Questo frammento di analisi viene dato per illustrare la posizione depressiva, così come può emergere nel corso di un’analisi.
Il paziente è un uomo di 30 anni, sposato e con due bambini. Era stato in analisi con me per un certo periodo durante la guerra; aveva dovuto interrompere il trattamento per via della situazione bellica, non appena aveva migliorato qual tanto che gli permetteva di lavorare. In questo primo periodo prevaleva uno stato di depressione a forte tonalità omosessuale, senza però che vi fosse omosessualità manifesta. Si trovava in uno stato di confusione e si sentiva irreale. Pur migliorando clinicamente fino a essere in grado di lavorare in un’industria bellica, non aveva raggiunto se non un mediocre grado di comprensione intuitiva (insight) [1].
Le sue buone capacità intellettive gli permettevano di fare giochi di prestigio con i concetti astratti e con le speculazioni filosofiche, per cui egli veniva considerato un uomo interessante e con idee originali, allorché si trovava in conversazioni ad argomento serio.

Si laureò nella stessa professione del padre, ma ciò non lo soddisfaceva. In un secondo tempo studiò medicina, indubbiamente per potere continuare ad usarmi (inconsciamente) come immagine paterna, per rimpiazzare quella del proprio padre che era morto.

Si sposò, e nel fare ciò offrì a una ragazza, che ne aveva bisogno, l’occasione di una terapia attraverso la dipendenza. Sperava (inconsciamente) che, in questo matrimonio, egli stesso avrebbe potuto trovare aiuto mediante la dipendenza, ma, come spesso accade, nel momento in cui, a sua volta, egli si aspettò di trovare in sua moglie una particolare indulgenza nei suoi confronti, ciò non avvenne. Per sua fortuna, essa si rifiutò di fargli da terapeuta, e fu in parte il suo riconoscere questo che lo portò ad una nuova fase della malattia. Egli si scompensò sul lavoro (lavorava come medico in un ospedale) e fu ricoverato in un ospedale psichiatrico per via del suo senso di estraniamento per una sua generale incapacità a fare fronte al lavoro e alla vita.

Non sapeva, nel momento in cui ciò accadeva, che quello che lui andava cercando era il suo antico analista; d’altra parte, non era neppure in grado di chiedere esplicitamente una analisi. Come apparve dopo, questo era però ciò che lui stava esattamente facendo, e null’altro avrebbe avuto valore per lui. Dopo circa un mese della nuova analisi, egli fu in grado di riprendere il lavoro in ospedale.

A questo punto egli era schizoide. La sorella aveva sofferto di una condizione schizofrenica, trattata con notevole successo mediante la psicoanalisi. Venne in analisi dicendo che non poteva parare liberamente, e che non riusciva ad avere un linguaggio implicito e a dire banalità, che non aveva alcuna capacità immaginativa o ludica, e non era capace di gesti spontanei e di provare emozioni. All’inizio, tutto quel che si può dire di lui è che egli veniva in analisi e parlava. Il suo linguaggio era deliberato e retorico. A poco a poco divenne chiaro che egli ascoltava delle conversazioni interne, e che, di queste, riferiva in analisi quelle parti che riteneva potessero interessarmi. Col tempo, si può dire che egli portava se stesso in analisi e parlava di sé come una madre o un padre avrebbero potuto portare da me un bambino e parlato di lui. In queste prime fasi (che durano sei mesi) io non ebbi modo di conversare direttamente con questo bambino (se stesso)[2].

La evoluzione dell’analisi in questo stadio è stata oggetto di descrizione in altra sede [3]. In seguito l’analisi, attraverso una modalità del tutto particolare, cambiò di qualità, in modo tale che io ho potuto trattare direttamente quel bambino che era il paziente.

Questa fase si chiuse nettamente a un certo punto, e il paziente disse che ora era lui stesso che veniva a farsi curare, e che, per la prima volta, egli nutriva una speranza. Adesso era più che mai consapevole di essere incapace di provare emozioni e di mancare di spontaneità. La moglie non aveva colpa se lo trovava un compagno noioso, poco vivace, tranne che in discussioni serie, dove però l’argomento fosse introdotto da altri. La sua virilità non era in realtà disturbata, ma egli non era in grado di fare l’amore, e, in linea generale, di eccitarsi sul piano sessuale. Aveva un figlio, e ne avrebbe avuto un secondo in seguito.

In questa nuova fase dell’analisi, il materiale ci ha condotto gradualmente ad una nevrosi di transfert di tipo classico. In seguito, egli ha avuto un breve periodo che ovviamente lasciava intendere un certo eccitamento di natura orale. Questo eccitamento non venne provato come tale dal paziente, ma fu proprio questo che portò al lavoro che sarà descritto in dettaglio dal resoconto che segue. I miei appunti si riferiscono al lavoro analitico fatto proprio nel periodo in cui tale eccitamento era intervenuto nel transfert, senza però essere sentito dal paziente, e conducono alla sua esperienza di questo eccitamento.

