Il mistero del masochismo in amore: l’eterna storia di Adele H.

Che il meraviglioso film di Truffaut Adele H. sia sottotitolato “una storia d’amore” mi ha sempre reso molto perplesso, perché mi sembrerebbe più opportuno sottotitolarlo come “una storia di ordinaria follia”. A dire il vero, questo sottotitolo è stato aggiunto dalla distribuzione italiana e non è presente nell’edizione originale: si tratta comunque di una forma di manipolazione (o di propaganda) molto significativa. Dire che Adele si sia rovinata a causa dell’amore sarebbe come dire che Hitler ha rovinato il mondo a causa della politica e non della propria follia e della follia di coloro che gli sono andati dietro. Eppure il suggerimento contenuto in quel titolo non è un caso isolato e, a conferma di ciò, vorrei citare l’esempio di un libro che riscosse molto successo negli anni ’90 (cinque milioni di copie venduti in tutto in mondo), Donne che amano troppo (Robin Norwood, Universale Economica Feltrinelli). Ecco di nuovo un titolo che contiene esattamente lo stesso equivoco di spacciare la patologia dell’amore per un eccesso d’amore.

L’unica cosa che so della vera Adele, autrice dei diari dai quali Truffaut ha tratto la sceneggiatura per il suo film, è che non fu mai riconosciuta dal celebre padre Victor Hugo. Ma non ho elementi e nemmeno interesse per indagare sulla tragica vicenda personale di quella povera donna. Preferisco dedicare la mia attenzione al caso generale delle tante Adele H. che hanno vissuto una vita infelice e di quelle che ancora oggi circolano così numerose intorno a noi. Certo, per associazione d’idee, mi viene in mente che alla figlia di Joyce fu affibbiata una bella diagnosi di schizofrenia, segno che nemmeno quest’altra figlia di padre celebre se la passava tanto bene e si potrebbe forse ipotizzare che un padre troppo preso da se stesso e dalla propria creatività non riesca a prestare attenzione e cure sufficienti alla prole, ma nemmeno questo mi pare un argomento da generalizzare o da prendere troppo sul serio.

La verità è che, quando si ha una storia negativa con esperienze d’indifferenza o maltrattamenti, il bisogno di ricreare quelle circostanze, nel tentativo di padroneggiarle psicologicamente, può presentarsi nella vita delle persone in maniera piuttosto insistente, per non dire tragica. Questa osservazione, ripetuta infinite volte da generazioni di psicoanalisti nel corso della storia della loro disciplina, fu compiuta per la prima volta da Freud in persona. Ma perché il maltrattamento precoce, tra le infinite conseguenze cui può dare origine, produce così spesso masochismo? Per Freud questa domanda si restringeva ad una questione ancora più essenziale: “perché il masochismo?” Il fatto è che per lui, a partire dal suo tentativo di spiegare tutta la vita psichica sulla base del principio del piacere e del principio di realtà, quel frequente atteggiamento mentale costituiva qualcosa di assolutamente inspiegabile. Come molti sanno, la sua soluzione fu quella d’ipotizzare l’esistenza della “coazione a ripetere”, basata sull’idea di un istinto di morte, presente in maniera maggiore o minore nella psiche di tutti, e di un masochismo primario che ne costituiva un’emanazione diretta.

Se però, invece di restringere il campo di osservazione, nel tentativo di scomporre la complessità della psiche secondo il programma del riduzionismo naturalistico, se procedendo in direzione diametralmente opposta allarghiamo il campo fino a porci nella prospettiva adatta per cogliere nessi di più ampio respiro e ci collochiamo in un’ottica relazionale, ecco che anche il grande mistero del masochismo diventa subito meno misterioso.

Un’importante spiegazione relativa al cosiddetto “masochismo morale” (ma non solo a quello) è stata il cavallo di battaglia della battagliera Alice Miller che non perdeva occasione per ribadire come il bambino maltrattato preferisca pensare che il genitore lo tratta in quel modo per correggerlo e non per inadeguatezza o semplice cattiveria, in modo da poter conservare l’illusione di essere comunque amato dalla persona dalla quale dipende interamente la propria vita. Sviluppare il senso di colpa è stato da sempre, secondo la Miller, il principale meccanismo di difesa che ha consentito all’umanità di sopravvivere moralmente ad ogni sorta di maltrattamento precoce (Alice Miller, Il dramma del bambino dotato, Boringhieri).

