La mia passione per la scrittura si manifestò in seconda elementare, quando nello svolgere il tema “Una moneta parla, dice…” compresi di quale grande facoltà e potere si trattasse. Non lo compresi in modo razionale, ovviamente, ma percependo dentro e fuori di me che lo scrivere portava benessere e anche ammirazione. Il tema fu infatti molto lodato, per la fantasia, la proprietà di linguaggio e la ricchezza lessicale; per la trama così articolata e compiuta, per la capacità di affascinare persino il lettore adulto.
Pensavo di aver perduto quel testo, buttato insieme ai vecchi quaderni; invece alcuni anni fa mia madre lo estrasse dal primo cassetto del suo comò, dove aveva stazionato per più di quarant’anni racchiuso in una busta ingiallita, e me lo restituì. Non era il testo scritto da me sul quaderno, ma una copia battuta a macchina da mio padre sulla sua Olivetti lettera 22, forse per inviarlo ai nonni lontani o semplicemente per conservarlo.
Rileggendolo con una certa emozione, e poi rileggendolo altre due o tre volte, mi resi conto di quanto fosse autobiografica quella storia apparentemente immaginaria. Mi leggevo fra le righe nei numerosi spunti, nelle parole dei personaggi, negli oggetti di contorno. Vi ritrovavo le piccole paure e i piccoli orgogli di una bambina di sette anni, che allora avevo travasato inconsapevolmente nello scritto.
Adesso credo che il periglioso viaggio di questa monetina, che raccontava la sua storia ad un’altra nuova di zecca, all’interno del mio borsellino, anticipasse l’irrequieto percorso che è stato poi la mia vita. Come potevo presagirlo? O è stato l’aver scritto il tema ad averlo determinato? Agli psicologi l’ardua sentenza. Io ho riposto il tema ben ripiegato in quattro dentro la busta e non mi è sembrato il caso di pensarci più.
(Per i curiosi allego il testo in appendice).
La scrittura, ho detto, è una facoltà. Quasi tutti l’abbiamo, adesso che la scolarizzazione si è estesa, è diventata obbligatoria, prolungata e quasi scontata. Chi non studia non si fa strada nella vita, è opinione comune. Giustamente non è bene essere analfabeti, o avere una formazione scolastica ridotta. La facoltà di scrivere, però, per molti si ferma a saper usare la penna quasi esclusivamente per lavoro o per utilità. Tutti scriviamo, firmiamo, compiliamo moduli, mandiamo biglietti d’auguri e talvolta lettere a parenti, amici e fidanzati. Ma se viene meno l’occasione, la scrittura viene riposta come cosa non necessaria.
La facoltà di scrivere è qualcosa di diverso, qualcosa che raramente si impara a scuola. A scuola si impara a comporre un tema, a fare un commento, adesso anche a scrivere una fiaba o un articolo, ma sempre a livello di esercizio, quando non di compito imposto, e quasi mai, per quanto mi risulta, viene suggerito che la scrittura è una facoltà legata alla nostra interiorità, al mondo misterioso che si agita dentro di noi sotto forma di pensieri, emozioni, desideri, sogni. Questo mondo intimo e riservato, da non esternare. Da lasciar stare, a scanso di pericoli che è più prudente non evocare. Per cui la maggior parte di noi accantona la sua capacità di scrivere e si dedica ad altro, a meno che, per qualche fortuita combinazione o per una propria inclinazione allo scrivere, non capiti di introdurre la scrittura nella quotidianità, o almeno nell’eccezionalità di momenti o eventi particolari. In questi ultimi casi la scrittura quasi si impone per forza propria, si propone come strumento di salvataggio, come valvola di sfogo o come mezzo di autoanalisi. Vi ricorriamo cioè quasi senza pensarci, meccanicamente, obbedendo ad un istinto urgente quanto autorevole, a cui non ci si può sottrarre. In quel momento la scrittura, che sia l’inchiostro che esce dalla biro con fluidità, o il segno che compare sullo schermo del computer – ma nelle emergenze di solito è preferibile la penna sul foglio di carta, lasciando la tecnologia per attività più strutturate – in quel momento la scrittura diventa un filo che compone parole, un filo prolungamento di noi stessi. Non solo, diventa l’emanazione di una parte di noi estremamente delicata, fragile, madreperlacea come una bolla di sapone, e nello stesso tempo opaca, solida e dotata di un’anima d’acciaio come la Tour Eiffel. Qui non si pone il problema se ciò che scriviamo sia “vero” o “falso”, si tratta solo di obbedire all’impulso che ci impone di liberare i movimenti interiori. Si tratta di riconoscere che vi sono questi movimenti interiori e che, se non li scriviamo… cosa può succedere?
