi, come nel 1948, durante la diaspora, si sprecano i racconti su episodi in cui le donne si sono distinte.
Ho in mente la scena di un film “La porta del sole”, che racconta le peripezie di questi palestinesi che vengono costretti a lasciare i loro villaggi e spinti verso i campi profughi del Libano … Ecco, a un certo punto si vede questo gruppo di persone, ferme in una vallata, che hanno sete, fame, i bambini piangono e a un tratto una donna dice “Beh, le nostre case stanno due colline più in là, noi stiamo qua senza acqua, senza latte per i bambini, senza cibo, stiamo soffrendo l’impossibile, perché bisogna andare via? Torniamo indietro”. Prende il figlio in braccio e si incammina e tutti gli abitanti del villaggio la seguono. Una scena bellissima! Quindi la donna ha sempre avuto un ruolo fondamentale anche nella lotta. Alcune sono state arrestate, facevano le staffette, come i partigiani qui, o addirittura avevano ruoli di comando. Questo non era affatto raro.
Già durante il colonialismo britannico, quando molti uomini venivano arrestati, anche per il solo fatto di avere un coltello più lungo di sette centimetri in casa, era la donna che doveva prendere in mano la situazione, badare ai figli e alla casa, ma anche alla terra …
Oggi purtroppo la situazione della donna è tragica. C’è stata proprio una regressione. Ha ancora un suo ruolo, intendiamoci, però oramai, dal punto di vista politico, è tutto un po’ nelle mani degli uomini. E si vede!
Quest’estate, quando sono tornato in Palestina, mi ero riproposto di incontrare solo associazioni femminili anche per verificare l’eventuale possibilità di una collaborazione su alcuni progetti. Bene, intanto devo dire che, per quanto messe da parte, le donne palestinesi tendono a operare separatamente dagli uomini, li considerano, come dire, dei pasticcioni. E poi c’è un modo di lavorare completamente diverso. Nelle associazioni, nelle varie forme di sindacato, fa gli uomini c’è sempre questa appartenenza ‘di bandiera”, per così dire, che prevale su tutto e allora se uno appartiene ad Al Fatah o ad Hamas subito scredita quello che è dall’altra parte, dandogli del “corrotto”, eccetera. Con le associazioni femminili è tutta un’ altra cosa: non ti parlano dell’appartenenza politica, ma di quello che stanno facendo, di più, ti fanno velere i conti, i bilanci, le iniziative, eccetera. E poi spesso fanno un grosso lavoro sull’identità, anche attraverso il recupero dei ricami tradiziotali. lo comunque qui non parlo di identità intesa come appartenenza nazionale, per come la vedo io nell’identità c’è il fatto di sentirsi una lersona libera, al di là di tutte le appartenenze, di qualsiasi tipo.
Noi sappiamo che ai soldati la prima cosa che si insegna è di non guardare la faccia della vittima …
Ecco, queste donne stanno cercando di far vedere la faccia della vittima, con i loro racconti, con il mantenimento delle tradizioni, cercando di proteggere l’integrità della nostra coscienza e della nostra storia.
Perché un giorno, quando le cose cambieranno, dobbiamo essere pronti a riprendere in mano la situazione, da persone colte, che hanno studiato, osservato, che hanno imparato anche l’autocritica.

In questa sfida l’associazionismo femminile è forte, da sempre direi. Basti dire che la prima associazione femminile in Palestina è nata nel 1903. Purtroppo nel tempo, le interferenze dei partiti, dei movimenti politici, di lotta, eccetera, non sempre hanno avuto un’influenza positiva. Talvolta gli uomini hanno usato la leva della tradizione per rimetterle alloro posto.
Per dire, le associazioni femminili sono nate e proliferate anche durante gli anni dell’Intifada, ma quando si andava oltre il sociale, ovvero l’assistenza, la cura, venivano scoraggiate. O addirittura dileggiate, accusandole di voler emulare le donne europee.
Eppure, l’unica persona che ha sfidato Arafat alla presidenza è stata una donna, cioè non credo che in Palestina sia una cosa da poco.

