È per me curiosa la difficoltà che ogni volta provo davanti alla pagina scritta. Se a questo aggiungo che tendo a scrivere molto, al di là della ragionevolezza, che persino le mie mails spesso somigliano di più alle classiche lettere di una volta che alle comunicazioni scritte dette posta elettronica, questo mi rende ancora più inquietante la fatica che provo da giorni al solo pensiero di svolgere questo compito scelto, eppure così psicologicamente impegnativo, di scrivere sull’empatia. Mi dico che sarà il caso che mi ascolti, che empatizzi un po’ con me stessa e mi dica francamente che cosa sta rendendo ardua un’attività di per sé piacevole quale è lo scrivere su un argomento che mi appassiona, che è il cuore della professione che svolgo per scelta, scelta fatta da adulta, quando I giochi della vita parevano già tutti fatti.
Appunto, l’empatia è il cuore del mio approccio psicoterapeutico di riferimento, l’Approccio Centrato sulla Persona, conosciuto anche come “Approccio Rogersiano” dal nome dello psicologo clinico che lo ha creato. Sento, quindi, fortissimo il senso della responsabilità e l’eventuale colpa di non essere chiara abbastanza, esaustiva abbastanza, soprattutto brava abbastanza. Cosa poi sia questo “abbastanza ” è tutto da verificare ogni volta; nel campo professionale ha dimensioni decisamente superiori a quello che generalmente ha nelle altre aree della mia vita.

Il mio Sé Ideale è all’opera da giorni, disturbandomi. E’ forse una novità? No di certo, Eppure riconoscerlo, vederlo e chiamarlo per nome sono operazioni mentali che , se permeate dalle emozioni con cui mi guardo (fastidio, incertezza, timidezza, anche tenerezza da un po’ di tempo in qua), se attraversate da un’accettazione di me e dei miei limiti, se accompagnate dall’assenza di giudizio che sicuramente garantirei ad un altro che non fossi io, costituiscono l’unica possibilità che vedo per affrontare questa pagina ed il pensiero dell’incontro, con persone che non conosco, sul tema dell’empatia.

Questo “ascolto di sé” è quello che Carl Rogers chiama congruenza, una delle tre condizioni che egli definisce “necessarie e sufficienti” in una relazione di aiuto, per promuovere la crescita di un individuo. Le altre due condizioni sono, l’accettazione positiva incondizionata e l’empatia.
Il ruolo di terza per ordine, fa parte dello sviluppo della teoria della personalità e della terapia di questo psicologo clinico americano che ha formulato le sue idee e il suo approccio psicoterapico in un arco di tempo che è iniziato negli anni ’40 ed è durato fino alla sua morte avvenuta nei primi anni ’80.
Carl Rogers in “Un Modo di Essere”, pubblicato in America nel 1980 e tradotto e pubblicato in Italia nel 1983 da G. Martinelli & C. , Firenze, dice con la chiarezza, meglio, la congruenza, che lo contraddistingue quanta sofferenza abbia provato nel vedere il ruolo dell’empatia travisato e ridotto a una mera questione di tecniche e quanto questo lo abbia fatto desistere, per un lungo periodo, dal parlare dell’empatia e delle tecniche di rimando utilizzate nell’Approccio, Centrato sulla Persona.
Solo dopo molti anni, quando il suo pensiero e la pratica psicoterapeutica che lo realizza sono state convalidate da numerosi studi e pubblicazioni, la maggior parte dei quali mai tradotti in italiano, Rogers è tornato sull’empatia scrivendo:

