• Massimo Recalnati (a cura di) Il soggetto vuoto. Erickson Editore.
  • Massimo Termini (a cura di) Quando la psicoanalisi scende dal lettino. Borla Editore.
  • Maria Teresa Maiocchi Il taglio dei sintomi. Franco Angeli Editore.

DAI NUOVI SINTOMI UNA SFIDA ALLA PSICOANALISI

Tre libri affrontano un unico tema: la necessità che il metodo freudiano registri e adegui i suoi strumenti di cura

Il fatto che i tre libri del titolo siano apparsi in libreria a breve distanza l’uno dall’altro non rappresenta una semplice coincidenza editoriale: segnala, invece, l’urgenza di una questione di grande attualità e rilevanza nel campo della psicoanalisi, una questione che investe l’adeguamento della tecnica psicoanalitica alle nuove forme di insorgenza e di manifestazione dei sintomi psichici.

Di certo questo non vuole significare il definitivo superamento del classico setting della seduta analitica caratterizzato – com’è noto – dalla relazione tra un analizzato che associa liberamente i suo pensieri e un analista che ascolta. L’impostazione terapeutica elaborata da Freud per la cura dei disturbi psichici da lui studiata resta ancora attuale ed efficace. Ciò che, tuttavia, la clinica contemporanea impone come fenomeno non più trascurabile è la crescente presenza di domande di cura che nulla hanno a che vedere con una esigenza di analisi, così come la si intende classicamente. Domande che rinviano a condizioni di disagio psichico non più comprensibili attraverso vecchie categorie interpretative e che pongono una questione riassumibile in questo modo: poiché i sintomi psichici risultano sensibili alle trasformazioni storico-sociali e mutano il loro aspetto modificando le loro caratteristiche e assumendone di nuove, è necessario prevedere che la tecnica psicoanalitica si aggiorni per sintonizzarsi con maggiore precisione e rispondere con maggiore incisività alle difficoltà che l’attuale clinica manifesta.

Intorno a questa questione tutti e tre i titoli approfondiscono nuove prospettive di lettura della sintomatologia moderna, ma soprattutto introducono considerazioni sul modo in cui la clinica può affrontare la sfida che pongono patologie come i disturbi alimentari, le depressioni, gli attacchi di panico, le sindromi border-line, le iperattività infantili, le angosce legatela “transito” da un sesso all’altro, le dipendenze da sostanze o dalle tecnologie virtuali, le psicosi ordinarie, le normopatie.

Di fatto i temi teorici intorno ai quali i tre testi ruotano e convergono sono quelli fondamentali dell’attualità: traumaticità diffuse, evaporazione del ruolo simbolico del padre, polverizzazione dei legami sociali, disinibizione dei comportamenti di tipo perverso, eclissi della dimensione del desiderio a vantaggio della spinta compulsiva al godimento immediato.

In un contesto sociale dominato da quello che Colette Soler ha definito narcisismo, la soggettività assume forme inedite che interrogano lo psicoanalista e lo mettono di fronte a questioni cliniche nuove, le quali a loro volta segnalano una trasformazione nella domanda di aiuto che egli riceve nel proprio studio. Una domanda che, come dice Maria Teresa Maiocchi parafrasando una celebre espressione di Lacan riferita all’Edipo, “Dnon tiene più il cartellone”: una domanda che ha cambiato statuto, formulata in “modo decisamente sghembo”, non più veicolo del proprio inconscio. Una domanda che, in fondo, non esige altro se non una comprensione immediata, precostituita, desoggettivata del proprio malessere, capace di azzerare il disagio e di fare ripartire, senza troppe complicazioni, la macchina inceppata. Una domanda, dunque, che va trattata preliminarmente in maniera tale da farla diventare una domanda di cura e successivamente, semmai, una domanda di analisi.

Il soggetto postmoderno, infatti, come recita il titolo del libro curato da Massimo Recalnati, risulta sempre più caratterizzato da un vuoto interiore nel quale la classica dimensione nevrotica del conflitto – così storicamente prodiga di invenzioni e di creatività – si inabissa di fronte al predominio di vissuti di stupore, di perplessità, di conformismo sociale e di adeguamento alla norma. Sono persone, queste, che sempre meno riconoscono alla parola il potere di alleviare il proprio disagio e che cercano nella chimica (dei farmaci o delle droghe), così come nell’inebriante appagamento narcisistico, il rimedio ai mali che lo assillano. La psicoanalisi non può ignorare queste nuove varianti del funzionamento soggettivo, a fronte delle quali l’ostinato arroccamento su posizioni classiche, quelle per esempio che prevedono la assoluta neutralità terapeutica nel trattamento della domanda di cura, risulta anacronistico e inappropriato. La psicoanalisi, come afferma il titolo del libro curato da Massimo Termini, deve scendere dal lettino, deve sviluppare e contemplare inedite forme di intervento, deve applicarsi ad una clinica in continua evoluzione, deve rimettere in questione i suoi fondamenti – senza che questo comporti uno stravolgimento dei suoi principi – e deve poter rendere malleabile la propria tecnica: di fronte a certe forme di sofferenza mentale, per esempio, il silenzio dell’analista risulta del tutto respingente e inadeguato.

