L’adolescenza è un’età difficile, perché il passaggio dall’infanzia all’età adulta non è graduale. Soprattutto, esso comporta un cambio d’identità e, in un certo senso, una nuova nascita, fisica e psicologica. Il paragone con la trasformazione del bruco in farfalla rende bene l’idea. Però, dobbiamo tenere presente che il capo della farfalla si costituisce là dove precedentemente era collocata l’estremità anale del bruco: così realizziamo l’idea di quale catastrofico rimaneggiamento abbia luogo nella riorganizzazione di questo organismo! Il rimaneggiamento del senso di sé attraverso cui si dissolve l’identità del bambino nella fase di crisalide adolescenziale regge tranquillamente il paragone.
Per fare un esempio delle complesse ripercussioni che ne derivano, vorrei citare il caso di una crisi adolescenziale che si sta svolgendo proprio in questo periodo sotto la mia (indiretta) osservazione. La ragazza, che potremmo chiamare anche lei Wendy, in omaggio al nostro film Dear Wendy di Thomas Vinterberg, ha 16 anni ed è completamente innamorata di un compagno di scuola due anni più grande di lei. Visti insieme, i due ragazzi suscitano ammirazione e invidia, perché sono proprio una bella coppia e dal loro sguardo trapela una sorta di orgogliosa e felice consapevolezza di sé: incarnano, infatti, una doppia immagine della bellezza in fiore. Fino da bambina, Wendy aveva stabilito con il padre una speciale forma di alleanza affettiva ed intellettuale, mentre la madre, che svolgeva un lavoro molto impegnativo fuori casa, poteva contare su di lei e sul suo innato senso di responsabilità che quasi le consentiva di farsi da madre da sola. Improvvisamente, questo equilibrio idilliaco è andato in frantumi. La rapida trasformazione di Wendy da bambina a donna innamorata ha colto di sorpresa ed allarmato entrambi i genitori. Particolarmente incomprensibile è apparsa loro l’urgenza della ragazza di passare più tempo possibile con il suo amato, per cui hanno ritenuto necessario tentare di disciplinare l’amore, assegnando alla figlia dei limiti di tempo, richiamandola ad alcune responsabilità domestiche ecc., ma a questo Wendy ha reagito con insofferenza crescente, con rabbia e con atteggiamenti provocatori di chiaro stampo adolescenziale. Inoltre ha manifestato fragilità e disperazione, altra cosa nuova e incomprensibile. Il padre si è sentito defraudato e in lutto, la madre assalita dall’angoscia di separazione. Wendy, offesa, infuriata, irriconoscibile, sempre peggio. In breve, un pandemonio. Una gita scolastica ha portato via per quattro lunghissimi giorni l’amato bene di Wendy e quando finalmente è arrivato il momento di potersi riabbracciare, questa si è presentata all’appuntamento con un girasole che, si badi bene, essendo fiore fuori stagione, ha richiesto molta fatica per essere trovato. “Il girasole sono io! ” ha detto candidamente Wendy al padre che l’accompagnava con la macchina, costernato e quasi raccapricciato, “Perché lui è il mio sole e io gli giro intorno, per volgermi sempre verso di lui.” Riparlando in seduta di questo episodio, l’uomo ha realizzato per la prima volta quanto bello, tenero e ingenuo fosse il sentimento della figlia per il suo amato e per la prima volta ha considerato la possibilità che la dedizione, come quella del girasole o della luna nei confronti del sole, possa essere un valore, uno sviluppo della femminilità, per quanto sbilanciato e precoce, e non una regressione o una perdita di senno e di indipendenza della precedente bambina.
Ho usato la parola “valore”, e da qui intendo ripartire. Quale valore siamo capaci di assegnare ad un adolescente? Il bambino ci esalta con la sua grazia, ci entusiasma con la sua ingenuità, soprattutto perché si rivolge a noi grandi come a delle autorità semidivine e ci ammira sconfinatamene, ma l’adolescente è un adulto inesperto e goffo che vuole competere con noi altri adulti e combina un mucchio di guai.