-Nel corso degli anni, tuttavia, i risultati delle ricerche condotte sono andati ammassandosi, e hanno decisamente rafforzato la conclusione che un alto grado di empatia in una relazione è probabilmente il fattore più potente nell’apportare trasformazioni e apprendimento..-.
Ed ancora:
-Molte definizioni del termine “empatia” sono state date, e io stesso ne ho proposte parecchie. Più di vent’anni fa (Rogers, 1959), tentai di dare una definizione strettamente rigorosa come parte di un’enunciazione formale dei miei concetti e della mia teoria. Essa suonava cosi:
Lo stato di empatia, dell’essere empatico, è il percepire lo schema di riferimento interno di un altro con accuratezza e con le componenti emozionali e di significato ad esso pertinenti, come se una sola fosse la persona ma senza mai perdere di vista questa condizione di “come se “. Significa perciò sentire la ferita o il piacere di un altro come lui lo sente, e di percepire le cause come lui le percepisce, ma senza mai dimenticarsi che è come se io fossi ferito o provassi piacere, e così via. Se questa qualità di “come se” manca, allora lo stato è quello dell’identificazione. (pp. 210-211. Vedi anche Rogers, 1957).-
Per poi arrivare a proporre:
-…. Consentitemi di tentare una descrizione dell’empatia quale oggi a me pare soddisfacente. Non la definirei più “uno stato di empatia”, perché la ritengo più un processo che uno stato. Può darsi che riesca anche ad inglobare questa qualità.
-Un modo empatico di essere con un’altra persona ha molte angolature. Comporta una sensibilità, istante dopo istante, verso i mutevoli significati percepiti che fluiscono in quest’altra persona, dalla paura al furore, alla tenerezza, o confusione, o qualunque altra cosa essa stia sperimentando. Significa vivere temporaneamente nella vita di un altro, muovendocisi delicatamente, senza emettere giudizi; significa intuire i significati di cui l’altra persona è scarsamente consapevole, senza però svelare i sentimenti totalmente inconsci, perché ciò sarebbe troppo minaccioso. Coinvolge la comunicazione delle vostre percezioni del mondo dell’altro, del quale osservate con sguardo sereno e nuovo quegli elementi che l’altro teme di più. Significa controllare frequentemente in compagnia dell’altro l’accuratezza delle vostre percezioni, ed essere guidati dalle reazioni che ricevete. Siete il compagno fiducioso nel mondo interiore dell’altro. Segnalando i possibili significati nel flusso dell’esperire di un’altra persona, l’aiutate a concentrarsi su questa preziosa sorta di referente, a sperimentare più compiutamente i significati, e a procedere nell’esperienza. Essere con un altro in questo modo significa che per il periodo in cui vi ci trovate, voi mettete da parte le vostre concezioni e valori personali onde entrare nel mondo di un altro senza pregiudizi. In un certo senso, significa che voi stessi vi mettete da parte; questo può essere fatto solo da persone che sono abbastanza sicure di sé da sapere che non si perderanno in ciò che nel mondo dell’altro potrebbe risultare strano o bizzarro, e che possono comodamente ritornare al loro mondo personale appena lo desiderano.”.

Da questa definizione dell’empatia di Carl Rogers emerge chiaramente che la possibilità di -essere empatico nel modo – complesso, esigente e forte – e al tempo stesso sottile e delicato- che il fondatore dell’Approccio propone, passa attraverso la capacità del terapeuta di essere in contatto con se stesso, consapevole di quello che si sta muovendo nella propria coscienza per poterlo distinguere da quello che viene comunicato, in modo verbale e non verbale dalla persona Cliente e poterlo comunicare allo stesso se questo è nell’interesse degli obiettivi terapeutici che quest’ultimo sta perseguendo. Questa è la condizione che Rogers definisce congruenza essere accompagnata dalla capacità del terapeuta di essere trasparente non solo a se stesso ma anche all’altro.
Allo stesso modo la capacità di non emettere giudizi, di separarsi temporaneamente dal proprio mondo valoriale per immergersi in quello dell’altro, è l’essenza dell’accettazione positiva incondizionata.
Senza queste due condizioni, ecco che l’empatia corre il rischio di essere tecnica e non “modo di essere”. In tutti gli approcci psicoterapeutici il terapeuta è lo strumento principale del lavoro di cura, nell’Approccio Centrato sulla Persona, a mio avviso, questo risulta essere assolutamente determinante. L’empatia, nella sua forma migliore, non è un’operazione di tipo cognitivo, è un modo di essere con l’altro che coinvolge il terapeuta completamente.
Quando mi sento psicologicamente stanca sento bene la differenza dei miei rimandi che possono essere corretti, che individuano anche che cosa l’altro sta provando ma, nei miei momenti migliori, quello che sento va al di là della comprensione, è davvero quello stare con l’altro, essere, sentire quello che l’altro sente. Perchè questo ha effetti terapeutici, ovvero di “guarigione”?
L’ascolto empatico permette alla persona che soffre, che è in difficoltà, che è confusa, di guardare dentro se stessa, di vedere con maggiore chiarezza quello che è lì, appena sotto il livello della consapevolezza ma senza che riesca a uscire e diventare consapevole; il rispecchiamento da parte del terapeuta fa emergere, letteralmente venire a galla, sentimenti e pensieri fino ad allora rifiutati perché portatori di dolore, vergogna , sofferenza, paura. – Se un altro essere umano vede quello che si sta muovendo dentro di me e lo chiama con il suo nome senza spaventarsi forse lo posso fare anch’io. L’ascolto empatico del terapeuta mi permette di viaggiare nella mia confusione con la compagnia sicura di un altro da me che attraverso l’empatia coglierà quello che sembra essere più importante nel magma indistinto dei miei dubbi e delle mie incertezze e me lo rimanderà dandomi la possibilità di comprendere quale è il filo rosso del mio vissuto che c’è ma che, da solo, non riesco a trovare – questo sembra dirsi, in tanti momenti, il Cliente.

