Come può un insegnante diventare un “testimone consapevole” nella relazione che instaura con i propri bambini?

Alice Miller nei suoi scritti non si è mai soffermata sul ruolo dell’insegnante nel rapporto con il bambino, ma leggendo i suoi libri, risulta piuttosto semplice intuire che sicuramente anche un insegnante può rivestire questo ruolo nella crescita di un bambino.

E allora viene spontaneo domandarsi: l’insegnante è complice (del genitore maltrattante) o testimone consapevole (dei suoi eventuali disagi) nei confronti del bambino?

Oltre ad essere una psicologa e psicoterapeuta da ormai vent’anni lavoro nella scuola come responsabile del servizio di dopo scuola e quindi quotidianamente ho modo di osservare i rapporti che si instaurano tra gli insegnanti e i bambini.

A cosa danno maggior importanza alcuni insegnanti nel loro lavoro con i bambini?

Con una certa sicurezza posso affermare che in primo luogo si preoccupano di educarli, di pretendere da loro rispetto e disciplina anche solo per il fatto di essere loro adulti (posizione UP) e loro piccoli (posizione DOWN); chi di loro si comporta così non fa altro che riproporre per il povero bambino la diade con il genitore (spesso la madre) dove lui/lei comanda e egli/ella deve necessariamente obbedire.

Nell’interazione con l’adulto infatti il bambino rappresenta il sistema più fragile e allora inevitabilmente, si affida per la propria crescita ed il proprio sviluppo cognitivo ed emotivo a chi è più grande di lui ed quindi responsabile del suo sviluppo e della sua sopravvivenza.

Quello che noto,con una certa frequenza e quasi ogni giorno “tocco con mano” lavorando nella scuola è una centralità dell’immagine dell’insegnante a discapito di quella del bambino: c’è come una sorta di assetto gerarchico piramidale in cui l’insegnante molte volte ricopre la parte superiore in cima alla piramide e sotto ci sono i bambini… da gestire e comandare e su cui esercitare un potere.

I bambini hanno bisogno di una guida per la loro crescita quindi è abbastanza normale che ci sia, nella scuola, una situazione di questo tipo, il problema però è che spesso chi per definizione è guida (l’insegnante) abusa di questa posizione diventando una sorta di comandante di un esercito da riordinare in maniera dittatoriale.

La relazione tra un bambino e il suo insegnante,come del resto quella tra il genitore e il figlio, ha carattere asimmetrico in quanto tra i due soggetti della relazione il bambino è il sistema meno maturo che in quanto tale si lega ad uno più maturo, responsabile della sua crescita cognitiva ed affettiva. Quindi è scontato e direi fisiologico che il bambino affidi se stesso e tutto il suo processo di crescita a chi è più capace di lui in termini di competenze e acquisizioni.

In questa ottica quindi l’insegnante diventa un mero punto di riferimento per il bambino il quale (proprio per il suo bisogno innato di attaccamento)è anche convinto di avere un rapporto privilegiato con l’insegnante e mette in atto tutta una serie di strategie per realizzarlo.

Nella fase iniziale della scuola infatti, ogni bambino richiede l’approvazione e ricerca il contatto fisico con l’insegnante proprio come il neonato ricerca amore e protezione nel suo rapporto con la madre; il rapporto con l’insegnante diventa così per il bambino una sorta di “secondo imprinting”riprendendo concetti legati all’etologia umana.

La scuola però non sempre aiuta e facilita questo tipo di rapporto.

Personalmente mi accorgo che spesso la preoccupazione primaria degli insegnanti nei loro rapporti con i propri alunni è prima di tutto quella di educarli ad essere dei bravi bambini, rispettosi delle regole e non ultimo di essere dei bravi scolari.

All’interno degli istituti scolastici si assiste spesso a scene riconducibili piuttosto ad altre situazioni : i bambini vengono predisposti in fila e richiesto loro silenzio assoluto quasi fossero soldati all’interno di una caserma e, se per caso qualche bimbo un po’ più coraggioso contesta l’ordine impostogli dall’insegnante, scattano nell’immediato delle punizioni o delle note di demerito da portare al genitore a casa.

Ci si preoccupa quindi spesso prima di educare il bambino, peraltro reprimendo l’autonomia promessa dai suoi istinti, piuttosto che di entrare in relazione e sopratutto di stare nella relazione con lui.