A Siena sono impegnato in un’associazione che abbiamo creato nel 2004, si chiama Identità, Hawiyya. Come ho detto, io sono contrario alle identità fondate su delle appartenenze, però nello stesso momento penso che per poter vedere la vittima in faccia bisogna affermarne l’identità, che per me vuol dire dar voce alla storia e alla cultura palestinese. Insomma, bisogna sapere chi sono veramente i palestinesi prima di sferrare giudizi. Dopodiché ognuno è libero di giudicare, e magari li giudicherà peggio, non importa, basta che li giudichi in base a quello che sono.
Con l’associazione organizziamo varie iniziative. La cosa curiosa è che finora abbiamo invitato più israeliani che palestinesi. E perlopiù donne. lo resto dell’idea che siano più capaci di pensare liberamente, di essere più libere dai condizionamenti. Questa è un po’ la mia filosofia: bisogna disimparare, liberarci dai condizionamenti, da tutto quello che ci hanno ficcato in testa. Spesso da adulti siamo pieni di schemi, di categorie, così il nostro cervello, anziché essere un centro di analisi, diventa un mero centro di smistamento.
E’ chiaro che ci vuole una vita intera per imparare a pensare liberamente, però le persone che invitiamo vengono scelte in base a questo criterio. A noi infatti interessa innanzitutto che raccontino la loro esperienza, semplicemente. E’ importante perché si parla sempre di “conflitto”, ma la parola giusta è occupazione, colonialismo, e se si va avanti così si finirà per seppellire non solo noi e la nostra cultura ma anche gli israeliani. Anche loro sono stati condizionati dalla propaganda, gli hanno ficcato un sacco di cose in testa, e per riuscire a pensare con la propria testa ci vuole un grande coraggio. Per questo ammiro moltissimo gli israeliani che chiamerei “dissidenti”.
Per concludere, come associazione abbiamo anche un sito, www.hawiyya.org, con video, ecc. con cui cerchiamo anche di fare informazione.

Se penso di tornare? Il mio sogno è di ritornare laggiù, e creare un centro di ricerca nel mio campo, la biologia molecolare, mettendo in moto tutta una serie di ponti di collaborazione con altre persone, coinvolgendo magari anche altri palestinesi in giro per il mondo. In questo campo ci sono delle sfide che ci coinvolgono tutti, pensiamo alla ricerca sul cancro … ecco, qui non ci sono bandiere.
Oggi mancano le condizioni, sia di conoscenza mia che di finanziamenti per realizzare quest’utopia. Però, chi lo sa, vedremo.
Intanto proseguo nella mia formazione professionale che tra l’altro riserva anche delle sorprese come quella di trovarsi a lavorare con un israeliano sionista, come mi è successo durante un’esperienza all’estero, dove comunque ho imparato una cosa: che gli ostacoli possono essere degli stimoli.
Per il momento sto cercando di portare avanti alcune collaborazioni con diversi laboratori, negli Stati Uniti, a Zurigo, in Francia, anche in Italia, sto facendo ricerche e pubblicazioni. La prospettiva è quella di trovare una sistemazione migliore di quella che ho a Siena, che è quella dei moltissimi ricercatori italiani, che non a caso poi scappano. Ho avuto delle proposte e forse mi trasferirò qualche anno negli Stati Uniti, e se nei prossimi dieci anni si presenteranno le condizioni per tornare a casa …
Certo la Palestina mi manca: appena arrivo a Gerico, davvero mi ritorna l’anima. Quando sono fuori dal mio paese mi sento un viaggiatore senza bussola. Lì è tutto diverso: vedo i particolari, vedo tutto con un’ottica diversa, gli alberi, le persone … Il legame che ho con quella terra è qualcosa che va al di là dell’appartenenza culturale, io infatti non mi sento di cultura islamica o araba, mi sento un po’ un cittadino del mondo, e tuttavia …
E’ difficile da spiegare, c’è sicuramente il desiderio e il bisogno di dare qualcosa a quella gente, a quella terra, di lottare contro le ingiustizie, però c’è anche un rapporto sentimentale con quei luoghi.
Poi so anche che da lontano si tende a mitizzare, insomma bisogna anche vedere cosa succede se torno a vivere lì per un po’ …

Quando penso alla Palestina, alla sua storia, immagino un conducente di autobus che fa lo Schumacher della situazione, è uno della sua gente (penso evidentemente ad Arafat) che guida a velocità folle, il viaggio ha un suo sviluppo e però ad un certo punto finisce male, l’autobus si schianta contro il muro. Non muoiono tutti, qualcuno si salva, tra cui l’autista, che si gira verso i feriti e dice: “Ma potevate dirmi di rallentare”, in realtà c’era stato qualcuno che aveva tentato di dire: “Rallenta un po”‘, “Chi t’ha dato la patente!?”, cose così. Il fatto è che c’era quella targhetta: “E’ severamente vietato parlare al conducente”.
Ecco, forse siamo proprio destinati a schiantarci contro il muro.
Quello che comunque voglio dire è che questa gente cercava una guida, e non la riconosceva nel conducente, ma lui si è imposto. Anche i discorsi sulla nostra leadership così corrotta … E’ un effetto collaterale, tutto sommato, non è il cuore della questione. Il fatto è, per restare nella metafora, che molti di quelli che erano nell’autobus volevano un leader, una parte lo considerava adeguato, era un simbolo, aveva carisma, forza, energia, andava bene. Gli altri, che non so in quale percentuale fossero, invece mettevano in discussione tutto quello che faceva e non si fidavano. Quegli altri erano talmente avanti che vedevano quello che sarebbe successo dopo lo schianto contro il muro. E però non è mai venuta fuori una voce che dicesse: “Rallenta, attenzione, metti la freccia, fermiamoci un attimo” e così man mano che si procedeva ci si allontanava sempre di più dalla relazione con la base. D’altra parte in Palestina chi osava criticare il leader veniva messo a tacere: “Come, metti in discussione le qualità del leader? Ma noi non possiamo rischiare di rimanere senza leader, perché c’è l’occupazione … “. Purtroppo è andata così.


