Presentazione

La redazione di Script è lieta di presentare ai lettori lo scambio di idee intercorso fra uno psicoanalista di orientamento relazionale – Alberto Lorenzini – e un filosofo esperto di filosofia contemporanea – Manlio Iofrida –, a proposito delle grandi questioni sottostanti, o meglio dell’Orizzonte di senso nel quale collocare il concreto e quotidiano lavoro della psicoterapia.

Com’è noto, ancora prima di Freud, la psicoterapia ebbe inizio, in epoca illuministica, con Mesmer che credeva di avere scoperto il “magnetismo animale” e invece aveva scoperto l’ipnosi. In seguito la faccenda fu meglio chiarita dai veri ipnotisti, come Braid, Puysegur e Charcot, poi fu la volta di Freud che in un primo tempo si sperimentò a sua volta come ipnotista e poi inventò il metodo della psicoanalisi. Non si possono sottovalutare i meriti dell’Illuminismo che nel nostro campo inaugurò una cura laica dell’anima, sostituendola alla pratica degli esorcismi religiosi. È evidente, però, che l’epistemologia dei secoli passati non è più adeguata ad una concezione della cura in sintonia coi tempi e, se non possiamo più concepire la psiche nei termini religiosi dell’anima e la sofferenza psichica nei termini della possessione e del peccato, non possiamo più concepirla nemmeno come un congegno organizzato sulla falsa riga della macchina a vapore. L’orizzonte deterministico e positivistico della scienza dell’Ottocento porta, oltre tutto, a un atteggiamento nichilistico, per quanto riguarda i significati dell’esistenza e della vita, che non sembra sufficientemente adeguato a sostenere l’impresa. Proprio perciò, in un primo momento il dialogo che stiamo presentando si doveva chiamare “Nichilismo e terapia”, poi il titolo è cambiato, in corso d’opera e “Orizzonte di senso” è parso più adeguato.

Lorenzini ha scelto, non a caso, di prendere le mosse da un rappresentante molto conosciuto e molto amato della psicoterapia contemporanea, Irving Yalom. Questi definisce se stesso come psicoanalista esistenziale per significare il proprio interesse per i temi fondamentali dell’esistenza e non fa mistero nemmeno riguardo al proprio interesse per la filosofia. A partire dall’accurata analisi di un importante sogno di Yalom, cioè dal tentativo di psicoanalizzare lo psicoanalista, Lorenzini individua il permanere del vecchio paradigma positivistico alla base delle angosce dello stesso Yalom e indirizza all’amico filosofo una richiesta d’aiuto per vagliare quali nuove possibilità ci offra il pensiero filosofico attuale per collocare su uno sfondo più appropriato le nostre angosce e le nostre speranze, tanto di pazienti, quanto di terapeuti.

Iofrida indirizza il dialogo verso la messa in discussione della scissione cartesiana che separa il corpo dalla mente e procede verso la valorizzazione dei nuovi paradigmi ecologici e relazionali della mente. Nel suo percorso egli mette in luce il connubio creatosi fra filosofia ed economia, motivo per cui alla teoria cartesiana della coscienza incorporea si è aggiunto, verso la fine del Settecento, lo spirito della nascente società industriale, impostato alla produzione seriale, e da questo connubio è nato quello che Iofrida chiama l’atteggiamento prometeico della coscienza occidentale. Iofrida ci incoraggia, tuttavia, a cogliere proprio nello sviluppo del pensiero occidentale quelle spinte in controtendenza che hanno (o avranno) il compito di correggere questa pericolosa inclinazione nichilistica e disumanizzante insita negli ultimi secoli della nostra cultura e tuttora dominante. In particolare individua nella fenomenologia di Husserl un punto di svolta decisivo, di segno decisamente antichilistico, e nella filosofia di Merleau-Ponty il pieno superamento del cartesianesimo e la complessa articolazione di un pensiero che non ha più bisogno di negare la centralità del soggetto, restituendo ad esso la sua piena corporeità. Di qui la strada è aperta verso lo sviluppo di una concezione ecologica e relazionale della vita e della mente.

Da sottolineare, in ultimo, l’excursus dei due dialoganti in terra straniera, cioè in Oriente, dove si scopre un’altra linea di pensiero, quella tipica del buddhismo, che da sempre ha perseguito un approccio non dualistico alla realtà e ai grandi temi dell’esistenza umana.

Manlio Iofrida [1] e Alberto Lorenzini

Un orizzonte di senso per la terapia

Carissimo Manlio,
ho recentemente pubblicato proprio qui, su Script online, una presentazione di Yalom e del suo libro dedicato agli psicoterapeuti, Il dono della terapia. Come si capisce dal complesso delle mie argomentazioni, mi riconosco tantissimo nel modo di lavorare di Yalom e riconosco in lui, in un certo senso, il modello di ciò che io intendo come “psicoanalisi relazionale”, mentre lui preferisce definire se stesso come “psicoanalista esistenziale”. Detto ciò, espresse in questi termini tutta la mia stima e la mia ammirazione per questo anziano collega, per il suo modo di lavorare e la sua generosità nell’esporsi, vorrei approfittare di un altro dei suoi scritti, il primo della raccolta intitolata Il senso della vita, per abbozzare una critica che si spinge piuttosto al di là della sua persona. In questo scritto che riguarda un suo sogno particolarmente impressionante e chiama in causa il rapporto con la madre, Yalom si trova ad affermare candidamente quanto segue: “Siamo creature in cerca di significati, che devono venire a patti con il fatto di essere scagliate in un universo che, intrinsecamente, è privo di significato”. Dopo questa smagliante dichiarazione di nichilismo, di estraneità ontologica della coscienza al mondo, che sembra presa alla lettera dal Caso e la necessità di Jacques Monod, sorprendentemente Yalom aggiunge che, per evitare il nichilismo, dobbiamo farci carico di un compito duplice: “In primo luogo dobbiamo inventarci un progetto che dia significato alla vita per sostenere la vita stessa. In seguito fare in modo di dimenticare questo atto d’invenzione e convincerci che non abbiamo inventato, bensì scoperto il progetto che dà significato alla vita, ovvero che esso ha un’esistenza indipendente, là fuori”.

Non ti pare che un’affermazione di questo genere, compiuta da una persona che ha dedicato la vita a misurarsi con le dolorose contraddizioni dell’animo umano, riveli un implicito significativo e pericoloso, quasi una premessa di assoluta disperazione, una pietra traballante posta alle fondamenta, che rischia di mantenere per sempre instabile tutta la sua opera, a prescindere dall’indiscutibile onestà intellettuale e prodigalità relazionale? E non si tratta, inoltre, di una prova piuttosto impressionante di quanto sia difficile mettere in discussione alcuni assunti di base, che, attraverso i secoli, continuano a informare, malgrado noi, il nostro modo di essere e di pensare? E di quanto siano capaci d’infiltrarsi e di farsi veicolare come un implicito credo perfino da coloro che riconosciamo tra i nostri simili come i liberatori, quelli cui siamo disposti ad affidare le nostre angosce e le impasse della nostra vita?

Ti rivolgo questi interrogativi, perché vorrei sfruttare la tua competenza relativa al panorama filosofico attuale, convinto come sono che la terapia abbia bisogno di un orizzonte di senso che non può essere quello della medicina scientista e nemmeno quello nichilista dell’esistenzialismo, secondo cui ci inventiamo i nostri significati a partire dal nulla, e in particolare vorrei indagare insieme a te le possibilità che offre a questo riguardo l’approccio filosofico orientato in senso ecologico nel quale ti stai cimentando.