Soprattutto, l’adolescente è un uomo nuovo o una donna nuova. Mi viene in mente che il senso della prospettiva entrò nella pittura con l’inizio del rinascimento, proprio perché in quel momento si assegnò per la prima volta un valore al punto di vista dell’individuo. Fino a quel momento, la coscienza si proiettava nell’occhio di dio, a partire dal quale tutte le cose sono ugualmente distanti, ugualmente piccole. Ma che valore assegniamo oggi a questo rinascimento personale, a questo tentativo di affrancamento dai genitori-dei che apre nuovi occhi sul mondo?
Dick, il protagonista del film, si rifiuta di seguire il padre in miniera, nel tentativo di posticipare, almeno per un poco, quel destino già segnato di perdente che aspettava tutti i ragazzi di Estherslope e preferisce diventare commesso nel piccolo supermercato che si affaccia sulla piazza del paese. Ma questa è soltanto un’altra forma di sepoltura e la sua vita si profila ugualmente monotona e grigia, con l’unica differenza che in questa piccola parte del mondo chi non scende in miniera si sente anche vigliacco, oltre che sprecato. Ce lo dimostra il proprietario del negozio che trema come una foglia ogniqualvolta entra un avventore dal viso sconosciuto. Il destino di Dick sembra ormai segnato, quando entra in ballo l’inaspettato.
Steve, taciturno compagno di lavoro, scopre la pistola giocattolo che Dick da un po’ di tempo si portava in tasca, e gli rivela che si tratta di una pistola vera. Steve è un esperto d’armi. Procura un proiettile e conduce Dick in una miniera abbandonata, dove lo incoraggia a sparare il suo primo colpo. Dick spara in stato di trance e fa centro. Fa doppiamente centro, perché in quel momento lui stesso viene colpito da un’intuizione formidabile. Il senso di questa intuizione è il vero argomento di cui ci occuperemo nel seguito, ma, prima di proseguire, facciamo il punto della situazione.
Diventare un uomo, diventare una donna: non è cosa da poco. Significa riprendere un lavoro cominciato molto tempo prima, quando si trattò di diventare un bambino. Ma come si fa a diventare un bambino? All’inizio, prima che un bambino possa dire “io” o “mio”, sono i genitori che parlano a lui di ciò che egli fa, e di ciò che egli vede, di ciò che egli sente e si rivolgono a lui dandogli un nome. All’inizio, dice Kohut, esiste un sé virtuale nella mente dei genitori. Questo sé virtuale viene proposto con enfasi emotiva al bambino, il quale reagisce con diversa enfasi alle diverse sollecitazioni parentali, mentre i genitori a loro volta reagiscono differentemente alle diverse reazioni infantili. In un processo di mutua regolazione affettiva, la mente del bambino si sposta dalle cose alla rappresentazione delle cose, che sono soprattutto rappresentazioni verbali. Questo universo rappresentazionale allo stato nascente si organizza intorno a dei significati principali, il principale dei quali è la rappresentazione di sé, l’immagine di sé che si accompagna al proprio nome. Ma in questa embriogenesi del sé c’è un aspetto drammaticamente importante e drammaticamente sottovalutato. Qualcosa che ha a che fare con l’essere e con l’apparire, con la realizzazione o il fallimento della realizzazione di sé, con la felicità e la pienezza o con l’angoscia e il senso di vuoto.