Il futuro della psicoanalisi sta in questa possibilità di riformulazione del suo nucleo teorico-clinico, senza che vengano minate le fondamenta su cui poggiano le sue differenze con ogni altra forma di psicoterapia: una riformulazione che ne plasmi l’incisività, in modo da adeguare la sua presa alla complessità dei sintomi contemporanei.

FRANCO LOLLI. Il Manifesto 17 giugno 2011.


GIORNI DELL’IRA

Un nervo dell’anima punto dall’ingiustizia

“Ormai hanno già sfasciato tutto, cassette delle lettere, porte e scale. Il policlinico, dove curano gratis i loro fratelli e sorelle più piccoli, lo hanno demolito”. Lucido nel suo sconcerto rispetto alle prospettive della guerra civile che da trent’anni va in scena nelle banlieue francesi Hans Magnus Enzensberger riportava in un libro pubblicato agli inizi degli anni Novanta (Prospettive sulla guerra civile, Einaudi) i commenti di un assistente sociale davanti alla violenza artistica degli immigrati di seconda generazione di origine araba e africana contro le strutture di primo soccorso che governano la marginalità sociale.

In queste cupe manifestazioni di impotenza si riconosce “un’internazionale dei misantropi”, sarcastica definizione con la quale Peter Sloterdijk ha descritto in Ira e tempo (Meltemi, pp.283, € 21,50) la muta degli uomini nauseati che sopravvive ai margini e nelle pieghe delle società del precariato di massa. Notte dopo notte, e di insorgenza in insorgenza, questi misantropi declassati si disgregano in isolati stordimenti, colpiscono l’ordine costituito con rigurgiti di rabbia il cui unico effetto è quello di rafforzare l’alienazione quotidiana. Nelle scuole, negli uffici, nelle attività illegali necessarie alla sopravvivenza, ecco spalancarsi una terra di mezzo dove la pauperizzazione della classe media s’intreccia con la disperazione del sottoproletariato metropolitano.

Da quando è fallita quella che Sloterdijk chiama la “banca dell’ira” del comunismo, il magnete che ha attratto per più di un secolo le energie timotiche mondiali contro il capitalismo ( dal greco thymos, l’ira o il furore degli eroi omerici), le energie sembrano disperdersi in riti collettivi poco più che simbolici. Nessun iddealde canalizza il furore distruttivo delle masse spossessate in una violenza civilizzata. Una volta estinto il dispositivo che ha trasformato la guerra sociale in guerra di classe sembra che non ci sia più limite alla psicopatologia delle passioni tristi che svuota come un tarlo l’anima, trasformando l’ira in risentimento e recriminazione.

Gli unici che per Sloterdijk avrebbero accarezzato il pelo della bestia sono gli islamici fondamentalisti i quali, dopo l’11 seettembre, hanno inaugurato una “banca dell’ira regionale” capace di ricondurre i furiosi al culto della trascendenza teologica. Una tale previsione di corto respiro, smentita dalle rivoluzioni tunisine ed egiziane che hanno sospeso l’ipoteca fondamentale sull’ira, canalizzandola verso una domanda di libertà e democrazia. In questa ed altre ricostruzioni è molto forte la tentazione di declinare l’ira come un veleno iniettato da un genio maligno in un organismo che tende naturalmente ad un equilibrato governo dell’humor nero. E’ la posizione di Sofocle per il quale l’ira è la ragione dell’accecamento di Edipo che uccide il padre in un quadrivio per una questione di precedenza tra carri.

Ma la passione furente è qualcosa in più della rabbia che si prova ad un semaforo. E’ una passione civile ed è il “nervo dell’anima”, scrive Platone che distingue l’ira giusta da quella ingiusta. L’animo irascibile è thymos gennaios, è nobile quando lotta contro l’ingiustizia. Esso non è prerogativa esclusiva dei “Re-filosofi”, ma investe quella parte della città popolata dalla classe dei guardiani. Solo quando entra nel ristretto perimetro dei governanti (e degli intellettuali), l’ira diventa degna e civile. Colui che più di ogni altro è riuscito in questa impresa è stato Aristotele.