Per ora mi fermo qui e ti saluto con affetto,
Alberto

 

Caro Alberto,
i passaggi di Yalom su cui richiami l’attenzione sono effettivamente piuttosto sorprendenti, in una figura che dimostra per altri versi una sensibilità così spiccata verso la ricchezza e varietà del mondo della vita, come emerge dalle storie di tanti suoi pazienti. Certo, molto meno sorprendente sarebbe trovare quei passaggi in un filosofo moderno; in proposito, tu richiami giustamente “il nichilismo esistenzialista”: stai pensando, evidentemente, a L’essere e il nulla di Sartre, in cui un soggetto come coscienza che è un nulla si contrappone al mondo, inteso come un insieme compatto di cose del tutto prive di senso. Quest’ultimo, il senso, deriva tutto dal soggetto, che lo impone con un atto veramente prometeico – la natura, in questa visione, non ha nessuna autonomia, nessuno spessore veramente vitale. E infatti, Sartre ripete a tre secoli di distanza, arricchendolo di altri significati, il  gesto con cui Cartesio distrusse con un colpo solo il mondo medioevale e quello rinascimentale, allorché privò il mondo di ogni “entelechia”, di ogni qualità fenomenica, e lo ridusse a semplice materia. Con Cartesio inizia la grande avventura del razionalismo occidentale, che sul dualismo fra mente e natura ha celebrato il suo trionfo e che si compendia in quella concezione meccanicistica con cui ci troviamo a colluttare ancora ai nostri giorni: perché il meccanicismo, l’idea che si possa risolvere tutto intervenendo sulle cose dall’esterno e oggettivamente, il mito secondo cui il tutto è uguale alla semplice somma delle parti è veramente al cuore dello scientismo che negli ultimi venti-trent’anni è tornato così in auge nella nostra cultura. In questo modello, che è profondamente antiecologico, perché la natura è ridotta a semplice strumento del soggetto umano, a “risorsa” per i suoi scopi produttivi, la vita è così umiliata che, come sai, quegli esseri meravigliosi che sono gli animali – dico questo perché non cesso di meravigliarmi del modo in cui approccia il mondo un animale, e specialmente un animale superiore – sono ridotti a macchine: Cartesio e, dopo di lui, ancora più ferocemente, Malebranche pensavano che i comportamenti di un animale come la scimmia potessero essere spiegati con gli stessi principi con cui si spiega il movimento di un orologio!

Dicevo che questa visione meccanicistica, così efficacemente iniziata da Cartesio, è quella più tipica dell’Occidente; e magari potremo poi parlare della strada così diversa che, molti secoli prima, avevano preso le più importanti culture orientali – quella indiana, quella cinese, quella giapponese; ma, per rispondere intanto alla tua domanda su quale sia un modello alternativo, più propriamente ecologico, vorrei innanzitutto dire che nella stessa cultura occidentale, e in particolare nella filosofia occidentale, si trovano molte risorse per costruire tale approccio. Questo è un primo punto su cui penso che si dovrebbe riflettere, per evitare di cadere in posizioni troppo schematiche (tipo contrapporre un Oriente tutto buono a un Occidente tutto cattivo). Tanto per cominciare c’è un dato di fatto che non cessa di meravigliarmi quando rifletto su queste questioni: ho parlato prima di Cartesio; ma non c’è dubbio che il dualismo, il meccanicismo, il prometeismo conoscano una enorme accelerazione nel momento in cui ha luogo la rivoluzione industriale, cioè a partire, approssimativamente, dagli anni ottanta del Settecento. Ebbene, proprio negli stessi anni, alcuni grandi esponenti della letteratura e cultura europea reagiscono a questo evento manifestando tutto il loro disagio ed elaborando un’altra visione della natura e del rapporto che l’uomo deve istituire con essa. Il maggiore di questi personaggi è Goethe, i cui scritti e lavori di filosofia naturale sono infatti da considerarsi come il fondamento della moderna ecologia. Nella sua autobiografia, che si intitola Poesia e verità, egli torna ai suoi anni giovanili, in cui, studente a Strasburgo assisteva e partecipava alla diffusione della cultura illuministica francese e, in particolare, della grande Enciclopedia di Diderot e D’Alembert: in essa, come sappiamo, grande parte aveva la diffusione del sapere tecnico – era una specie di manuale per diffondere le capacità tecnologiche nella società. Ebbene, di fronte a questa (peraltro meravigliosa) espressione del sapere tecnico qual è l’atteggiamento di Goethe? Ecco il passo che volevo richiamare:
«Udendo parlare degli Enciclopedisti o consultando un volume della loro opera sterminata, ci sentivamo come quando si cammina in una grande fabbrica tessile fra gli innumerevoli telai e le spolette in movimento, e, per tutto quel frastuono e quello stridere, per quei meccanismi che confondono l’occhio e i sensi, per l’impossibilità di capire quell’opificio di svariatissimi ingranaggi, considerando tutto quel che è necessario per fabbricare un pezzo di stoffa, si è disgustati anche della giacca che si porta addosso.»

Non è straordinario che, proprio nel momento in cui l’uomo stava per compiere il passo decisivo verso il dominio della natura, il fondatore della “letteratura mondiale” – un altro fatto squisitamente occidentale – esprimesse tutta la sua inquietudine? E delineasse anche nei suoi scritti di filosofia naturale, una visione opposta a quella, tipicamente anglosassone, ma infine anche francese, della natura come serbatoio di cose utili all’uomo?

Su questa strada il mondo tedesco ha, dopo Goethe, indicato una via occidentale assai diversa da quella dominante: si dovrebbe parlare dei romantici, di un filosofo del romanticismo come Schelling; e poi di Schopenhauer – che amava il suo cane più di tutta l’umanità! – e, naturalmente, di Nietzsche; ma, rispetto a queste concezioni, quella che più ha ripreso e approfondito la linea di Goethe, elevandola al rango di una vera e propria visione alternativa a quella nichilistica di Cartesio e di Sartre, è certamente la fenomenologia: innanzitutto – e così siamo subito nel Novecento – con il suo fondatore, Edmund Husserl. In lui, certo, troviamo una quantità di teorizzazioni astruse, momenti di continuità con Cartesio, ecc.: ma secondo me è da lui che dobbiamo partire, anche perché tu hai giustamente appuntato il dito contro il malanno nichilistico che caratterizza le concezioni e l’atteggiamento nichilistico dell’Occidente; ora, l’atto inaugurale della fenomenologia, come Husserl l’ha costruita, è invece una rivendicazione di un atteggiamento verso il mondo che è profondamente antinichilistico. Questo atto inaugurale Husserl l’ha definito una vera e propria conversione: egli ha detto che la fenomenologia si basa, per la precisione, su una conversione dello sguardo. In cosa consiste questo gesto, che implica il richiamo a una trasformazione del soggetto come base per accedere alla realtà più profonda delle cose? Consiste nella rinuncia a tutte le concrezioni intellettualistiche che ricoprono e oscurano l’accesso più profondo al mondo, che ci impediscono di andare alle cose stesse: è necessario rimuovere tutto l’ammasso di pre-giudizi, di giudizi già fatti, tutta la vera e propria corazza protettiva con cui ci difendiamo, per paura, da un contatto più genuino e immediato con il mondo. Per fare veramente esperienza, dobbiamo in altri termini sospendere il pensiero, la coscienza secondaria, per ridar spazio a quella fonte di relazione con le cose che è la nostra coscienza primaria, prelogica, addirittura prelinguistica. Ma operare questa conversione, sospendere tutti i nostri giudizi, fare, per usare un celebre termine husserliano, una epoché, significa ricollocarci in quell’atteggiamento originario in cui non siamo esterni, separati, contrapposti al mondo; la coscienza logica, il pensiero, l’agire trasparente e intenzionale ci collocano naturalmente in una posizione esterna al mondo, ci spingono al dualismo, ci fanno credere che le cose siano nulla e che non si tratti che di ridurle alle nostre intenzioni soggettive; l’atto di sospensione di tali momenti costituisce invece una sorta di atto di ri-apertura originaria al mondo, una disponibilità e un atto di fede spontaneo a favore dell’essere – noi ci apriamo, confidiamo nel fatto che esiste un mondo altro da noi, indipendente da noi, in cui noi rientriamo come una sua parte. Insomma, sto cercando di spiegare come in questa fondazione della fenomenologia ci sia già tutta quella visione non dualistica della nostra inerenza al mondo che si oppone diametralmente al dualismo e nichilismo della linea occidentale dominante. E dunque, la fenomenologia è, nella sua ispirazione fondamentale, profondamente ecologica – ispira un atteggiamento di partecipazione all’essere e al mondo, rimanda a una certezza fondamentale di esserci che è anteriore a qualunque dubbio amletico sull’essere e il non essere.

Ma certo – e qui arriviamo quasi ai nostri giorni – sulla linea di Husserl è andato molto più avanti Merleau-Ponty, soprattutto per la sua tematica del corpo…

Tuo Manlio

 

Caro Manlio,
ti ringrazio molto per questo excursus davvero illuminante, che ci consente di collocare le nostre preoccupazioni in un contesto di ricerca tutt’altro che isolata e che ci fa sentire che possiamo ricevere linfa vitale da radici già ben piantate nel terreno che abbiamo sotto i piedi.