L’educazione prende così il sopravvento sulla relazione e poi ci si stupisce se i rapporti instaurati con i bambini non sono adeguati alle aspettative degli insegnanti: in tanti anni di lavoro nella scuola ho capito e constatato più volte che un bambino diverrà rispettoso delle regole e diligente solo se prima si è coccolato, ascoltato, compreso… altrimenti si scateneranno in lui due comportamenti: o una chiusura, un ritiro sociale dalla vita scolastica, una sorta di apatia o al contrario un comportamento reattivo caratterizzato da irrequietezza e agitazione.

Proprio perché “vivo” la scuola ogni giorno mi rendo perfettamente conto che non sempre per un insegnante è facile avere un atteggiamento empatico con i propri alunni e che sicuramente il loro lavoro è piuttosto faticoso sia ad un livello mentale che emotivo: le classi sono spesso composte da un numero elevato di alunni e l’insegnante spesse volte si sente solo nel fronteggiare tante difficoltà e nel comprendere le differenze individuali di ogni bambino.

Ma l’esperienza che ho, non solo come psicologa ma ancor prima come educatrice, mi ha insegnato che un atteggiamento empatico, affettuoso e una posizione di ascolto nei confronti dei bambini, anche nei momenti più difficili e stressanti è quello che meglio facilita poi i rapporti con l’intero gruppo classe e il singolo bambino.

Rispetto ad un genitore, un insegnante ha la possibilità di maltrattare psicologicamente i propri bambini in maniera ancora più mostruosa e cattiva esercitando un potere su di loro che spesso annienta le loro personalità e poco li rassicura come soggetti in evoluzione.

Ma perché spesso l’insegnante si comporta in tal modo nella relazione con il bambino?

Senza voler psicologizzare troppo sull’argomento si può ipotizzare seguendo come filo conduttore gli studi sull’attaccamento di Bowlby e i successivi scritti della Miller che all’insegnante stesso sia mancato da parte delle sue figure di riferimento infantili un adeguato sostegno e supporto alla propria crescita e che quindi a livello inconsapevole e alle volte consapevole, voglia scaricare su terzi le sue frustrazioni e i suoi vissuti infantili.

E quale miglior occasione per l’insegnante di una platea così tanto grande quanto una classe di bambini per esercitare un potere coercitivo e per indottrinare tanti scolari?

Un bambino traumatizzato o psicologicamente abbandonato dalle figure parentali che nel suo cammino trova un testimone consapevole o illuminato quale può essere un insegnante ha buone probabilità di affrontare positivamente le conseguenze di quei traumi infantili.

Alice Miller spesso nei suoi libri sostituisce il termine “testimone consapevole” con quello di “avvocato difensore” e in effetti un insegnante dovrebbe essere proprio il difensore dei diritti del bambino non ultimo quello di essere ascoltato e capito anche nelle sue manifestazioni più irruente.

Quando un bambino si sente protetto, capito e compreso nella sua personalità sarà poi contento e felice di farsi guidare nel suo cammino scolastico e comprenderà l’importanza della regola che deve essere necessariamente spiegata e condivisa per far si che le cose, all’interno della scuola, funzionino bene.

Non si possono solo impartire degli ordini senza spiegarli.

Fortunatamente conosco anche insegnanti che sono per i bambini dei veri “testimoni consapevoli”, delle valide guide per i loro alunni e quasi come un’equazione matematica, lì dove osservo questi tipi di atteggiamenti più accoglienti ed empatici, ci sono delle relazioni sane ed adeguate tra insegnante e bambino.

E ciò che ho più volte constatato sono i benefici di queste buone relazioni: infatti dove si è instaurato un buon rapporto anche il rendimento scolastico è soddisfacente e gratificante.

Quante volte infatti anche da persone adulte si sentono frasi come: “odiavo la matematica ma ho avuto un insegnante talmente bravo che mi ha fatto amare questa materia”.

Chiaramente nella bravura dell’insegnante non c’è solo una competenza legata alla trasmissione di saperi ma probabilmente una capacità di entrare in relazione empatica con l’alunno cercando di aiutarlo e sostenerlo nelle sue difficoltà facendolo credere in se stesso e nelle sue capacità.

Per il futuro sarebbe auspicabile approfondire, in un’ottica “milleriana” il tipo di legame e le relazioni significative che possono e direi devono svilupparsi tra insegnante e alunno.


Share This