Nell’Etica nicomachea l’ira è il desiderio di vendetta accompagnata dal dolore per una palese offesa arrecata alla propria persona o a qualcuno a noi legato. Non vendicarsi dell’offesa ricevuta crea vergogna. Sopportare l’oltraggio è un atteggiamento da schiavi.

L’ira è inoltre un fattore di equilibrio tra il governo di sé e quello degli altri, scrive Remo Bodei (Ira. La passione furente, Il Mulino, pp.135, €14). Le correnti cristiane che si sono riconosciute in Paolo e in Agostino, fino alla Scolastica e a Dante, vedono nella “santa ira” di Gesù contro i mercanti del Tempio il tentativo di costringere gli uomini ad entrare in contatto con se stessi, sollevandosi da una peccaminosa indegnità. “Adiratevi e non peccate – ha scritto Paolo – il sole non tramonti sul vostro sdegno”. Perché questo sia possibile è necessario un lungo addestramento come si fa per i cavalli imbizzarriti. Si inizia da piccoli, con l’educazione al linguaggio, l’imposizione di una postura corporea, accedendo infine all’obbedienza ad un principio morale o teologico.

Anche in questo modello resta tuttavia un non-detto. L’ira è una passione fisiologica ed individuale che facilita la meditazione sulla trasformazione del mondo, e non solo di se stessi, ma resta una prerogativa riservata all’uomo (maschio e bianco) che coltiva la mitezza come ideologia della medierà tra la furia e la depressione. La marea iraconda viene drenata dalla diga del giusto mezzo, cioè dall’innata moderazione delle istituzioni democratiche che devono sedare l’ingiustizia. Non si contano, infatti, gli alambicchi psicologici, sociali e giuridici attraverso i quali la democrazia corregge i propri errori e ridistribuisce una quota minima di giustizia agli scontenti. Ma cosa succede quando sono queste stesse istituzioni ad incarnarne il torto sulla terra? Chi può dare voce al dissenso quando è la stessa democrazia ad essere ingiusta? E’ difficile trovare una risposta visto che sin da Platone il popolo, gli schiavi e i diversi, gli stranieri si son visti negare il diritto di partecipazione agli affari della polis. Persino Spinosa ha negato la dignità dell’ira alle donne. Gli esclusi dalla democrazia sono tutti come Medea, la donna posseduta dagli immansueta ingenia dei poli incolti dotati di temperamento selvaggio e intrattabile. In un perverso gioco di specchi, la democrazia preferisce non dare voce al suo indocile ingegno imponendo al contrario una rigida disciplina che la rende mite in superficie e crudelmente diseguale nel sottosuolo.

Davanti all’odio feroce per il popolo, come per tutti i soggetti che la democrazia bandisce incurante dei diritti fondamentali che dovrebbe garantire, sono ancora in molti a coltivare la fede in un galateo delle passioni capace di bruciare il risentimento in attesa che le porte della città si aprano per tutti. Il conato che strozza il misantropo, l’odio che zittisce i declassati, l’ira degli esclusi e dei banditi non troveranno mai pace intorno al banchetto delle buone maniere, della valorizzazione del capitale umano e dell’ineffabile meritocrazia che viene ammannita nelle scuole e nelle università italiane.

Le rivoluzioni moderne hanno dato una forma alla grandiosa indignazione contro questa follia. Non di bestiale competitività, o di ipocrita comprensione, hanno bisogno per vivere gli immansueta ingenia, ma di una vigorosa redistribuzione della ricchezza e di innovazione intellettuale e produttiva. Ma, in tutta evidenza, queste rivoluzioni non sono riuscite a tirare le briglie al veleno del risentimento, né alla burocrazia della violenza. La principale vittima è stato il comunismo, l’ultimo vascello che ha navigato nell’oceano dell’ira. Per seguire la direzione della sua deriva è senz’altro preferibile seguire l’analisi che Etienne Balibar ha sviluppato nel recente Violence et civilté (Gallimard, pp.417, €35). Il comunismo, per il filosofo francese, è stato il tentativo di “civilizzare” l’ira del popolo e la sua violenza.