Sono totalmente d’accordo con la tua critica alla dissociazione anima-corpo e con il tuo individuare nel nostro atteggiamento prometeico un folle tentativo di dominare la natura, collocandoci in un luogo astratto, al di fuori della natura stessa. Quello che m’interessa sottolineare, a riguardo, è il fatto che l’uomo contemporaneo, liberatosi dalla schiavitù della religione, non si contenti di dominare il mondo, ma rivolga questo stesso tentativo di dominio anche verso la propria intima natura. Mi viene in mente l’affermazione lapidaria di Karen Horney, proprio all’inizio del suo libro capolavoro Nevrosi e sviluppo della personalità: “Il nevrotico è il pigmalione di se stesso!”. Con questo intendeva dire che alla base di ogni nevrosi c’è la costruzione di un falso Sé, il tentativo di correggere se stessi in maniera auto-manipolatoria, per assumere un aspetto il più possibile somigliante all’ideale di noi stessi, in modo da ottenere il successo negli scambi con gli altri. Nel perseguire questo obiettivo l’essere umano perde il contatto con il proprio mondo interiore, la sua spontaneità e la sua autentica ricchezza, motivo per cui dipende sempre più dal mostro che ha creato per attingere quel surrogato di autostima che gli consenta di vivere, instaurando inevitabilmente un circolo vizioso infernale.

Tornando a Yalom, l’impressione che si ha nel leggere i suoi resoconti clinici è invece quella di una grande capacità di attingere al suo mondo interiore e, contemporaneamente, di  modulare, scegliere e utilizzare creativamente la materia prima della sua partecipazione emotiva allo scopo di costruire le risposte terapeutiche più utili per i suoi pazienti. Il fatto di prendere lui come oggetto delle mie riflessioni, lo ripeto, non ha lo scopo di trovare difetti nel suo lavoro di terapeuta. Al contrario, penso a lui con empatia, sicuramente identificandomi in buona parte in lui, e provo un moto di ribellione, come di fronte a una grave ingiustizia, al pensiero che questa persona che ha dato così tanto agli altri, continui a sentire incombere la morte come un nulla dove tutto ciò che ha fatto e amato è destinato a precipitare, come in un inabbordabile abisso d’insensatezza. Basti aggiungere che Yalom ha pubblicato nel 2008 un libro dedicato all’angoscia della morte, Staring at the Sun, dove, come punto di partenza per le sue considerazioni, ha posto il pensiero di Epicuro, elencando le tre fondamentali strategie di pensiero da questi adottate per meglio fronteggiarla. La prima nasce dalla convinzione di Epicuro che l’anima muore con il corpo: già questo dovrebbe togliere parecchia ansia, perché ciò comporta che non ci saranno punizioni nell’al di là e via dicendo. La seconda è quella più nota, e si tratta dell’argomento per cui, essendo l’anima mortale, “quando c’è l’anima non c’è la morte, quando c’è la morte non c’è l’anima”, per cui queste due istanze non s’incontrano mai. La terza, quella che Yalom riconosce come la più convincente, anche se meno nota, consiste nell’equiparazione del nulla precedente alla nostra nascita con il nulla che ci sarà dopo la nostra morte. Perché mai, si chiede Epicuro, abbiamo tanta paura del secondo nulla, se non abbiamo nessuna paura del primo? Il nulla è uguale al nulla e possiamo guardare al secondo nulla con la stessa tranquillità e fiducia con le quali guardiamo al primo. Sinceramente io non riesco a consolarmi con questi trucchi della ragione; al contrario, proprio questi tentativi mi ripropongono con urgenza la necessità di riscattarci da un formidabile condizionamento culturale che sopravvive anche dove, forse, non avrebbe più ragione di esistere. Mi sembra, in definitiva, che in Yalom coesista una prassi di coscienza incarnata con un modo di pensarsi che continua, nonostante tutto, ad essere prometeico e nichilista. Ma è giunto il momento di tornare al suo sogno.

Crepuscolo. Forse sto morendo. Ombre sinistre circondano il mio letto; monitor cardiaci, bombole d’ossigeno, bottiglie gocciolanti per le flebo, spirali di tubi di plastica: le viscere della morte. Mentre chiudo le palpebre, scivolo nell’oscurità. Ma poi, balzando fuori dal letto, esco rapido come una freccia dalla stanza dell’ospedale e mi precipito a Glen Echo, il parco dei divertimenti pieno di luce e di sole dove, decenni fa, trascorsi tante domeniche estive. Sento la musica delle giostre. Inalo la fragranza umida, caramellata, dei popcorn e delle mele appiccicose. E proseguo dritto, senza esitare davanti alla bancarella del Polar Bear con i suoi coni gelati, o delle montagne russe con i loro tuffi nel vuoto, o della ruota panoramica, per prendere posto nella fila per i biglietti della Casa degli Orrori. Una volta pagato il biglietto, aspetto che il vagoncino successivo giri l’angolo e venga a fermarsi sferragliando davanti a me. Ci salgo, abbasso la sbarra di sicurezza e m’incateno saldamente lì dentro, do un’ultima occhiata intorno e là, nel bel mezzo di un piccolo gruppo di spettatori, la vedo. Mi metto ad agitare tutte e due le braccia, e la chiamo a voce abbastanza alta da poter essere udita da tutti: “Mamma, mamma!”. Proprio in quel momento il vagoncino si muove sbandando in avanti e colpisce la porta a due ante che si spalanca per rivelare le sue nere fauci. Mi appoggio all’indietro il più possibile e, prima di essere inghiottito dalle tenebre, grido di nuovo: “Mamma! Come me la sono cavata, mamma? Come me la sono cavata?”.

C’è qualcosa di speciale in questo sogno, a mio modo di vedere: è un grande sogno che può valere per tutti noi. La scena della morte che sta per sopraggiungere è rappresentata in stile iper-realistico, attraverso la descrizione particolareggiata e minuziosa dell’armamentario medico che accompagna l’evento, e l’atmosfera ovattata fa l’impressione di entrare in punta di piedi nella stanza del morituro, dove, questo è il punto, siamo chiamati a sperimentare tutto da fuori, come se si trattasse della morte di qualcun altro. Yalom, che ha descritto questo sogno vent’anni fa e gode tutt’oggi di buona salute, prende il sogno alla lettera e non gli passa per la mente che questa morte possa avere un significato simbolico, e che il suo sogno possa parlare come tutti i sogni per metafore, per cui la morte sarebbe qualcosa che somiglia alla morte, ma non necessariamente la morte stessa. Eppure la seconda parte del sogno è piuttosto istruttiva e c’illumina in proposito. Nel ribadire il discorso in modo decisamente ironico, come fanno la maggior parte dei sogni, ci svergogna e ci sbatte in faccia un’altra verità: non c’è nessuna vera morte in corso e ciò con cui abbiamo a che fare è l’impedimento nell’attraversare una soglia che fa paura, ma produce anche grande curiosità ed eccitazione. L’impedimento è rappresentato, a quanto pare, dal bisogno di sentirsi dire bravo dalla mamma, cosa che blocca e sciupa il gioco. Di nuovo Yalom interpreta alla lettera, rimane sconcertato e si chiede con sgomento se davvero egli abbia passato la vita affaticandosi così tanto per curare la gente e scrivere libri, soltanto allo scopo di fare contenta la mamma nella sua immaginazione inconscia. Ed è qui che mi si inasprisce quel senso di compassione e di rabbia come di fronte a una sofferenza ingiusta, patita da Yalom e da tutti noi, che, non a caso, c’identifichiamo con lui. In questa sua lettura del sogno, egli riporta continuamente il metaforico al concreto e in questo modo compie uno sbaglio che, secondo me, ha proprio a che fare con un mancato attraversamento di soglia, e, in questo senso, egli si comporta davvero come un bambino che voglia fare contenta la mamma! Proviamo a compiere il percorso opposto e a decodificare l’ingiuriosa metafora. Il bambino che si specchia negli occhi della mamma non ha ancora ritirato da lei quella delega per cui a lei consegna la responsabilità di distinguere il bene dal male, in altri termini non ha ancora attraversato quella soglia dell’autogoverno che, per convenzione, dovrebbe attenderlo con la maggiore età. Ma qual è la soglia, simile alla morte, che Yalom sessantenne non riesce ad attraversare, a causa del suo guardare le cose dal di fuori, come se ancora delegasse a qualcuno di esterno a sé il giudizio e le scelte che danno un senso alla vita? Sono nel giusto a pensare che la soglia di cui stiamo parlando è tale per cui al di qua di essa tutte le realtà della vita rischiano di apparirci concrete piuttosto che metaforiche, come se il modo di afferrarle, simile alle tenaglie e a tutti gli strumenti, chirurgici o meno, attraverso i quali realizziamo la nostra presa sul mondo, non lasciasse scampo alle cose di apparirci in altro modo, compresi noi stessi e la nostra immagine allo specchio?