Per avvicinarci ancora di più alla psicologia del cosiddetto troppo amore, o meglio dell’amare chi non se lo merita o addirittura si approfitta di noi e ci maltratta, per venire cioè alle tante Adele H. (maschi o femmine che siano) che si auto-condannano a una bassissima qualità di vita, non saprei fare di meglio, altro che riportare e sottoscrivere in pieno le illuminanti spiegazioni di Nancy McWilliams (La diagnosi psicoanalitica, Astrolabio):

Laddove i depressi sentono che non c’è nessuno a confortarli, i masochisti sentono che se riescono a dimostrare a sufficienza il loro bisogno di compassione e di tenerezza non subiranno un abbandono emotivo totale.

In un interessante progetto di ricerca sulla psicologia delle donne che sono ripetutamente oggetto di gravi maltrattamenti e violenze, ossia quelle donne che fanno disperare il personale dei centri di accoglienza perché continuano a tornare da partner che non smettono di massacrarle, Ann Rasmussen ha appreso che queste persone gravemente a rischio temono l’abbandono molto più del dolore o perfino della morte. Così scrive:

Quando vengono separati dai loro aguzzini, molti di questi soggetti sprofondano in un abisso di disperazione talmente acuta da cadere nelle depressioni gravi e non riuscire più ad avere un funzionamento normale. Molte riferiscono di essere incapaci di mangiare da sole, di scendere dal letto e di interagire con gli altri. Come ha espresso uno di questi soggetti: “Quando eravamo separati non sapevo più come affrontare la giornata… il mio corpo dimenticava come si fa a mangiare, ogni boccone era come un sasso nello stomaco”. Gli abissi in cui affondavano quando erano sole non erano confrontabili con nessuno stato di disagio vissuto insieme ai loro compagni violenti (“Chronically and severely battered woman: a psychodiagnostic investigation”. Graduate School af Applied and Profesional Psychology. Rutgers University).

E qui finalmente si chiamano le cose col loro nome, perché il vero nome della follia, come dice George Atwood (L’abisso della follia, Giovanni Fioriti Editore; vedi la mia recensione su questa rivista in data ottobre 2017) è abisso: l’abisso nel quale ciascuno di noi, in determinate circostanze sfavorevoli, potrebbe sciaguratamente scivolare.

Alberto Lorenzini
alberto.lorenzini@gmail.com


L’Histoire d’Adèle H.

Adele H. Una storia d’amore

Di François Truffaut

Soggetto: dal libro di Fances V. Guille “Le journal d’Adèle Hugo”. Sceneggiatura: François Truffaut, Jean Grualt, Suzanne Schiffman. Fotografia: Nestor Almendros. Montaggio: Yann Dedet. Musica: Maurice Jaubert (diretta da Patrice Mestral). Suono: Jean-Pierre Ruh.
Francia, 1975.

Interpreti principali: Isabelle Adjani (Adèle), Bruce Robinson (Tenente Pinson), Sylvia Marriot (Signora Saunders), Joseph Blatcley (Il libraio).

“Nei temperamenti sottili e finemente educati le forti passioni uccidono l’individuo se non
vengono uccise. I dolori moderati e i piccoli amori sopravvivono. Ma i grandi amori e i dolori veri si annientano per la loro stessa intensità”
Oscar Wilde. Detti e aforismi

La locandina del film

Nel 1863, una giovane donna sbarca ad Halifax, posto di rifugiati politici e di sbandati della Nuova Scozia, in Canada. Presentandosi sotto falso nome, trova alloggio presso una coppia di anziani coniugi. Il suo comportamento è riservato e misterioso; ma presto si scopre che è intenzionata a ritrovare le tracce di un certo Tenente Pinson, ufficiale inglese di stanza nella guarnigione dell’isola. Mentendo (ne parla, di volta in volta, come di un cugino, o cognato della sorella o fidanzato di un’altra parente), riesce infine ad avvicinarlo. L’incontro non sortisce l’effetto sperato. Il Tenente fa capire che, se qualcosa tra loro c’è stato, ora è tutto finito. Adele non desiste. Sconvolta, prende a seguirlo, a spiarlo, a perseguitarlo con offerte di denaro e, persino, di una prostituta. Intanto, a poco a poco, scopriamo trattarsi della figlia minore di Victor Hugo, fuggita di casa contro la volontà del padre. Adele, nel tentativo di legare a sé Pinson, giunge a far pubblicare un immaginario annuncio di matrimonio, a progettare di farlo ipnotizzare per carpirne il consenso. Venuta a conoscenza del fidanzamento di Pinson con una benestante fanciulla del luogo, si finge incinta di lui e gli manda all’aria il matrimonio. Quando Pinson, ormai al limite della sopportazione, si trasferisce con il suo reggimento alle Barbados, Adele parte a sua volta per raggiungerlo. Ma la fatica finisce per aver ragione della ragazza, così duramente provata da un’esistenza ingrata e, negli ultimi tempi, anche miserabile. Una donna di colore del luogo, madame Baa, la raccoglie per strada priva di sensi. Si prende cura di lei, provvedendo infine al suo rimpatrio. Ricoverata in una casa di cura per ammalati psichiatrici, Adele vivrà pazza fino a 85 anni. Verrà sepolta accanto alla tomba della madre e della sorella Leopoldine (1).