La prima manifestazione di questo progresso venne riferita dal paziente allorché egli parlò di un sentimento del tutto nuovo, un sentimento di affetto per la figlia. Questo sentimento egli aveva sentito tornando a casa, dopo avere visto un film il quale egli si era trovato a piangere. Due volte in quella settimana aveva pianto, e ciò gli sembrava un buon auspicio, dal momento che egli era stato fino ad allora assolutamente incapace sia di piangere che di ridere, così come era stato incapace di volere bene.

Per forza di circostanze, il paziente non venire in analisi che tre volte la settimana, ma io avevo accettato questo ritmo, perché era un’analisi che procedeva bene, ed anche rapidamente.

Tutto l’insieme di questo materiale porta al complesso edipico che raggiunge il suo pieno sviluppo nell’ultima seduta.

Giovedì 27 Gennaio.

PAZIENTE: Il paziente dice che non ha molto da riferire, se non che aveva avuto la tosse. Si trattava senza dubbio di un banale raffreddore. Tuttavia si era trovato a pensarci in termini di tubercolosi; aveva così preso in considerazione, nella sua mente, il vantaggio che gli sarebbe derivato qualora avesse dovuto andare in ospedale. Avrebbe potuto dire alla moglie: “Ecco dove mi trovo…”.

ANALISTA: Diverse interpretazioni sarebbero state possibili a questo punto, ed io ho scelto la seguente. Gli ho detto che ciò che lui lasciava in disparte era il rapporto tra questa malattia e l’analisi. Ho ragionato in funzione della interruzione che si sarebbe resa necessaria. Ho detto che non ero affatto sicuro che questo aspetto del tutto superficiale delle conseguenze costituisse la parte essenziale della sua angoscia.
Al tempo stesso ho trattato la cosa sul piano di realtà, dicendogli che io mi rimettevo a lui. Egli si rendeva conto che desiderava vedermi trattare la cosa come materiale da analizzare, e che non desiderava che io partecipassi alla diagnosi.

PAZIENTE: Dopo la mia interpretazione disse che, in realtà, non era l’idea di una tubercolosi, ma piuttosto quella di cancro polmonare che gli era venuta.

ANALISTA: Disponevo ora di un materiale più importante e glielo interpretai, dicendogli che mi parlava di suicidio. Era come se fosse un suicidio al cinque per cento. Dissi: “Credo che lei non abbia mai dovuto far fronte a un impulso suicida, nella sua vita, non è vero?”.

PAZIENTE: Dice che questo è vero solo in parte. Aveva minacciato la moglie che si sarebbe suicidato, ma in verità non ci pensava seriamente. Ciò non aveva avuto molta importanza. C’erano stati invece dei momenti in cui aveva avuto il sentimento che il suicidio facesse parte integrante di tutta la storia; e, comunque, sua sorella aveva tentato due volte di suicidarsi; si trattava di tentati suicidi, che non erano fatti per riuscire, ma, tuttavia, egli aveva visto a che punto il suicidio potesse essere reale, anche se non ritrattava di un impulso che coinvolgeva la personalità tutta intera.
Connette questo con la barriera che egli sentiva di dover superare, per potere andare avanti e progredire.

ANALISTA: Gli ricordo (l’aveva dimenticato) di avere avuto il sentimento che una persona fosse lì per impedirgli di superare la barriera.

PAZIENTE: Dice che per lui la barriera era un muro che si doveva abbattere, altrimenti vi avrebbe cozzato contro; e per sormontare l’ostacolo egli aveva la sensazione che fosse necessario che lo si portasse fisicamente.

ANALISTA: Gli dico che, secondo ogni evidenza, il suicidio si frapponeva tra di lui e il suo stato di sanità, e che io dovevo saperlo, e dovevo fare sì che lui non morisse.

Un silenzio

PAZIENTE: Parlò del suo ritardo, diventato un tratto caratteristico negli ultimi tempi. Di fatto, era accaduto qualcosa di nuovo; avrebbe potuto venire in tempo se avesse lasciato da parte il suo lavoro, e avrebbe potuto perfino perdere un quarto d’ora, ed essere preciso. Ma ora dava più importanza al lavoro, e terminava ciò che stava facendo prima di venire. Con un po’ di fortuna avrebbe potuto arrivare in tempo. Secondo lui, l’analisi era diventata meno importante del lavoro, in certo senso.

ANALISTA: Ho fatto una interpretazione raccogliendo il materiale delle sedute precedenti e sottolineando il fatto che per me era più facile, che per lui vedere questo materiale nel suo insieme. In un primo tempo, egli non aveva potuto che contribuire all’interno di sé, facendo l’analisi; in seguito egli era stato in grado di contribuire all’interno dell’analisi, e ora poteva contribuire all’analisi nell’ambito del suo lavoro professionale. Ho messo in rapporto ciò con la consapevolezza che sottende tutta questa fase, suicidio compreso. Gli ho ricordato che ciò a cui l’analisi porta è un eccitamento accompagnato dall’istinto, il che comprende l’atto del divorare. In effetti, se non si scoprivano le pulsioni e la potenzialità costruttiva, il senso di colpa per la brutale distruzione era, a questo punto, intollerabile[4].