 

Caro Alberto,
effettivamente il sogno di Yalom è impressionante, tanto quanto il modo poco convincente in cui lo interpreta. Ma, prima di entrare nel dettaglio di questo, vorrei dirti che mi ha molto colpito il tuo richiamo alla dottrina di Epicuro sulla morte; devo dire che, forse sotto l’influenza del suo discepolo Lucrezio, mi è sempre sembrato che tale dottrina fosse molto tragica e avesse molto più di una sfumatura di nichilismo. Non entro in questioni storico-filologiche, sto a quello che riferisci tu in proposito, che è comunque l’interpretazione più corrente di tali tesi: ebbene, tutte e tre le tesi mi sembrano, da un punto di vista metodologico, molto cartesiane: nel senso che si pongono (come è il caso del famoso Cogito cartesiano) come dimostrazioni, deduzioni che dovrebbero convincerci a non aver paura della morte: ma, se ci si pone sul piano del logos dimostrativo, secondo me arriviamo solo a trasformare la nostra paura della morte in un vero e proprio terrore! Solo un argomentare, che poi un argomentare non è, che scenda nel livello che precede la coscienza può darci la serenità su un problema così decisivo per la nostra esistenza: solo se rinunciamo a pensare e ci abbandoniamo a una dimensione del conessere – se ci apriamo alla consapevolezza che siamo parti del grande tutto – arriviamo a comprendere che l’unica risposta alla paura della morte è accettare la vita senza riserve. E qui mi viene  da tornare al sogno: come tu osservi giustamente, esso non parla (solo) della morte in senso letterale, ma, piuttosto, della morte simbolica a cui ci consegniamo quando, così spesso, non riusciamo a avere il coraggio di essere noi stessi: l’adeguarci agli altri, il diventare, come diceva Kant, parti di un grande meccanismo per l’incapacità di comportarci da maggiorenni, fa sì che recidiamo le radici più profonde che ci collegano alla vita, alla creatività – la vita è certo autoconservazione, ma la sua meraviglia è il fatto che questa autoconservazione non si possa attuare senza aprirsi continuamente al nuovo. Qui, uscendo un po’ dall’argomentazione puramente logica, devo dire che, dopo un po’ che avevo letto il sogno, mi è affiorata questa espressione: “sepolcri imbiancati”. È una frase di Cristo, come è noto; per la precisione, egli disse:

«Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume (Matteo, 23)».

Non ritrae molto bene quello in cui ci trasformiamo quando non abbiamo il coraggio di essere noi stessi? Il sepolcro imbiancato è qualcuno che, farisaicamente, vuol mostrarsi sempre perfetto, mentre dentro alberga la morte. Eppure, così frequentemente ci trasformiamo proprio in questi sepolcri imbiancati, perché non abbiamo il coraggio di attraversare la soglia dell’autogoverno. Qui mi vengono da dire due cose, che penso siano fra loro strettamente legate: la prima è che ciò che ci spaventa è il senso di vuoto, di assenza che ogni assunzione della libertà e della responsabilità comporta. A differenza di quello che pensava Kant, la maggiore età non significa che accediamo a un livello in cui una legge universale, un principio assoluto ci può guidare senza esitazioni. Kant credeva a un soggetto assoluto: noi, in base alla visione ecologica di cui parlavamo prima, sappiamo invece che siamo soggetti perché siamo parti di qualcosa che ci eccede: la nostra libertà non è quella di un essere pieno, ma quella di un essere che ha dei limiti – dei vuoti che non sono negativi, non sono nulla: sono anzi così positivi da costituire gli spiragli, le fessure  che ci aprono agli altri e al mondo. Il soggetto che varca la soglia è colui che sa abitare e contenere, che sa rispettare questi vuoti: che sono il luogo in cui il suo essere si apre all’altro, e dunque, alla sua morte; la dimensione della responsabilità ecologicamente intesa non è quella della decisione ferma e sicura, ma quella in cui ci avventuriamo esitanti nel rischio dell’esistenza, attratti dal desiderio di scoprire nuove dimensioni dell’essere nostro e altrui. C’è la paura di morire, non nel senso letterale, ma in quello simbolico di abbandonare un’identità sicura e certa per aprirci all’ignoto. La seconda considerazione si riallaccia immediatamente a questa: mi pare evidente che c’è un senso nichilistico della morte, che la vede come nulla, come distruzione e annientamento – ed è quello occidentale a cui ha dato voce in modo supremo e conclusivo Sartre – e un senso positivo di essa, assolutamente anti-nichilistico, per cui essa è appunto quel vuoto, che non è un non essere, che ci permette di vivere una vita piena (è un paradosso, questo del vuoto-pieno, che credo vada assunto in tutto il suo significato); questa seconda accezione della morte, che mi pare che gli orientali abbiano saputo indagare assai meglio e prima di noi, è quella per cui essa non è fuori della vita, ma una sua parte costitutiva.

 

Caro Manlio,
ti ringrazio molto per le tue riflessioni. Il punto che mi ha colpito di più è quando dici che la vita si conserva solo attraverso la continua perdita del proprio status quo, quella perdita che è necessario patire per fare posto al nuovo. Penso che ciò potrebbe corrispondere al significato di una morte simbolica che Yalom istintivamente conosceva da bambino ma non riconosce più da vecchio.

Questa coincidenza dei contrari è davvero al cuore del pensiero non cartesiano, nella sua versione orientale. Il maestro zen dice che il fuoco è fuoco perché non è fuoco. Nishitani, un autorevole rappresentante della Scuola di Kyoto, che ha studiato in Occidente (si è laureato in Germania) e contemporaneamente è stato un iniziato zen, critica con molto acume la prospettiva cartesiana e spiega che l’apparente paradosso dello zen va inteso così: il fuoco, nel suo essere “inoggettivo”, cioè nel suo essere ciò che veramente è e non l’oggetto o la rappresentazione di un soggetto disincarnato, è fuoco soprattutto per il fatto che non brucia il fuoco. In questo senso va intesa la metafora del maestro zen. Lo stesso si può dire per l’acqua che è acqua perché non lava l’acqua, ecc., e lo stesso per ogni cosa. Se il fuoco fosse capace di bruciare il fuoco e non avesse bisogno del legno, allora sarebbe parte di una collezione universale di enti che sussistono autonomamente, uno accanto all’altro, e intrattengono l’uno con l’altro dei rapporti totalmente inessenziali per quanto riguarda la loro vera natura e l’insieme sarebbe uguale alla somma delle parti, come le parti di una macchina. Così, in effetti, appaiono le cose viste da una prospettiva estranea, di non appartenenza al mondo. Comprendere che l’universo non è fatto così, anche se in certi ambiti ristretti può funzionare così, e che ogni ente ha la sua vera natura in un passaggio trasformativo che lo trascende e proprio nel trascenderlo lo rende pienamente se stesso, corrisponde, nelle parole di Alan Watts, alla logica “compenetrativa” – o “interpenetrativa” – che lega intimamente tutte le cose fra loro e le rende parte di un unicum.

Come il fuoco e come l’acqua, anche noi possiamo essere pienamente noi stessi solo nel non essere noi stessi, o meglio consumando in continuazione i nostri assoluti e le nostre certezze. Questo significa attraversare un processo di sviluppo che coinvolge l’ambiente intersoggettivo nel quale siamo inseriti attraverso scambi e relazioni; un processo che ha molto più a che fare con quella logica interpenetrativa di cui s’è detto, piuttosto che con il nostro tentativo di manipolare noi stessi secondo un’idea preconcetta di come dovremmo diventare. Questa forma di allenamento alla vita ci conduce attraverso una ripetuta morte che non è mai uno scomparire nel nulla, ma un avventuroso ritrovare e imparare a conoscere sempre più profondamente ciò che chiamiamo la vita vissuta. In altri termini, penso che una vita piena non sia una vita piena di raggiungimenti precostituiti, ma di esperienze profondamente vissute e credo che le esperienze siano profondamente vissute solo quando sono parte di un processo evolutivo che siamo chiamati – per quanto non obbligati – a vivere e il cui significato scopriamo sempre e soltanto a posteriori.