Waler Benjamin e Rosa Luxemburg, vittime anch’essi di un’atroce violenza, hanno forgiato un’attitudine che non riduce l’ira ad una forma logica o, peggio, biografica. Essa è stata considerata invece il dispositivo politico attorno al quale costruire una più ampia dialettica tra la violenza dei dominanti e l’antiviolenza delle pratiche rivoluzionarie. Lo Stato e il mercato non sono gli unici agenti della violenza contro la quale il popolo moltiplica mimeticamente i suoi effetti distruttivi. E’ piuttosto il popolo a creare un contro-veleno attraverso una serie di strategie di emancipazione indipendenti dalle strutture istituzionali in cui esso vive.

“Prima di sognare di fare educare il popolo dallo Stato – ha scritto Marx nella Critica al programma di Gotha del 1875 – non converrebbe pensare al modo in cui il popolo potrebbe rieducare vigorosamente lo Stato?”. Ispirandosi alla sottigliezza di questo rovesciamento dialettico, Antonio Gramsci – e con lui il marxismo contemporaneo da Ernesto Laclau a Antonio Negri – ha chiarito che una politica rivoluzionaria non è semplicemente l’esercizio di una contro-violenza di classe, ma l’invenzione di una nuova “civiltà” nella quale il dissidio politico viene affrontato partendo “dal basso”, cioè dal pluralismo costitutivo della società.

E’ vero che nessuno di queste soluzioni sembra aver soddisfatto l’appetito della bestia. Chi ha a cuore una nuova civiltà dell’ira dovrebbe quindi invitare tanto gli uomini, quanto le donne, a fare personalmente esperienza dei suoi effetti ambivalenti. Se fosse così l’ira non verrebbe più considerata uno strumento politicamente neutro che gli oppressi scagliano contro lo Stato, come credeva anche Lenin. Al contrario, entrerebbe a far parte di una politica che permette agli oppressi di ribellarsi contro la “servitù volontaria” e la “barbarie” di cui sono i principali attori.

Per questa ragione non bastano le insurrezioni popolari per fare una rivoluzione. Serve una riflessione di secondo grado sulle aporie del programma di emancipazione universale. Ed è proprio sulla rottura tra rivolta e rivoluzione che la tradizione marxista ha perso colpi. Estinta questa tradizione non è tuttavia detto, conclude Balibar, che le sue premesse politiche non valgano ancora oggi. Rivoluzione è sottrarsi alle antinomie del potere e, di conseguenza, a quella tradizione sacrificale che risponde alla violenza con un’altra contro-violenza. Per farlo, però, non bisogna accettare di restare nella posizione sociale imposta dal potere. Meglio allora cambiare posizione con gli altri che condividono lo stesso desiderio. Diventare attivi quando invece ci vorrebbe passivi e, viceversa, sottraendosi ad un futuro già scritto. Chi ha detto che non stia accadendo proprio questo nell’area euromediterranea, a due anni dall’inizio della crisi?

ROBERTO CICCARELLI. Il Manifesto. 09 febbraio 2011.

SCAFFALE (alcune indicazioni bibliografiche).

“Giorno dell’ira, giorno di rovina e di sterminio, giorno di squilli di tromba e d’allarme sulle fortezze e sulle torri d’angolo”. E’ il testo del “Dies Irae”, giorno in cui avviene il giudizio finale dove i buoni saranno salvati, che appare nel libro di Sofonia contenuto nella Bibbia ebraica e cristiana, nel nuovo testamento e anche nella tradizione islamica. Da Mozart a Verdi, da Britten a Berlioz, sono molte le versioni dell’inno che descrive il giorno in cui l’umanità conoscerà la salvezza. Jan Assmann ne ha ripercorso la genesi in “Dio e gli dei. Egitto, Israele e la nascita del monoteismo” (Il Mulino 2009). L?interpretazione medievale di questa passione, da Tommaso fino a Dante, metterà l’accento su una vendetta che si compie nell’interesse degli altri e non di se stessi. John Steinbeck in “Furore” (Bompiani) ha approfondito questa visione “civile” dell’ira, descrivendone le conseguenze davanti all’ingiustizia sociale. In questo solco si inseriscono “Jane Eyre” di Charlotte Bronte, “I fratelli Karamazov” e “I demoni” di Dostoevskij che hanno tramandato la figura del rivoluzionario posseduto da un ideale di giustizia sociale che si rovescia nel suo opposto totalitario. Ad esiti meno tremendi giunge Gustavo Zagrebelsy in “Il Crucifige! E la democrazia” (Einaudi) che privilegia il lato mite ddella democrazia. In “L’epoca delle passioni trsti” (Feltrinelli) Miguel Benasayg e Gérad Schmidt hanno infine messo le basi per una psicologia dell’ira.

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