Prima di iniziare a esporre le mie riflessioni su un argomento così controverso come la coscienza, vorrei fare alcune premesse epistemologiche, per sgombrare il campo da possibili grossi fraintendimenti.
Come esposto da Michele Minolli nella sua ultima opera Essere e divenire, la sofferenza dell’individualismo, per affrontare il mare aperto del pensiero è necessario prima di tutto non infrangersi su due problemi storici, simbolizzati dalle figure mitologiche di Scilla e Cariddi.
Scilla rappresenta il pensiero oggettivista, per cui si riteneva che la scienza potesse avere un accesso diretto alla realtà. Le nostre osservazioni, se scientifiche, avrebbero potuto comprendere la realtà: si trattava solo di avere un metodo corretto e fare le domande giuste e la realtà ci avrebbe svelato come stavano le cose. Ma siamo arrivati a capire che ciò che abbiamo sono solo le nostre rappresentazioni e le nostre teorie: come afferma Minolli, “non si modellizza il reale, ma si modellizza un punto di vista sul reale”. Questa uscita “dal porto sicuro” del ritenere possibile una presa diretta ed oggettiva sulla realtà, parrebbe implicare il non poter dire nulla su cosa ci sia veramente “là fuori”: ciò che “tocchiamo” sono solo le nostre rappresentazioni, manipoliamo le nostre costruzioni, ciò che affermiamo è sempre relativo e soggettivo: da questo punto si apre un grande dibattito con la possibilità di conclusioni inconciliabili ed indimostrabili: per alcuni la realtà esiste, per alcuni non esiste, per alcuni esiste come noi la creiamo.
Personalmente ritengo che la realtà esista e che le nostre rappresentazioni non possano essere mai totalmente avulse da essa, perché anche noi ne facciamo parte, e le nostre rappresentazioni sono una espressione fenomenologica emergente della nostra interazione globale con l’ambente in cui evolviamo: una qualche relazione utile tra le nostre rappresentazioni e ciò che “sta là fuori” esiste, perlomeno  è sufficiente a farci regolare per la nostra sopravvivenza. È un punto di vista alquanto approssimato, ma non fosse stato efficace, la nostra specie sarebbe estinta da tempo. Un rapporto tra le nostre rappresentazioni e la realtà esiste sempre, anche nei particolari rappresentanti del genere umano, gli psicotici, che si rappresentano quanto sta “là fuori” in modi non comprensibili al gruppo umano in cui sono inseriti. Per uno schizofrenico allucinato, la tigre che vede aggirarsi minacciosa intorno a lui ha la stessa realtà della persona che ci siede accanto in metropolitana, e possiamo star certi che per l’allucinato compagno d’umanità, in un certo senso, c’è sicuramente “una tigre accanto a lui”.
Poiché, come osserva Minolli, la storia del pensiero umano è un po’ un succedersi di oscillazioni da un estremo all’altro, ad una posizione in cui “non sappiamo nulla realmente della realtà”, è seguito l’opposto: “la realtà la facciamo noi”.
Questa posizione la possiamo vedere nel costruttivismo estremo, ma anche in moltissima parte della fisica moderna.
È opinione comune che le equazioni d’onda descriventi un sistema quantistico siano riferite all’oggetto studiato, e per moltissimi fisici quest’ultimo è modificato dall’osservazione dello sperimentatore. Questo modo d’interpretare le equazioni porta ad una serie di paradossi. Un paradosso famoso è quello del gatto di Schrödinger.
Si ipotizza di chiudere  un gatto in una scatola con una fiala di veleno. La fiala si rompe in base ad un evento quantistico con probabilità di accadere del 50 %. Nell’interpretazione classica prima di osservare cosa succede, l’equazione d’onda prevede che il gatto sia vivo e morto nello stesso momento: l’osservazione fa collassare uno dei due stati. L’osservazione fa magicamente sparire  il gatto vivo o morto. Da questa paradosso  derivano le teorie degli universi paralleli e i film di fantascienza dove, muovendosi nel passato, la realtà presente si dissolve e prende il suo posto un’altra alternativa. A volte le varie configurazioni s’incontrano e paradossalmente convivono.