Tutto questo suona molto diverso rispetto alla tesi enunciata da Yalom, per cui, per dare un senso alla vita, dovremmo “inventarci un progetto che dia significato alla vita e, in seguito, fare in modo di dimenticare questo atto d’invenzione e convincerci che non abbiamo inventato, bensì scoperto il progetto che dà significato alla vita, ovvero che esso ha un’esistenza indipendente, là fuori”. C’è qualcosa di assolutamente eroico nel sostenere una prospettiva nichilistica di questo genere e fare comunque del proprio meglio per stare vicino alle persone e aiutarle a liberarsi di tante paure che le bloccano e impediscono loro… d’inventarsi un qualcosa che dia senso alla propria vita, anche se, sotto sotto, non c’è nessun senso ed è tutta un’illusione! Se vogliamo, questa prospettiva non è soltanto nichilistica, ma anche donchisciottesca e romantica e presenta un innegabile suo fascino, ma io credo le cose non stiano così. Credo che le cose siano molto più complesse di così e ho l’impressione che lo zen abbia colto questa complessità, per lo meno nell’interpretazione moderna e filosoficamente aggiornata che ne dà Nishitani. Certo che a noi appare strana e decisamente inconsueta questa logica, fatta di coincidenza, piuttosto che di contraddizione degli opposti. Nello zen, com’è noto, si tratta di una visione complessiva dell’essere che ha il carattere di un’illuminazione e non di un ragionamento filosofico e pare che abbia un effetto molto rasserenante per chi vi accede. Nishitani, che è contemporaneamente filosofo e maestro zen, parla del nichilismo come di un errore di fronte al tragico della vita, cioè di fronte alla consapevolezza della morte e dell’annientamento cui siamo destinati (il “nihilum”). Nel nichilismo, egli sostiene, concretizziamo il nihilum e viviamo nell’illusione che, dopotutto, questo possa costituire una sorta di terreno sul quale ancora orgogliosamente ergerci, creando coscienza dal nulla. Nello zen quest’illusione viene meno e il nihilum si trasforma nella “vacuità” dove ogni cosa si colloca per ciò che davvero è … ed è lì che il fuoco non è il fuoco e per questo è il fuoco e il sé non è il sé, ma è case, spiagge, foreste, orologi, ecc., come press’a poco ebbe a dire uno dei maestri dai lui citati.

Trovo affascinante scoprire che qualcuno, o meglio l’altra metà del mondo, l’Oriente, abbia trovato un modo per guarire dalla dissociazione corpo-mente che noi abbiamo perseguito metodicamente e ontologizzato come “natura umana”. Credo che sia nostro compito, dopo avere occidentalizzato tutto il mondo, non tanto convertirci in massa allo zen, quanto trovare anche noi una strada, forse più adatta alle nostre tradizioni, per guarire da una malattia generalizzata, un pericolo che, ormai lo sappiamo, mette a rischio non solo la nostra salute mentale, ma addirittura la vita sul pianeta.

 

Caro Alberto,
le cose che dici riguardo a Nishitani e ad alcuni principi dello zen mi colpiscono molto, per la loro verità intrinseca, ma anche per il fatto – a cui, naturalmente, sono particolarmente sensibile – che in esse si toccano dei grandi temi che sono comuni alla filosofia e alla religione. Il primo è la questione dell’Occidente: Max Weber, che ne è stato uno dei grandi apologeti (il “Marx della borghesia”, come si usa dire), ma anche uno dei massimi esponenti – è difficile aggirare le sue riflessioni in tutti i campi in cui le ha esercitate, anche quando non si è d’accordo con lui – ha dedicato praticamente tutta la sua vita di studioso a capire come sono emersi insieme – in fondo, per lui, sono un fatto solo – il capitalismo e la ragione occidentale. In questa elaborazione, egli ha messo a fuoco il concetto di “ragione strumentale”: una ragione che separa i mezzi dai fini e che, rinunciando a occuparsi di questi ultimi, si sviluppa come mero calcolo dei mezzi per raggiungere un fine x. Questa ragione è intrinsecamente nichilistica ed essenzialmente legata alla separazione del soggetto dall’oggetto: essa toglie al mondo ogni incanto e ogni magia e lo riduce a una materia bruta, atta solo a ricevere l’impronta del soggetto che su di essa esercita un dominio. Ebbene, questa ragione così distruttiva, se ci mettiamo da un punto di vista ecologico, che, per riprendere quello che dicevi tu appena adesso, è in un certo senso il grado massimo della non appartenenza al mondo, vede ogni cosa come esterna e tendenziale nemica (la natura deve essere dominata, neutralizzata, annullata, poiché è nemica dell’uomo), è però anche quella che ha prodotto il grande successo dell’Occidente: in fondo, sembra che sia riuscita a imporsi ovunque, anche se sul carattere assoluto e totale di questo dominio non bisogna esagerare. Ma quel che più conta è che questa ragione ha prodotto la tecnica, la medicina moderna, la democrazia, l’idea di uguaglianza e tolleranza… Le culture preoccidentali, quelle primitive e quella orientale sono certo in grado di arricchire e correggere le unilateralità della ragione occidentale, ma potrebbero sostituirla in toto? Potrebbero aspirare a distruggerla? Oltre che impossibile, questa sarebbe una regressione: ecco che il compito di chi, come noi, aspira a una visione ecologica e partecipativa è veramente molto complesso: deve avere un atteggiamento molto critico verso l’Occidente (che ha prodotto colonialismo, olocausti, violenze senza fine), ma, nello stesso tempo, non può pensare di saltar fuori da certi valori occidentali come se fosse una cosa ovvia. Mi chiedo allora se, accanto alla valorizzazione dell’Oriente, non sarebbe necessario domandarsi: ma che cosa è veramente l’Occidente? In tutto questo negativo dove è il positivo? Come trasformarlo dall’interno in positivo? Così facendo, non sono tornato allo zen di cui parli tu? Il maestro zen, di fronte a questo problema, non tirerebbe fuori una delle sue geniali e silenziose risposte, che comunque implicherebbero che non si tratta di dire di no in assoluto a nulla – che, di fronte a questo supposto “male assoluto” che è l’Occidente, si tratterebbe innanzitutto di dire un sì, un sì paziente e riflessivo, che possa far sgorgare da questo “male” il positivo che racchiude? E ancora su questa linea: mi sembra di avvertire che, proprio dal punto di vista dell’analisi, che ha a che fare così spesso con l’incarognirsi della ragione strumentale, con le ossessioni che essa produce, questi ragionamenti sarebbero da trasportare anche sul suo terreno, soprattutto su quello della sua pratica.

L’altra questione, a questa connessa, che vedo emergere dalle tue considerazioni è quella del soggetto. In fondo, siamo partiti dal problema di un soggetto che ha paura di uscire dal cerchio delle sue certezze, perdendosi in ciò che è non-io: dobbiamo dunque rinunciare alla soggettività, così come dovremmo rinunciare ai tesori della ragione logica, scientifica, strumentale? Ci dovremmo disindividualizzare? Come sai, è questa una tentazione che è tutt’altro che riservata agli Orientali: anzi, nel XIX secolo, il fascismo, il nazismo, in sostanza e fondamentalmente anche il comunismo, sono stati dei catastrofici tentativi, molto occidentali, di sostituire un soggetto collettivo alla responsabilità individuale, alla necessità per il singolo di affrontare i problemi dell’esistenza. In filosofia, Schopenhauer aveva già spacciato la filosofia orientale per una cosciente rinuncia alla volontà, proprio in vista di abolire un’individuazione che egli vedeva come la fonte di tutti i nostri mali. Poi, lasciando stare Nietzsche, che, come sempre, è troppo fine, complesso e pieno di sfumature per poterne parlare sinteticamente, più vicino a noi diversi filosofi francesi – Foucault, Derrida, Deleuze, Althusser – hanno decretato la fine del soggetto (“morte dell’uomo” la chiamò Foucault in un suo famoso capolavoro degli anni Sessanta). Per parte sua, Merleau-Ponty aveva una posizione differente: era ben consapevole che, allorché i Greci, all’alba della loro grande avventura filosofica, così cruciale per il pensiero occidentale, recisero i legami col mito, qualcosa, che l’Oriente ha saputo conservare (un atteggiamento di maggior ascolto dell’Essere, del mondo) andò perso. Eppure, quando si rivolgeva al momento occidentale propriamente moderno, quello tardo-rinascimentale e seicentesco, quando riprendeva il filo del suo dialogo con un Montaigne, con un Cartesio, con lo stesso Kant, diceva più o meno così: la soggettività è qualcosa che va superata, ma di cui, una volta che si sia storicamente costituita, non ci si può sbarazzare. Quest’anno abbiamo celebrato il centenario della riforma luterana: nel 1517 Martin Lutero affisse, sulla porta della cattedrale di Worms, le sue famose 95 tesi. Qualche anno più tardi lo stesso Lutero, convocato alla dieta di Worms per essere ricondotto all’ovile e ad abiurare (come ahimè dovette fare il nostro Galileo), dopo una notte di profonda riflessione, rispose orgogliosamente ai suoi nemici: “io sto qui!”. Anche questo è Occidente: Lutero rivendicò il diritto del singolo a decidere del proprio destino, la necessità di essere all’altezza della propria maggiore età (per riprendere il nostro discorso di prima); era bene una soggettività che Lutero opponeva alle forze oscurantiste che volevano imporgli il silenzio. Qui, allora, mi pare che dobbiamo dissipare qualche equivoco a proposito della nostra ripresa di temi dello zen e delle filosofie orientali: il maestro zen è un grande irriverente, è uno che rivendica con caparbietà la propria autonomia e la propria originalità; quando invita a disfarsi di un certo io non invita certo a spersonalizzarsi, a sottomettersi alle autorità costituite… Insomma, vedo un nodo complesso di questioni da sbrogliare. Che ne pensi?