La differenza cruciale di cui sto parlando dipende da quanto siano realmente sentite le rappresentazioni delle cose. Per essere sentite, le rappresentazioni devono contenere qualcosa di sé, cioè, per anticipare il seguito del discorso, devono essere, almeno in parte, delle invenzioni del bambino, perché deve poterci mettere qualcosa di sé: devono essere un po’ delle invenzioni sue e un po’ delle scoperte. Se le cose vanno avanti così, si intesse la trama di un mondo emozionante, frutto di cimento personale, coraggio, intelligenza e passione. Il mondo dei significati personali si crea mettendo alla prova se stessi e si sviluppa su due lati: quello oggettivo, delle scoperte e quello soggettivo, delle esperienze fatte. In altri termini, perché l’universo rappresentazionale possa risultare interessante, appassionante, e, soprattutto, realmente sentito, è necessario che il bambino goda della libertà di procedere in esso (nella sua costruzione) con anima e corpo, avventurando, smarrendo e ritrovando se stesso, sbagliando e imparando dalla propria personale esperienza. Ma perché sia possibile questa apertura all’esperienza e al mondo, il bambino deve sentirsi incoraggiato, sostenuto e valorizzato nel suo grandioso percorso di creazione del mondo.
Se invece il mondo delle rappresentazioni viene richiesto al bambino come una prestazione necessaria, motivata da bisogni che restano per lui incomprensibili, o peggio sollecitata, come spesso avviene, con un’infinità di ricatti emotivi (sei buono se fai così, sei bravo se fai cosà, altrimenti non lo sei affatto e nessuno ti vorrà bene ecc.), allora si realizzerà un innesto mal riuscito. L’universo rappresentazionale s’impianterà come un palo appuntito sulla matrice mentale preriflessiva e preverbale, suscitando un insopportabile senso di corpo estraneo e un bisogno costante di rigetto da parte della parte viva e selvatica di sé. La parte viva di sé, peraltro, può anche tacere, può restare incantata, come negli incantesimi delle fiabe: ecco allora il cosiddetto “bambino ammaestrato”, quello che la fatina voleva ottenere da Pinocchio, e che in certi casi diventa addirittura il bambino prodigio, capace di suscitare l’ammirazione estasiata degli adulti, facendo loro da specchio e gratificandoli in tanti diversi modi possibili.
Siccome l’ideale non è di questo mondo, in realtà i bambini si trovano in situazioni miste, in parte favorevoli alla loro crescita, in parte favorevoli allo sviamento e al deragliamento della loro crescita, nel senso che ho appena detto. Proprio il loro tentativo di fare fronte alle difficoltà, ricostruendo istintivamente le condizioni necessarie al mantenimento in vita e allo sviluppo del sé, costituisce il vero significato di un’enorme varietà di atteggiamenti e comportamenti infantili e, successivamente, adolescenziali che ci appaiono misteriosi, pericolosi e soprattutto incomprensibili per la nostra mentalità adulta.
Donald W. Winnicott è lo psicoanalista che per primo ha compreso e spiegato le difficoltà che l’essere umano incontra nell’interfacciare costruttivamente il proprio mondo interno con il mondo oggettivo che lo circonda e con il quale deve imparare a misurarsi, a scambiare e a convivere, senza farsi invadere, senza perdere fiducia nel valore della propria unicità e nella validità dei propri tentativi di orientarsi nella vita mettendo in gioco se stesso. Egli ha introdotto i concetti di oggetto transizionale e dimensione transizionale, che sono indispensabili per capire cosa succede a Dick nel momento in cui spara per la prima volta con la sua pistola.
In quel momento, Dick ha “inventato” la sua pistola, o meglio ne ha fatto il proprio oggetto transizionale. D’ora in poi la pistola si chiamerà Wendy e ad essa sono dedicate le pagine di diario che fanno da voce narrante, dall’inizio alla fine di tutta la storia. D’altra parte, Dick, insieme agli amici che si aggiungeranno a lui e si trasformeranno in adepti di una setta segreta, i Dandies, inventerà tutti i rituali attorno ai quali si organizzerà la dimensione transizionale, quella che conteneva l’ossigeno di cui i loro sé avevano urgente bisogno, per completare la trasformazione interrotta e, da bambini che non erano più, diventare quegli uomini e quelle donne che non erano ancora. A conferma tangibile del mio discorso, vorrei citare l’entusiasmo con il quale Susan si spoglia ed esibisce a Dick il proprio seno che finalmente è cresciuto ed appare grande come quello di una donna.