Ma tutti questi paradossi sono eliminati se l’equazione d’onda è considerata non come una descrizione del fenomeno, ma semplicemente come una descrizione formale della fiducia soggettiva dell’osservatore di trovare il sistema in un dato stato. È quanto affermano Caves e Fuchs, due eminenti fisici, nella teoria definita QBIsm (Bayesianismo quantistico) basata sulla probabilità bayesiana (Thomas Bayes era un pastore presbiteriano del XVIII sec le cui idee furono perfezionate dal fisico francese Pierre-Simon Laplace).
Insomma, il gatto è vivo o morto, indipendentemente dalla nostra osservazione, e quando si apre la scatola si scopre come stanno le cose.
Secondo questa visione della fisica quantistica, le osservazioni non modificano la realtà, ma solo le nostre ipotesi su di essa. Tale affermazione sul gatto di Schroedinger parrebbe un’affermazione pacifica, ma l’ipotesi QBIsm non è per nulla condivisa: per eminenti scienziati l’osservazione modifica la realtà. Ma questa teoria è basata su una certa interpretazione di una formulazione matematica.
In definitiva, anche le più serie e autorevoli teorie scientifiche sono solo nostre rappresentazioni della realtà, che possono modificarsi in relazione ad essa, restando nostre rappresentazioni. Come stiano le cose là fuori ci è impossibile stabilirlo con “oggettiva certezza”.
Non dobbiamo confondere le nostre previsioni con delle presunte proprietà di ciò che è “la fuori”, né tantomeno pensare che noi creiamo la realtà. La realtà fa il suo corso, noi ne facciamo parte, la nostra possibilità di conoscere, di rappresentarci la realtà, deve aver presente che stiamo maneggiando nostre rappresentazioni, che non hanno alcuna magica capacità di creare o modificare ciò che esiste, ma solo la rappresentazione che ce ne facciamo.
Ma allora possiamo solo dire depressivamente “non so nulla” o maniacalmente “non solo non è vero che non so, ma sono io che faccio la realtà”?
Mi pare necessario sottolineare che il nostro rappresentarci la realtà, per quanto necessariamente prospettico ed approssimato, ci ha permesso di raggiungere la luna e di viverci per alcuni giorni: se non vi fosse stata una certa corrispondenza tra le teorie e la realtà con cui si sono relazionati, certamente non potremmo parlarne ora.
Le modalità del conoscere possibile a noi umani, sollevano la necessità di procedere lungo un processo senza fine di continue  integrazioni con le rappresentazioni prodotte da altri, essendo tutti consapevoli che ogni rappresentazione, anche sintetica, di molte altre rappresentazioni non può che essere un altro punto di vista parziale, e che, al di là delle nostre rappresentazioni, la base ultima del reale per noi è irraggiungibile.
Ritengo che questa visione sia presente da millenni nella riflessione umana.
Nell’antico testamento si narra che quando gli uomini decisero di costruire a Babele una torre per raggiungere il cielo, Dio interruppe a un certo punto l’opera creando la confusione delle lingue. Il racconto mi pare una bella metafora di quanto succede quando cerchiamo si avvicinarci ad una dimensione ultima della realtà: su primi livelli si può anche essere d’accordo, ma poi ognuno, costruendo l’edificio concettuale per afferrarla, la esprime diversamente e si finisce per non comprendersi più, con il risultato che l’impresa viene lasciata incompleta perché non si ha voglia di capire  con quale linguaggio parla l’altro, da quale prospettiva l’altro vede la stessa cosa. Si potrebbe ipotizzare che la costruzione avrebbe potuto continuare, facendo uno sforzo di traduzione, pur non potendo aver mai fine. Per quanto possiamo continuare ad articolare le rappresentazioni di molti in una visione sempre più vasta, resta sempre quel salto incolmabile tra ciò “che sta là ” e le nostre più sofisticate rappresentazioni.