 

Caro Manlio,
non ho mai idealizzato il passato. Riconoscendomi come scienziato, ma non come cartesiano, penso che l’evoluzione culturale del genere umano, piuttosto che un salto fuori dalla materia e dalla natura, rappresenti l’ultima strada imboccata dall’evoluzione naturale, come se questa, attraverso l’emergere in noi della coscienza superiore e del linguaggio, si fosse trasferita all’interno di un’unica specie. Il miracolo della vita è l’interconnessione delle specie viventi, che sono nate tutte dalle infinite ramificazioni, nelle infinite discendenze di un unico antenato comune: da quattro miliardi di anni e dal battere all’uomo, comprese le piante, i funghi, e chi più ce ne ha, più ne metta, tutti siamo fatti degli stessi aminoacidi, degli stessi acidi nucleici, degli stessi carboidrati, ecc. Ma non si tratta soltanto di un’interconnessione genealogica. Le specie condividono, modificano, creano e addirittura costituiscono l’una per l’altra l’ambiente di vita che lega tutti gli individui e tutte le specie fra di loro, in un unico intreccio formidabile e ipercomplesso.

Mi ha sempre colpito la differenza che caratterizza le due grandi fasi di esplosione della vita degli organismi pluricellulari: quella più antica che risale a 800 milioni di anni fa e che ha preso nome dalla località di Ediacara e quella successiva, datata 600 milioni di anni fa, detta periodo Cambriano. Fino a un miliardo di anni fa esistevano soltanto organismi unicellulari, poi improvvisamente è emersa questa grande novità, l’organizzazione pluricellulare, e in un tempo relativamente breve (rispetto ai tre miliardi di anni precedenti, di monotona vita batterica o, al massimo, protozoaria) è fiorito un autentico giardino dell’eden. Le forme viventi i cui fossili sono stati rinvenuti a Ediacara costituiscono un inventario a dir poco psichedelico, che sembra uscito dalla fantasia più scatenata di un pittore pazzo. In quel periodo la natura ha sperimentato innumerevoli progetti di organizzazione degli organismi pluricellulari, con tutte le possibili forme di simmetria, di architettura interna ed esterna, con una libertà di combinazioni di forme e funzioni che non si è più ripetuta in seguito. A differenza di ciò, nell’esplosione successiva, quella che si è verificata nel periodo cambriano, dominano già sul pianeta gli animali a simmetria bilaterale, antesignani di tutte le specie che conosciamo oggi. Cos’è intervenuto a marcare la differenza? Si è compiuta, per l’appunto, una sorta di uscita dal paradiso terrestre, dovuta a una novità drammatica e irreversibile: gli animali di Ediacara, tutti senza eccezione, si nutrivano del fango marino, ricco di batteri e protozoi che pascolavano e si riproducevano tranquilli come avevano fatto da sempre nei miliardi di anni, mentre gli animali che emergono nel Cambriano hanno imparato a mangiarsi l’uno con l’altro. È cominciata a quel punto la rincorsa frenetica, o meglio la danza relazionale fra preda e predatore, che ha comportato una straordinaria accelerazione evolutiva, attraverso la creazione d’infinite competenze di attacco, di mimetizzazione e di fuga. Improvvisamente tutte le forme di vita si sono visceralmente connesse fra loro come mai era stato prima e l’evoluzione ha innestato il turbo, producendosi nel paradosso per cui, rafforzando il legame e lo scambio di carne, di vita e di morte, si è creata contemporaneamente una potente spinta alla differenziazione e complessificazione.

La storia evolutiva che ho brevemente tratteggiato si è svolta su scala cosmica, oltre che planetaria. La Terra, infatti, si è formata quattro miliardi e mezzo di anni fa e la vita è cominciata molto presto, appena la superficie del pianeta si è raffreddata e l’acqua si è raccolta allo stato liquido, mentre ancora dallo spazio piovevano abbondanti i materiali residuati del disco di accrescimento planetario che ruotava attorno ad un sole molto giovane. Se la vita costituisce un unicum fortemente interconnesso, bisogna anche dire che questo unicum, a sua volta, risulta quasi tutt’uno con la storia della formazione del pianeta e del sistema solare, temporalmente sovrapponibile. Si tratta, allargando ancora lo sguardo, di un ordine di grandezze congruente con la storia dell’universo nel suo insieme. Le attuali datazioni collocano, infatti, il big bang a una distanza di circa 13,7 miliardi di anni: poco più di tre volte l’età della Terra e della vita sulla terra. Si deve anche aggiungere che per creare gli aminoacidi e gli altri composti indispensabili per la vita come la conosciamo è stata necessaria la sintesi e la disseminazione cosmica di elementi chimici pesanti, che è avvenuta durante il ciclo di vita e di morte di stelle di precedente generazione rispetto al Sole, motivo per cui noi con la nostra Terra orbitiamo intorno ad una stella di seconda generazione, che si è formata condensando gli indispensabili residui di combustioni precedenti con l’idrogeno primordiale ancora disponibile. Questo colloca la nostra esistenza su una scala cosmica ancora più grande, e ci fa capire che se noi siamo qui, ci siamo grazie a una complessa evoluzione cosmica che si è svolta nel corso dello sviluppo di tutto l’universo nel suo insieme. A tutto ciò bisogna aggiungere che la realtà fisica della materia e dell’universo, alla luce delle conoscenze attuali, ci appare molto diversa dal concetto di oggettività e di cosa. Da un secolo sappiamo che spazio e tempo non sono invarianti, ma dipendono dal sistema di riferimento dell’osservatore e che non esiste un sistema di riferimento privilegiato rispetto agli altri. Le acquisizioni cosmologiche più recenti sono ancora più distanti dal punto di vista classico. Ora sappiamo che tutte le forze che governano la realtà fisica, e non solo la forza di gravità, sono forze apparenti che possono apparire o scomparire a seconda del sistema di riferimento. E che nemmeno le particelle di materia hanno una realtà fisica indipendente. Tutto l’universo è interconnesso in un modo che non sopporta una visione da fuori, tale da renderlo oggettivo. Tutto dipende e cambia in funzione della prospettiva e del sistema di riferimento adottato. Stephen Hawking ha recentemente affermato che la cosmologia deve completamente cambiare il suo approccio all’universo: siccome tutto dipende dal sistema di riferimento dell’osservatore, il metodo non può più essere di tipo “bottom-up”, cioè di spiegare lo sviluppo dell’universo a partire dal passato per arrivare a noi, ma il contrario, di tipo “top-down”, a partire da noi per dirigerci verso l’inizio dei tempi. In parole più semplici, per studiare l’universo non possiamo più partire dal big bang, per arrivare fino a noi, ma, al contrario, dobbiamo partire da noi e andare fino là – e questo non per strane assunzioni di tipo filosofico, ma per necessità scientifiche stringenti. Infatti, non c’è nessun là, univoco e garantito, ma tutto dipende dal qua che guarda là! Carlo Rovelli, altro grande fisico di calibro internazionale, dal canto suo parla esplicitamente di “universo relazionale”. Egli afferma che «la teoria [dei quanti] non descrive come le cose “sono”, descrive come le cose “accadono” e come “influiscono una sull’altra”. Non descrive dov’è una particella, ma dove la particella “si fa vedere dalle altre”. Il mondo delle cose esistenti è ridotto al mondo delle interazioni possibili. La realtà è ridotta a interazione. La realtà è ridotta a relazione (Rovelli, 2014)».