Più comunemente le persone raccontano oralmente. Il filo in questo caso non è più la scrittura ma la voce, il pensiero fatto di parole, come la scrittura, ma non materializzato in segni, bensì sublimato in onde. La voce modulata nei toni e nel volume, a volte riscaldata dall’ira, a volte raffreddata dall’odio, o semplicemente illuminata dal piacere di raccontare.
Il racconto orale richiede un ascoltatore in carne ed ossa, che raccoglie le nostre parole e le giustifica, che le rispecchia verso di noi, che le modifica, che interloquendo stabilisce una relazione e con essa ci aiuta o ci danneggia, chissà – dipende da impercettibili fattori che producono equilibrio o squilibrio, quali che siano le intenzioni del nostro confidente o anche se egli non ne ha affatto.
Avere un ascoltatore, in ogni caso, ci allontana dalla solitudine, scrivere ci sospinge verso di essa. Si dice comunemente che scriviamo sempre per qualcuno, al limite per noi stessi, e anch’io penso che sia così, ma in ogni caso è ben diverso che il destinatario delle nostre parole sia presente o assente. E scrivere a se stessi, poi, è il massimo della circoscrizione: da me a me, dall’altro me a me, quasi racchiusi in un punto.
Raccontare a qualcuno o scrivere in solitudine sono due cose ben diverse; sono processi diversi, mentalmente, emozionalmente. La scrittura implica un bisogno di esaminarsi, di riflettere su di sé, che compare più raramente nel racconto orale. Con questo ci mostriamo agli altri, con la scrittura vo-gliamo scoprirci per noi stessi. È un momento di raccoglimento, un’autorizzazione che ci diamo ad accedere a parti di noi solitamente più nascoste, che nel raccontare ad altri possono anche non emer-gere, e quando emergono è quasi una svista. Nella scrittura la finalità, consapevole oppure inconscia, è quella di avvicinarci alle nostre zone misteriose, di inoltrarci nel dedalo dei nostri percorsi interiori, forse di toccare, cautamente e con circospezione, quel punto pulsante o dolente proprio lì, al centro del labirinto. La scrittura è il filo di Arianna che ci permette di entrare e poi di uscire, senza restare intrappolati e prigionieri.
Dopo il tema elogiato, ritornai alla scrittura interiore verso i dodici anni, quando cominciai a scrivere un diario quasi quotidiano. Diario di bambina, fatto di piccole annotazioni, che pian piano si tra-sformò in uno strumento di esplorazione di me stessa, dei miei bisogni di adolescente, delle mie emozioni, degli interrogativi che andavo formulando su me stessa e la mia vita. Diario abbandonato e poi ripreso a fasi alterne: abbandonato quando la vita si faceva più serena, più piana e forse persino monotona; ripreso quando la vita si animava, colorandosi di tinte allegre o immergendosi in crisi di malinconia. La scrittura diventava così veicolo della mia contentezza o delle mie delusioni, la tessitura della trama dei fatti con l’ordito dei sentimenti, che dava corpo alla mia vita interiore, che la univa alla realtà.
Solo quando fui più avanti nell’esistenza, sia in senso temporale che in senso esperienziale, scoprii che la scrittura poteva assumere diversa forma, tornare racconto come nel tema scolastico, pur significando me. Cominciai quindi a scrivere di momenti cruciali che mi accadevano, come se la protagonista fosse un’altra, una donna diversa da me ma che mi somigliava; che viveva la mia esperienza ma poi procedeva sola inoltrandosi in un terreno nuovo, che io non avevo conosciuto. Attraverso di lei esploravo dimensioni ulteriori, ulteriori possibilità, sviluppi e risoluzioni, senza farmi male. E il capitolo successivo riprendeva il filo, riallacciava un’esperienza all’altra, mi guidava avanti, mi suggeriva il percorso.
Non più una scrittura diretta, che sgorgava dal mio sentire, ma una scrittura mediata che attutiva le percezioni, che conteneva la sofferenza, che dissipava i dubbi a poco a poco. Una scrittura gradevole, liberatoria, quasi ridente, con quel tocco di compiacimento tipico degli scrittori.
Per chi ha avuto la fortuna, come me, di trascorrere la vita in compagnia della scrittura, è evidente che essa fa parte delle risorse a disposizione dell’essere umano per restare in buona salute. Alla sana alimentazione, al giusto riposo, al movimento fisico potremmo e dovremmo affiancare la scrittura come abitudine quotidiana, o anche come pratica episodica, in grado di tenerci a contatto con noi stessi.