L’intervista è stata pubblicata sulla rivista “una città”, n. 160, novembre 2008.
Ringraziamo la redazione della rivista per l’autorizzazione alla pubblicazione.

Chi è la rivista  “una città”

Una città nasce nel marzo 1991 a Forlì per iniziativa di un gruppo di
amici, già impegnati politicamente a sinistra in anni giovanili, che,
senza alcun rimpianto per la militanza di un tempo né, tantomeno, per
l’ideologia che l’aveva sostenuta, erano accomunati dalla curiosità ‘per
quel che succede’, e dal desiderio di discuterne con altri, senza
pregiudizio alcuno.
Non essendo né intellettuali né giornalisti, quindi un po’ per necessità
(l’incapacità a fare saggi o reportage), un po’ per una buona intuizione
(l’idea che in un tempo di dubbi e domande più che di certezze,
l’intervista fosse un genere che ‘si prestava’) la rivista nasce come
‘mensile di interviste’.
Le interviste sono molto lunghe per scelta. I temi (sociali, culturali,
politici, ambientali) e gli intervistati (esperti ma soprattutto operatori
sociali e persone comuni) molto vari. Si può trovare, ad esempio,
l’intervista al giovane napoletano che grazie ai maestri di strada si
laurea in filosofia, e, subito dopo, quella alla storica che spiega come
San Francesco, con tutta probabilità, si fosse ammalato accudendo i
lebbrosi; si può leggere della situazione del distretto della scarpa di
lusso di San Mauro Pascoli e, voltata pagina, del giovane di An di Sondrio
che fa Heavy Metal, rugby, il consigliere comunale ed è pure un bravo
ragazzo.
Le interviste fatte sono ormai più di 1000 e tutte accessibili sul sito di
Una città.
La linea del mensile, quindi, è il risultato innanzitutto di un impegno a
domandare.
Ma i redattori della rivista sono accomunati anche dalla fedeltà ad alcuni
ideali: il libertarismo, il cooperativismo, l’internazionalismo. Di qui il
particolare interesse per tutte le ‘buone pratiche di cittadinanza’, in
cui si concretizza la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica,
alla discussione e alle decisioni; Una città, nel suo piccolo, cerca di
raccontare un’altra Italia, quella che senza clamore, e spesso senza
aspettare o rivendicare l’intervento dello Stato, affronta i problemi e
tenta di risolverli con spirito cooperativo. Di qui, anche, l’interesse
per quella tradizione libertaria e cooperativistica, pluralista, non
statalista, della sinistra italiana ed europea, del tutto dimenticata e
rimossa. Forse senza una qualche carta d’identità è difficile vivere e
forse la sinistra la sua non può che ritrovarla in quella tradizione.
(Come supplemento a Una città, escono saltuariamente i ‘Quaderni
dell’altra tradizione’, il primo dei quali è stato dedicato a Nicola
Chiaromonte, alla cui memoria i redattori si sentono particolarmente
legati).
Riguardo all’impegno internazionale Una città è andata a fare interviste
in alcune delle situazioni drammatiche che in questi anni ci hanno visto
spettatori quasi sempre impotenti: la Bosnia, l’Algeria, il Kosovo,
Israele e Palestina. (La raccolta di quelle israeliane è stata pubblicata
nel libro La bandiera Nera, il primo delle ‘edizioni Una città’). A volte
tale lavoro giornalistico si è tramutato in una vera campagna di
solidarietà. E’ il caso dell’Algeria, quando la rivista ha fatto il
possibile per far conoscere in Italia la resistenza, spesso disperata, dei
democratici algerini, allora completamente ignorati in Occidente, contro
il nuovo fascismo, quello fondamentalista islamista. Una città crede che
l’intreccio fra tutela della pace, difesa dei diritti umani, promozione
della democrazia e affermazione del principio del pronto soccorso (in
difesa di minoranze sotto minaccia di genocidio) debba essere
inscindibile. Inevitabile, quindi, anche la ripulsa più ferma di ogni
imperialismo che, inneggiando casomai alla democrazia, pratichi una
politica di potenza nel disprezzo dei diritti umani.

La rivista è totalmente autofinanziata, non ha pubblicità per scelta, si
riceve solo per abbonamento. I fondatori sono ancora tutti lì, ma ora la
redazione può contare su giovani redattori e su amici e collaboratori in
varie città italiane. Gli abbonamenti, all’inizio del 2005, sono circa
1450, equamente distribuiti per le città italiane.

www.unacitta.it

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