In definitiva la scienza, dopo avere presa per scontata la realtà oggettiva delle cose, e averla collocata a fondamento di tutto, si sta accorgendo che quella non era la realtà, ma un costrutto e adesso sta smontando il costrutto stesso dell’oggettività delle cose e tutto questo fa apparire stranamente saggio il punto di vista più ingenuo e più antico, che nelle mitologie di tutti popoli ci collocava istintivamente al centro dell’universo. Certo non si tratta di tornare a quella prospettiva arcaica, ma ho l’impressione che, venendo meno la presunta realtà oggettiva delle cose come fondamento di tutto, e collocando invece un soggetto e una scelta del sistema di riferimento come fondamento di tutto, anche il nichilismo da cui siamo partiti perda qualche argomento a suo favore: non suona più tanto inoppugnabile e scontata un’affermazione del tipo “siamo creature in cerca di significati, che devono venire a patti con il fatto di essere scagliate in un universo che, intrinsecamente, è privo di significato”!

Nishitani mostrava un errore logico alla base del nichilismo: la reificazione del “nihilum” che non è mai una cosa, ma l’abisso, motivo per cui non può essere posto a fondamento di niente, tanto meno della coscienza, come aveva proposto Sartre. La scienza, in particolare la cosmologia, sta facendo lo stesso nel demolire il mito millenario dell’esistenza delle cose in sé: al centro dell’universo e della sua realtà fisica c’è il soggetto che lo osserva a partire da se stesso.

 

Caro Alberto,
come sono affascinanti, soprattutto per un filosofo, queste tue ultime considerazioni! Riportano infatti all’esigenza, che negli ultimi venti-trent’anni la filosofia ha smarrito, di abbeverarsi alla grande fonte della scienza: dopo un periodo in cui si era chiusa in una poco produttiva dimensione ermeneutico-linguistica,  che la isolava in una sterile autoreferenzialità, essa rischia oggi di cedere alle sirene del positivismo più piatto; invece, la scienza è una gran risorsa per la filosofia, senza poterla affatto esaurire, proprio per i motivi che hai esposto tu: essa è un modo per praticare ed elaborare la realtà  da un certo punto di vista, non per rispecchiare una qualche mitica oggettività. Dal tuo racconto scientifico – dalla tua “storia”, intendendo per storia non solo la disciplina rigorosa che conosciamo, ma anche la facoltà di narrare e fantasticare – mi vengono varie suggestioni. La prima è che, dalla nuova visione scaturente dalla scienza novecentesca, e dalla versione che ne dà Hawking, risulta completamente rovesciato il vecchio modo di fare cosmologia: questo modo si basava sull’idea che dalla materia bruta e inorganica si passasse a quella organica, attraverso un lungo processo evolutivo. Si tratta invece di fare un percorso “top-down”, partendo da un presente in cui la componente “soggettiva” (qualunque cosa sia questo soggetto, del termine non possiamo fare a meno) è essenziale: credo che questa mossa sia di un’importanza che non possa essere sottovalutata; a partire da essa, si deve guardare all’evoluzione in un modo che è assai diverso da quello ottocentesco e che fu tipico dello stesso Darwin. La freccia del tempo, per riprendere un tema del grande Jay Gould, si inflette in un circolo, se è da oggi, e non dal passato, che deve essere concepita l’evoluzione cosmica; e al posto di una visione che da Darwin portava allo “slancio vitale” bergsoniano, all’idea di una vita che, da inizi elementari, procede verso mete sempre più gloriose e spiritualizzate, in una tensione tutta verticale, abbiamo quella di un processo del relazionarsi orizzontale di ogni “cosa” dell’universo, una complessificazione che non va solo in avanti, ma per così  dire, torna continuamente su se stessa. Gregory Bateson, quando ha ripreso la distinzione junghiana di pleroma e creatura, non andava forse nella stessa direzione? La sua idea di sostituire alle cose delle relazioni e di aggiungere alla materia l’informazione mi sembrano molto consone alle cose che hai appena detto.

L’altra considerazione che le tue riflessioni mi stimolano a fare mi riporta all’inizio del nostro dialogo, e cioè al sorprendente nichilismo di Yalom: come mai, ci chiedevamo, uno psicoanalista così capace di accogliere le pieghe più nascoste dell’anima dei suoi pazienti con straordinaria sensibilità, finisce in teorizzazioni, che hanno anche effetti pratici, così nichilistiche? Credo che questa ambiguità, questa possibilità di esiti radicalmente opposti, sia implicita nella prospettiva che tu hai delineato, nel senso che essa apre a due opposte interpretazioni: la prima, quella più nichilistica, è quella, se vogliamo, più facile, e che negli ultimi anni, non solo in filosofia, ma anche in sociologia e antropologia, va sotto il nome di “svolta ontologica” e si lega soprattutto al pensiero di Gilles Deleuze, ma anche a quello di Whitehead. I sostenitori di questa posizione fanno leva su alcuni risultati della scienza moderna – la fisica quantistica, le ricerche di Prygogine e l’interpretazione che ne ha dato la Stengers – per arrivare appunto a una posizione nichilistica: se tutto dipende da una prospettiva soggettiva, non esiste nessuna realtà e quindi tutto è possibile: via libera alla libera produzione del desiderio, alle celebri “macchine desideranti” di Deleuze e Guattari! Inutile dire che niente è più lontano dalla prospettiva ecologica che io e te perseguiamo. Ma delle ricerche scientifiche contemporanee è possibile dare un’interpretazione del tutto opposta, che, invece di soggettivizzare tutto, “oggettivizza”, per così dire, la soggettività: l’oggetto non è morta materia, ma abitato da molteplici prospettive, che la nostra soggettività, mettendosi con esse in corrispondenza, può “sollecitare”, far emergere a “realtà”; in questa interpretazione, il relazionismo e prospettivismo della scienza contemporanea non portano a un annichilimento dell’altro da noi, del “reale”, e all’annullamento di ogni limite all’azione dell’uomo; al contrario, conferendo la soggettività a ogni ente, estendono, invece che annullare, l’esigenza del limite e del rispetto dell’altro, la necessità di non comportarsi prometeicamente nei suoi confronti; invece del delirio desiderante e della produttività incessante e infinita, che i deleuziani della “svolta ontologica” propongono, ascolto, pazienza dell’attesa, rallentamento, ostinazione nell’abitare il presente… In questa seconda interpretazione, il pluriprospettivismo della scienza contemporanea riapre a un atteggiamento verso l’essere che è tipico della cultura orientale, in particolare del buddhismo.

Su questa ambiguità profonda, su questa “anfibolìa”, per usare un termine kantiano, mi viene da fare questa riflessione conclusiva: sembra proprio che sia tipico della scienza moderna fin dai suoi inizi aprire questi cammini completamente contraddittori: proprio nelle prime battute del nostro dialogo mi era venuto di citare Amleto; ebbene, la sua prospettiva nichilistica, il suo dubbio così distruttivo si era affacciata nel momento in cui le scoperte geografiche e il copernicanesimo avevano mandato in frantumi il vecchio ordine del mondo; anche allora, tecnica, scienza, razionalità avevano aperto dei territori completamente nuovi al pensiero e all’azione nel mondo; anche allora, però, la loro azione pareva spalancare l’abisso del nulla. Mi pare che anche quello che ho detto in una battuta precedente, sulla differenza fra “nulla” e “vuoto”, ma anche sulla facile possibilità di confondere l’uno con l’altro, di scivolare dal secondo nel primo, si riallacci a tutto questo. In ogni caso, siamo tornati a Yalom, da cui era partito il nostro dialogo…

 

Caro Manlio,
ho meditato a lungo su quel tuo passaggio sintetico e riassuntivo che trovo particolarmente pieno di significato: “il relazionismo e prospettivismo della scienza contemporanea non portano a un annichilimento dell’altro da noi, del “reale”, e all’annullamento di ogni limite all’azione dell’uomo; al contrario, conferendo la soggettività a ogni ente, estendono, invece che annullare, l’esigenza del limite e del rispetto dell’altro”. Quanto segue è la mia risposta.