La qualità di processo di cui parla Rogers in “Un modo di essere”, a mio avviso, ha a che fare con questo ultimo punto; a volte la persona non porta un sentimento ben distinto, un vissuto emozionale che ha una sola coloritura, a volte la persona porta un caleidoscopio di emozioni, sentimenti, vissuti e la capacità del terapeuta di essere “real and ready”, come dice Dale Larson, permette al Cliente di non perdere nulla di quel caleidoscopio, di appropriarsi di tutto quel vissuto senza correre il rischio di perderlo.

Trovo commovente lo stupore, la meraviglia, il sollievo che vedo sul volto dei Clienti quando, attraverso l’empatia, danno parole a qualcosa che sentivano da tanto tempo ma a cui non riuscivano a fare corrispondere una verbalizzazione chiara. In quei momenti avverto la loro gioia, come quella di chi cerca qualcosa che ha riposto, ma non sa più dove, e qualcun altro gliela consegna, e quello che trova è qualcosa che sapeva di possedere ma a cui non riusciva a dare né una immagine né un nome.
L’empatia è il modo attraverso cui si rimanda all’altro il suo diritto ad esistere e ad essere con tutto quello che l’altro è. Il sentirsi riconosciuto ed in diritto di essere abbassa naturalmente le difese, è per questo che nell’ ACP si teorizza che non si abbattono mai le difese, si aspetta che il Cliente si senta tanto sicuro da poterlo fare.

Un’altra caratteristica importante dell’Approccio Centrato sulla Persona che ritengo strettamente legata all’utilizzo dell’empatia è l’assenza della diagnosi per stabilire la modalità di lavoro con il Cliente. Una critica che a volte viene fatta è che non è possibile utilizzare lo stesso metodo con tutti i clienti perché ognuno, a seconda delle sue problematiche, ha bisogno di una diversa modalità operativa. Credo che proprio l’utilizzo dell’empatia, nel modo in cui è stata descritta da Rogers, dia una risposta a questo genere di quesito. E’ vero, non è utile rimandare emozioni e sentimenti a una persona che porta se stessa in un modo che dichiara quanto i sentimenti la minaccino e quanto la vicinanza di un altro essere umano possa essere vissuto come pericoloso; allo stesso modo è importante rimandare con immediatezza il vissuto emotivo a una persona che porta il bisogno di sentire riconosciute le proprie emozioni ed I propri sentimenti pena il sentirsi esclusa dal consorzio umano. Intendo dire che è l’empatia che determina il modo migliore per rapportarsi non con una categoria diagnostica ma con una persona, quella del Cliente che in quel momento mi sta davanti. Equivale a dire che, senza nulla togliere all’utilità che la diagnosi ha in campo medico, si ritiene che in campo psicoterapico sia importante trattare ogni cliente come un unicum e farsi guidare dall’empatia nell’essere “Centrati sul Cliente”, nel dargli quello di cui ha bisogno in quel preciso momento fidandosi del fatto che se si sentirà non minacciato, ma compreso e accettato completamente come persona, permetterà a se stesso di entrare in contatto con tutte le parti di sé, anche le più minacciose, per guardarle in compagnia di un altro essere umano, il terapeuta, che gli dà il tempo e il sostegno necessario per fare le proprie scelte alla luce dei suoi reali desideri. E’ questo che permette il recupero del vero Sé, unica possibilità che abbiamo come esseri umani di vivere in sintonia con noi stessi.

Share This