Se questo è vero per fenomeno “semplici”, come la struttura della materia, il moto delle stelle, il tempo atmosferico, il problema diventa davvero arduo parlando di coscienza.
Se dovessimo fermarci a un livello fenomenologico, dovremmo limitarci a parlare di quello che Minolli definisce come “la coscienza di coscienza”, la coscienza estesa di Damasio.
È l’unico livello auto evidente perché nostra esperienza di io-soggetto e perché raccontabile da altri io-soggetti. Come afferma Minolli, solo da questo livello è possibile farsi carico di ciò che è successo prima. È lapalissiano: non si pone il problema se al livello per cui “fare un effetto esserci” – “coscienza”, coscienza nucleare, coscienza primaria, coscienza implicita – non “fa un effetto coscienza” ‒ “coscienza di coscienza”, coscienza estesa, ecc.
Ad un gatto o un bambino di 15 mesi fa certamente effetto esserci, ed entrambe si relazionano con noi, “coscienti di essere coscienti”, con una competenza relazionale sofisticatissima, e le nostre teorie su quello che vogliono e vogliono da noi saranno piuttosto accurate, pur non potendo esserci alcuna traduzione in una formulazione verbale fornita dal soggetto su ciò che sperimenta.
Gatto e bimbo si regolano benissimo nella realtà in cui si trovano e usano ciò che hanno ma non possono rappresentarsi le loro rappresentazioni. Detto in parole povere non si “pongono problemi”, ma questo non significa non provare gioia, dolore, frustrazione, avere una previsione di ciò che si possono aspettare o non aspettare. Coscienza nucleare, primaria ecc.
Ma si pone il problema di ciò che esperimenta solo un io soggetto che abbia avuto il tempo sufficiente per maturare una coscienza auto riflessiva. Ma che relazione esiste tra questo livello di organizzazione del soggetto con il precedente?
Quali teorie abbiamo a disposizione per ragionare su questo, cosa ci possono dire e cosa facciamo dire loro per forza?
La teoria dei sistemi complessi applicata alla biologia ed alla neuro fisiologia descrive il fenomeno coscienza, sia nella forma nucleare che nella forma estesa, come una funzione emergente del soggetto. Per Edelman la coscienza nucleare è una funzione emergente della memoria del soggetto che confronta il sé con il non sé.
Secondo la teoria dei sistemi complessi dall’interazione complessa emergono proprietà totalmente nuove, imprevedibili rispetto alle condizione precedenti, seppure in qualche modo condizionate. Si parla di attrattori, condizioni iniziali, ma non esiste alcun rapporto di casualità lineare e prevedibile.
Questa teoria è una struttura narrativa che ben rende conto dell’esperienza dell’imprevedibilità di ogni fenomeno, se vogliamo coglierlo in natura, fuori dal letto di Procuste di modellizzazioni ultra approssimate della realtà (la fisica del gas ideale). Nel linguaggio della teoria dei sistemi complessi “non esistono rapporti lineari”. La caduta dei gravi è “lineare” solo in una situazione artificialissima, certo non in casa nostra, dove i modelli matematici utilizzati per fare previsioni potranno al massimo esprimere probabilità, ma il comportamento del sistema può essere solo descritto a posteriori, volta per volta.
Che rapporto c’è tra questa nostra metateoria della rappresentazione e ciò che ci rappresentiamo? Sappiamo che le nostre teorie parlano di ciò che sta la fuori ma anche, o soprattutto di noi.
Ritornando alle proposizioni sulle funzioni emergenti, quando diciamo che sono una novità emergente dal sistema, parliamo della nostra rappresentazione del nostro rapporto con il fenomeno, del fenomeno in sé non sappiamo.