La fisica dei quanti ci dice che la realtà è relazione, e la cosmologia che noi siamo al centro dell’universo. Nessuno, però, può averci messi in questo posto, perché nell’universo non c’è nient’altro che l’universo stesso e, come ha detto Smolin[2], dal punto di vista della cosmologia l’universo consiste di una moneta a una sola faccia e non possiamo concepire la possibilità di girare intorno, entrare o uscire da questa “faccia”. Rinunciando al trascendente, dobbiamo trovare un’altra spiegazione per esprimere il senso di essere qui, al centro di tutto. Forse si tratta di sostituire la preposizione con un articolo e provare semplicemente a dire: “noi siamo il centro dell’universo”! In questo modo oltrepassiamo Cartesio e non separiamo più la soggettività dall’oggettività. Cosa comporta questo cambio di prospettiva, potremmo anche dire questo inaspettato colpo di scena? Da psicoterapeuta penso per prima cosa all’importanza di ciò che avviene dentro di noi – o attraverso di noi. Il faticoso processo evolutivo che portiamo avanti dalla nascita alla morte, qualora non si blocchi nei circoli viziosi della sofferenza psicologica, acquista un valore cosmico. Le scoperte che faccio a proposito del mio modo di relazionarmi a me stesso e agli altri, l’esplorazione e la conquista di nuovi modi sono atti creativi che si compiono al centro dell’universo, e così si potrebbe dire che costituiscono veri e propri atti di “espansione dell’universo”. Se, da un lato, questi passaggi evolutivi comportano un senso di intima soddisfazione, di accresciuta libertà personale e s’identificano con la guarigione prodotta da una terapia, dall’altro essi rappresentano un valore totalmente e unicamente finalizzato a se stesso. Forse è questo il vero significato dell’opus alchemicum che Jung amava tanto come parafrasi del processo psicoterapeutico.

La mia vera risposta a Yalom sta nell’accreditare alla psicoterapia un significato che va oltre la terapia, motivo per cui, da questo punto di vista, tutta la psicopatologia appare come spostamento e sintomo di qualcosa che ha a primariamente che fare non tanto con la salute, quanto con l’esistenza di una persona e con ciò che avviene lì, al centro dell’universo, nell’intimo di quella persona e delle sue relazioni interpersonali.

Penso che Yalom più di noi si trovi a dover reggere la pressione esercitata da un sistema sociale organizzato intorno a dei valori molto riduttivi di pragmatismo e di efficientismo, che riportano sempre al concreto e rendono molto difficile compiere questo atto di demistificazione della psicopatologia. Se la sua risposta all’esperienza esistenziale del limite consiste semplicemente nel riconoscere la tragedia che tutti ci accomuna senza via di scampo, perché questa è la “verità” delle cose (una posizione che mi fa tanto pensare al suo molto amato Schopenhauer), egli rischia di mantenere se stesso, i suoi pazienti e i suoi lettori nel circolo vizioso della delega e della minorità, di cui abbiamo parlato a proposito del suo sogno.

Qui si vede bene la ragione del paradosso apparente, per cui il massimo del materialismo, l’atteggiamento moralistico che misura il valore da attribuire a una persona a partire dal numero di cifre del suo conto in banca, si accompagna bene con l’attaccamento a valori religiosi più o meno integralistici, come il creazionismo e la fede in una realtà trascendente. Motivo per cui l’alternativa alla religione non è il materialismo, infatti questo è semplicemente l’altra faccia di quella. Per questo credo che la faccenda del limite vada superata dall’interno del limite stesso, senza evasioni nei mondi paralleli della fede e senza contare troppo sul mal comune che ci assolve dal male. Non vedo altra soluzione che assegnare alla psiche e alla psicoterapia l’orizzonte che, come a me sembra, loro compete: quello di essere momenti di un processo evolutivo che ci colloca al centro dell’universo e che riempie di senso la nostra vita. La vita piena non è la vita di chi corre da mattina a sera, vittima di qualche illusione maniacale, ma quella di chi vive, nel proprio modo di agire, di essere e di sentire, un processo evolutivo basato sull’apertura all’esperienza, il che significa esporsi a relazioni significative con la disponibilità di perdere e ritrovare infinite volte il senso di sé, dei propri progetti e delle proprie appartenenze.

In terza media l’insegnante d’italiano mi fece commentare la breve ma terribile poesia di Quasimodo che dice: “Ognuno è solo sul cuor della terra,/ trafitto da un raggio di sole,/ ed è subito sera”. Ricordo solo che mi arrampicai sugli specchi e presi un bel voto. Oggi saprei rispondere meglio alla provocazione contenuta in quei versi e vorrei poter dire all’autore: “Non sentirti così solo,/ sii completamente trafitto dal tuo raggio di sole – preoccupati soltanto se quel raggio non arriva,/ ma non preoccuparti minimamente della sera”.

 

Caro Alberto,
la prima cosa che mi fa venire in mente questa tua ultima battuta è un breve testo di un filosofo che ho già richiamato, cioè Husserl, testo che, alla luce di quello che dici, riceve un grande allargamento di senso e di orizzonte: si tratta della scritto Sul rovesciamento della dottrina copernicana, in cui questo filosofo in apparenza cosi sistematico e, diciamolo, così tedescamente barboso, tira fuori, come spesso gli capita, un discorso straordinariamente originale e controcorrente. Egli argomenta che, per quanto la scienza oggettiva ci insegni la dottrina copernicana, per cui è la terra a ruotare intorno al Sole, la nostra esperienza più vera, e il nostro corpo, che ne è la matrice, non accetteranno mai il copernicanesino: per il nostro corpo l’orientamento è dato dal riferimento a questa nostra Terra e nessuna considerazione intellettuale può sostituire l’esperienza vera e incarnata; in altri termini per quest’ultima il centro è costituito da noi e dal sistema che il nostro corpo forma con la Terra. Del resto, al di là di Husserl, l’ineludibilità dell’esperienza soggettiva, il fatto che il mondo non debba e non possa far a meno di me, credo che sia qualcosa che sia già stato presentato da tutto l’esistenzialismo, e dal suo fondatore, Søren Kierkegaard, anche se poi non sempre questo movimento filosofico ha saputo restar fedele a questa sua geniale intuizione. In questo senso, che la scienza, quella del ‘900 e quella contemporanea, abbia ritrovato e dato maggior consistenza a questa intuizione è un fatto fondamentale, che ne trasforma anche profondamente la portata e il significato. Ma, ancora di più, sono convinto che la psicoanalisi e i nuovi percorsi che tu da anni stai scavando a partire dal suo alveo, allargano l’orizzonte di questa “centralità della soggettività”: né la filosofia (nemmeno Merleau-Ponty)  né la scienza sono in grado, da sole, di mettere in evidenza e in valore quello che emerge dalle tue considerazioni: cioè, il valore cosmico e universale della vicenda psicologica individuale. Non si tratta, qui, di un ritorno a posizioni religiose, finalistiche, consolatorie: c’è il fatto, anche tragico, che la nostra soggettività costituisce un fattore di irriducibile arricchimento possibile dell’universo: ma questo arricchimento è nelle nostre mani, non ha nulla di garantito, anzi, chiede quasi sempre una dura lotta. Laicamente, la psicoanalisi riprende istanze che sono state della metafisica e della religione – anzi, delle religioni, poiché si tratta qui dell’eredità cristiana, ma, ancor più, come emergeva più su nel nostro dialogo, di quella della saggezza orientale; ma qui, credo, sarà il caso di fermarsi, e di lasciare a una prossima volta ulteriori approfondimenti.

 

Bibliografia

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Bateson, G., Mente e natura, Milano, Adelphi, 1984.

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Husserl, E., Rovesciamento della dottrina copernicana nell’interpretazione della corrente visione del mondo, tr. it. in “aut aut”, n.245, 1991, p. 1 e sgg.

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Merleau-Ponty M., Ovunque e in nessun luogo, in Segni, tr. it. Milano., Il Saggiatore, 1967, pp. 170 e sgg.

Nishitani Keiji, La religione e il nulla, Città Nuova, 2004.

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Sartre, J.-P., L’essere e il nulla – tr.it. Milano, il Saggiatore, 1958.

Weber, M., L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, tr. it. Firenze, Sansoni, 1965.

Yalom I. D., Il dono della terapia, Vicenza, Neri Pozza, 2016.

Yalom I. D., Fissando il sole, Vicenza, Neri Pozza, 2017.

Yalom I. D., Il senso della vita, Vicenza, Neri Pozza, 2016.

Yalom I. D., La cura Schopenhauer, Vicenza, Neri Pozza, 2009.

 

[1] Manlio Iofrida insegna filosofia contemporanea nell’Università di Bologna.

[2] Lee Smolin, cosmologo di fama internazionale, ha enunciato il cosiddetto “primo principio della cosmologia” che suona press’a poco così: L’universo è una moneta con una sola faccia! (Gefter, 2014).

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