Il programma dei Dandies era quello di sviluppare una particolare destrezza nell’uso delle armi che, in quanto oggetti transizionali, erano contemporaneamente sviluppo ed estensione del proprio sé ed anche realtà oggettiva ed efficace presa sul mondo. Loro impegno preciso era di non usarle mai fuori dalla miniera: il semplice fatto di portarle con sé, il contatto fisico dell’arma con la propria pelle li faceva sentire finalmente sicuri di sé. Faceva loro sentire l’esistenza tangibile di un ponte fra la persona unica che ognuno sentiva di essere, con la particolare abilità che aveva sviluppato, e la realtà esterna, la dura fisicità circostante, alla quale, dopotutto, la canna, il calcio e il tamburo della pistola appartenevano di buon diritto.
Winnicott ha parlato della dimensione transizionale come di una “terza parte della vita dell’essere umano… un’area intermedia di esperienza… posto-di-riposo per l’individuo impegnato nel perpetuo compito umano di mantenere separate, e tuttavia correlate, la realtà interna e la realtà esterna.”
“[…] Dalla nascita, l’essere umano è occupato nel problema del rapporto tra ciò che è percepito oggettivamente e ciò che è concepito soggettivamente… I fenomeni transizionali rappresentano i primi stadi dell’uso dell’illusione, senza la quale non vi è significato per l’essere umano nell’idea di un rapporto con un oggetto che è percepito dagli altri come esterno a quell’essere umano.”
“Dovesse un adulto pretendere la nostra accettazione della oggettività dei suoi fenomeni soggettivi, noi vi scorgeremmo o diagnosticheremmo la follia. Se, tuttavia, l’adulto trova la maniera di godere dell’area intermedia personale senza avanzare pretese, allora possiamo riconoscere le nostre proprie aree intermedie corrispondenti e ci fa piacere di trovare un certo grado di sovrapposizione, vale a dire l’esperienza comune tra i membri di un gruppo nell’arte, nella religione o nella filosofia.” [1]
Ovviamente, il seguito del film descrive il crollo e il collasso tragico di quella fragile invenzione, la dimensione transizionale nella quale Dick e i suoi compagni avevano ritrovato per un poco la fiducia di crescere e diventare se stessi. Dalle parti di Estherslope, il mondo esterno è troppo estraneo alle ragioni dello sviluppo della personalità, in particolare del senso di esistere, di essere vivi e rivendicare il valore di essere un individuo unico, se stessi: il ponte crolla inevitabilmente. Lo sceriffo rappresenta un principio di realtà troppo impenetrabile e ottuso rispetto a quelle ragioni e, in questo senso, si tratta di un film di denuncia sociale. Da questo punto di vista, però, qualcuno potrebbe obiettare che lo sceriffo non aveva tutti i torti a non fidarsi di quei ragazzini e a predisporre un esercito di tiratori scelti sui tetti degli edifici circostanti, ad aspettarli fuori della miniera. In effetti, la questione è circolare e il film ci fa vedere l’esasperazione fino ad una soglia critica della negazione e della riaffermazione del sogno dei Dandies. In questi casi, per rafforzarsi e sopravvivere, la dimensione transizionale passa da un’espressione più lieve e simbolica ad un’espressione più concreta, intollerante e tragica. Così come una cultura calpestata tende al fondamentalismo, mentre una cultura rispettata si accontenta di esprimere le proprie convinzioni identitarie su di un piano di maggiore leggerezza e di rispetto verso chi non le condivide: semplicemente perché non si sente minacciata. Quel che è certo, la storia dell’umanità dimostra infinite volte che siamo tutti disposti a perdere più volentieri la vita, piuttosto che a perdere definitivamente la speranza di poter dare un senso e un valore alla nostra vita.

NOTE:

[1] Winnicott D.W. (1971) Gioco e realtà, Armando editore, Roma 1974, p. 39 e p. 42.

Alberto Lorenzini
E-mail: alberto.lorenzini(at)gmail.com


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