Così come a volte siamo lontani dal nostro corpo, al punto di non sentirlo e non ascoltarlo più, siamo ancora più lontani da quel bisogno di accarezzare il lato nascosto di noi stessi, di tenerci in contatto con esso. La scrittura ci avvicina a questo lato nascosto, ed è un modo per accarezzarlo, per prendersene cura, per risanarlo se necessario.
Sta crescendo l’interesse e lo studio della scrittura come strumento terapeutico – per esempio la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari ha promosso un simposio scientifico sul tema “Scrittura clinica e terapeutica ” – e probabilmente col tempo queste indagini porteranno a nuove ipotesi, sperimentazioni e teorizzazioni, estendendo l’uso e la pratica della scrittura anche in questo campo. Ciò è auspicabile, proprio per il fatto che la scrittura è strettamente connessa alle energie dell’essere umano – alle emozioni, alla psiche, all’affettività, alle capacità comunicative e così via – ma quello che personalmente mi auguro è che la scrittura non diventi semplicemente un “metodo”, ma che venga sentita e riconosciuta da qualsiasi uomo o donna come uno stupendo strumento di conoscenza di sé.

UNA MONETA PARLA, DICE…

Un giorno la mamma mi consegnò un biglietto da mille, mi disse cosa dovevo fare e uscii.
Dopo aver fatto due commissioni, andai dal cartolaio a comprare alcune cosette per la scuola.
Il cartolaio mi diede di resto cento lire lampanti, con dei riflessi argentei. Misi la moneta nel borsellino insieme ad un’altra moneta e, dopo un po’, udii un tintinnio.
Erano le due monete e quella nuova diceva: «Sai, mi chiamo Febbraietta. È poco che sono stata coniata ed è per questo che sono così scintillante».
«Che bel vestito!» sospirò l’altra. «Io invece ho già girato tanto e sono tutta sporca: guarda le mie decorazioni, sono scure, mentre le tue…».
«Raccontami la tua storia» disse Febbraietta, e l’altra raccontò:
«Anch’io ero come te, poi dal cambiavalute fui consegnata, insieme ad altre monete, ad un inglese che possedeva un pastore scozzese bianco e marroncino, dal muso aguzzo.
L’inglese girò insieme al cane per l’Italia e io restavo al buio nel borsellino aspettando di essere data a qualche negoziante italiano. E accadde proprio così: a Roma l’inglese mi diede ad un salumiere in pagamento di un panino col salame.
Venne al negozio una signora con due bei bambini e acquistò prosciutto, formaggio e ricotta che piaceva ai piccoli.
Giunti presso la fontana di Trevi, il più piccolo volle gettarmi nell’acqua, evidentemente doveva partire e voleva ritornare nella splendida città.
Venni tratta dal borsellino e dopo un breve sguardo intorno… pluf in acqua!
Però! Era bello là sotto, con le altre monete e, vicino ai getti, l’acqua che gorgogliava inabissandosi.
A sera, alcune ombre furtive si avvicinarono alla fontana e una mano mi afferrò. Ah! birbante d’un ragazzo, vieni a prendere insieme ai compagni le monete alla fontana!
Per farlo apposta, gli scivolai dalle mani e rotolai, rotolai in un tombino e l’acqua mi trascinò via.
Qua e là qualche topo di fogna e odore tutt’altro che gradevole.
Forse è stato proprio questo insolito viaggio a conciarmi così.
Insomma, dopo tanto viaggiare, giunsi al mare.
Fui trascinata dalle correnti marine che fluttuavano e spumeggiavano. Che meravigliosi spettacoli! Pesci variopinti, alghe, oh! un banco di corallo!
Ma… più in là ci sono uomini che lo pescano.
Mi sentii afferrare e, guardando in su, vidi un viso incorniciato dalla barba nera, due occhi azzurri e una carnagione abbronzata.
Sott’acqua era tutto scuro in quel momento perché era appena l’alba ma poi, man mano che salivo, vedevo da uno spiraglio i raggi del sole penetrare e ancora su, su, su…
Finalmente emersi e vidi dinanzi a me lo splendido golfo di Napoli.
Dalla mano del pescatore finii in quella del padre che era medico e che partì proprio per Genova dove si doveva incontrare con un altro dottore.
Qui a Genova, acquistò dal cartolaio di via Fieschi una biro da cento lire e la pagò con me.
Il cartolaio mi diede a sua volta, insieme a te, a questa bambina che ci tiene chiuse in questo borsellino. Chissà quando ricominceremo il nostro giro?».
«Ma almeno siamo di utilità agli uomini che purtroppo tante volte ci tengono chiuse nelle casseforti in banca!» disse Febbraietta.
«Ma guarda un po’» dissi alla mamma quando giunsi a casa. «Non sapevo che le monete sapessero parlare!».

Di Patrizia Petrosino


Share This