PAZIENTE: L’effetto di queste interpretazioni si manifestò nell’osservazione che seguì, allorché egli, assai più a suo agio, disse: “Penso ora alla malattia in un modo divertente: potrebbe essere morbillo, una malattia da bambini”.

ANALISTA: Gli feci notare che si era prodotta una modificazione, dal momento che gli avevo tirato fuori la comunicazione del suicidio che si nascondeva sotto le fantasie di malattia.

PAZIENTE: In seguito a ciò disse che per la prima volta aveva sentito che, se ne avesse avuto l’opportunità, avrebbe potuto servirsi di un’avventura per bilanciare l’infedeltà della moglie.

ANALISTA: Gli feci notare che questo atteggiamento indicava una attenuazione degli elementi di dipendenza nel rapporto con sua moglie, dopo che essi si erano addensati nell’analisi.

Settimana che seguì il 27 Gennaio.

ANALISTA: La relazione di tre sedute è condensata in quanto segue.

PAZIENTE: Il paziente riferì che prima della seduta precedente, egli era effettivamente andato a letto con la sua amica. Era accaduto dopo una festa. Non aveva provato alcun sentimento. Disse che avrebbe potuto accadere in qualunque momento, anche se non fosse stato in analisi. Non aveva provato amore (non aveva avuto disturbi della potenza).
Tutta questa seduta fu incolore, e inconsciamente il suo scopo era di far sentire all’analista che ciò che avveniva era senza importanza.
Dopo di che raccontò che egli si era aspettato un risultato spettacolare. Si era aspettato che io sapessi (senza avermelo detto) che aveva vissuto un’esperienza in cui vi era stato eccitamento. L’informazione venne dapprima in forma indiretta.

ANALISTA: Gli feci notare che aveva riferito ciò che era accaduto in maniera così vaga che io non avevo potuto servirmene. Ero ora nella posizione di interpretare il significato transferale dell’incidente e cominciai col dire che l’amica rappresentava lui stesso, per cui, in questa avventura, egli aveva avuto, in quanto femmina, dei rapporti sessuali con me in quanto partner maschile.

PAZIENTE: Accettò a metà questa interpretazione, me ne fu dispiaciuto perché non conteneva alcuna naturale evoluzione.

ANALISTA: Il giorno seguente era depresso, ed io feci una nuova interpretazione, dicendo che quella precedente era ovviamente sbagliata. Gli dissi che la ragazza era l’analista (nella nevrosi di transfert).

PAZIENTE: Seguì un immediato sollievo. L’interpretazione condusse al tema della dipendenza e non a quello dell’esperienza erotica.
Fu allora che l’analisi uscì dalla fase difficile che si era protratta per tutta la settimana, e il rapporto che si stabilì con me fu così intenso da spaventare il paziente.
La questione che egli poneva era: “E’ lei in grado di sopportarlo?”. Parlò in particolare di suo padre, tra le persone dalle quali aveva cercato il diritto di essere dipendente. Il padre lo aiutava fino a un certo punto, ma poi sempre lo riconsegnava alla madre. La madre non serviva, poiché aveva già fallito nel suo compito (vale a dire nella prima infanzia del paziente).

ANALISTA: Feci un’altra interpretazione alla quale dovetti rinunciare perchè, a giudicare dall’effetto, era errata. Gli ricordai la versione femminile di sé che aleggiava intorno al suo sé maschile, per tutta la sua fanciullezza, e gli feci notare l’equivalenza della mia nuova posizione nelle nevrosi di transfert con questo sé adombrato di femminile. Dopo avere ritirato questa interpretazione mi resi conto di quella corretta. Gli dissi che ora, finalmente, il pollice aveva ricominciato a significare di nuovo qualcosa per lui. Egli aveva succhiato insistentemente il pollice fino all’età di 11 anni, e sembrava verosimile che vi avesse allora rinunciato perché gli mancava qualcuno intorno che stesse per quello.
Questa interpretazione del pollice era certamente corretta; tra l’altro essa produsse un cambiamento nei movimenti della mano, che erano molto stereotipi. Per la prima volta in tutta l’analisi, e senza rendersene conto, egli sollevò nell’aria il pollice della mano sinistra e lo portò verso la bocca.

NOTE:

[1] Il termine inglese insight è difficilmente traducibile. In psicoanalisi esso si riferisce alla “capacità” di capire i propri moventi, di essere consapevoli della propria psicodinamica, di rendersi conto del significato del comportamento simbolico”. Cfr. C. Reycroft, Dizionario critico di Psicoanalisi, a cura di E. Gaddini, Astrolabio, Roma, 1970 (N.d.T.).

[2] Cf. “Le forme cliniche del transfert” (1956), in Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martelli 1975, pagg.351-356; e “Distorsioni dell’Io in funzione di un vero de di un falso Sé” (1960), in Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma, 1970.

[3] Cf. “Ritiro e regressione” in Dalla pediatria alla psicoanalisi, pagg. 305-312, Martinelli, 1975, pagg. 305-312.

[4] Cf. “Elaborazione della capacità di preoccuparsi”, in Sviluppo affettivo e ambiente

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