Potremmo anche dire che ciò che vediamo ora prima non c’era, ma a noi non è possibile escludere ci siano relazioni che non potremmo formulare secondo un’altra teoria. Non possiamo vedere direttamente. Sulla relazione tra i due livelli, come a proposito del gatto di Schoedinger, possiamo giungere a sostenere paradossi, se non abbiamo presente che la teoria descrive solo l’aspettativa dello studioso. Solo l’osservazione rivelerebbe come stanno le cose dentro la scatola, ma noi non possiamo aprire la scatola.
La cosa che parrebbe accettabile per tutti è che per noi umani sapere equivale a vedere ciò che è già successo senza possibilità di previsione. La trama, la tessitura della realtà è complessa (“complesso” deriva dal latino complexus, ciò che è tessuto insieme): tutto è inestricabilmente collegato e quanto possiamo dire è che non riusciamo a rinvenire rapporti prevedibili tra livelli d’organizzazione più semplici e livelli più articolati. La posizione più “realistica” ed umana non può che essere un senso di meraviglia per tutto ciò che appare alla nostra coscienza di coscienza.
Mi pare davvero insostenibile credere che le nostre narrazioni possano dire una parola definitiva su come stiano le cose su un argomento a proposito di un qualcosa di cui possiamo solo dire che prima non c’era ed ora c’è.
Il senso della meraviglia ben descrive il senso di mistero di fronte ad una realtà della quale fondamentalmente possiamo solo fare ipotesi provvisorie, dal nostro punto di vista e senza poter mai  toccare il fondo ultimo.
Ma il processo grazie al quale vediamo con meraviglia il mondo fa parte della stessa misteriosa realtà.
Separare artificialmente la coscienza di coscienza dalla coscienza, mi pare un’operazione non coerente con l’assunto dell’unità del soggetto.
Sia il processo per cui appare qualcosa nella nostra “coscienza di coscienza”, sia la semplice coscienza primaria, sono ultimamente misteriosi ed emergono dal soggetto nella sua globalità.  Come si può affermare con certezza, con i presupposti epistemologico che ci guidano, che ciò che viene prima non sia con-plexus con ciò che viene dopo?
Infant Research, cognitivismo, neuro-fisiologia e parte del pensiero psicoanalitico, fondamentalmente confluiscono in una visione in cui i processi alla base della coscienza estesa e della coscienza primaria – elaborazione implicita inferita da comportamenti, attivazione del sistema neurovegetativo, pattern d’attivazione cerebrali – sono integrati ed inestricabili.
Ciò che ci appare fenomenologicamente alla coscienza estesa, è accaduto qualche istante prima e poggia su eventi cerebrali di cui siamo inconsapevoli e lo stesso si può dire della coscienza primaria; in questo senso affermo che coscienza primaria e coscienza estesa sono due funzioni emergenti dalle cui “complesse” relazioni  emerge un unico ed inscindibile soggetto umano.

Tiziano Carbone è medico chirurgo, psicoterapeuta e psicoanalista della SIPRe (Società Italiana di Psicoanalisi della Relazione) e della IFPS (International Federation of Psychoanalytic Societies), membro della IARPP (International Association of Relational Psychoanalysis and Psychotherapy), specialista in Gerontologia e Geriatria e socio della SIGG (Società Italiana di Gerontologia e Geriatria). Ha maturato la propria esperienza, oltre che nell’attività privata, nella collaborazione con due strutture di riabilitazione psichiatrica territoriale abruzzesi, occupandosi di psicoterapia psicoanalitica in pazienti giovani adulti ed anziani. Viale Regina Margherita 47, 65123 Pescara.

E-mail: tizianocarbone@icloud.com.

Bibliografia

Edelman G.M. Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana. Scienza e Idee, 2007

Edelman G. M., Tononi G. Un universo di coscienza. Biblioteca Einaudi, 2000

Minolli M. Essere e divenire. La sofferenza dell’individualismo. Franco Angeli, 2015

Von Baeyer H.C. il paradosso dei paradossi quantistici, Le Scienze, Agosto 2013

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