I titoli di testa ci fanno entrare subito nel clima dell’opera. Le immagini di fondo rappresentano architetture severe, si tratta di pitture e disegni. Le luci sono tenebrose su toni grigio-scuri, castelli in rovina, sagome femminili bianco su nero, fortezze nella luce notturna. Sono disegni di Victor Hugo, il padre di Adele (2) e, come prefazione iconica, antepongono alla vicenda un’ipoteca paterna di oppressione. Soltanto il nome di Isabelle Adjani è sotteso ad un’onda marina e la riempie all’interno e che ricorda “La grande onda di Kanagawa” di Hokusai.

La prima sequenza, lo sbarco di Adele ad Halifax, in cerca del Tenente Pinson, è emblematica di tutto il film. E’ notte, si incomincia ad intravedere, nel nero delle acque, la barca che porta i passeggeri dalla nave alla banchina del porto. L’unico punto illuminato è il volto di Adele (3), bianco, poco truccato, primo fotogramma del “volto che guarda” e che “viene guardato”, espediente cinematografico dell’isolamento della protagonista dalla realtà circostante, che vorrebbe costruire a sua misura. Soltanto nelle ultime sequenze, quando la vicenda si trasferisce alle isole Barbados e la pazzia si è impadronita completamente di Adele, la realtà, il paesaggio in luce e le figure umane, prendono il loro posto nel mondo, mondo che la figlia di Victor Hugo ha perso per sempre.

I rimanenti quadri del film, che procede con ritmo statico, atemporale, sottolineato soltanto dall’esasperata soggettività di Adele, costruiscono un personaggio mascherato e disperato, aggressivo e vittima di una lotta implosa per una emancipazione dalla figura paterna ingombrante che non ha mai avvertito come base sicura della sua vita.

Identificazione ed espulsione (separazione fallita) del padre vanno di pari passo con la persecuzione nei confronti di Pinson, figura e non persona, che le serve come traghettatore di una vita sua, …affermatasi soltanto, nella mente della protagonista e per i costumi sociali dell’epoca, nella sostituzione di un cognome con un altro. Ipotesi contraddittoria, perché in seguito verrà affermato da Adele che per nulla al mondo vorrà cambiare la sua denominazione di signorina Hugo. Una mancata doppia identificazione, da cui l’Io avrebbe potuto partire— ha fatto precipitare Adele nella spirale della follia, caratterizzata da una psicosi determinata da un amore, o metafora dello stesso, mancante dell’oggetto. Pinson è soltanto uno schermo, non un uomo che fa parte della sua vita con amore, tant’è vero che, nelle intenzioni di Adele, potrà avere amanti o prostitute, anche se la sposerà.

Simile a febbre è l’amor mio, ansioso sempre
di quello che più a lungo alimenta il mio male”.
Shakespeare, sonetto 147

Una possibile lettura “clinica” del personaggio di Adele, senza mettere in ombra come puro pretesto la forma filmica, può venir sostenuta da quell’aspetto della condizione umana che Lacan definisce “preclusione della metafora paterna” (4).

 “Se il padre non occupa il suo post la filiazione simbolica del soggetto, e quindi la sua iscrizione nel mondo degli scambi umani, rimane vuota. Tale decadimento della funzione paterna è quella che Lacan definisce col termine di <preclusione> (forclusion in originale). Impedendo la concatenazione del significante essa rende impossibile il consolidamento di un’identità, la socializzazione del desiderio e la padronanza del linguaggio; eliminando ogni riferimento stabile conduce alla follia. (…) (In Adele H) il padre, lungi dall’essere assente, occupa una posizione culturale di primo piano”(5).

Siamo qui in presenza del “potere del padre”, che impedisce ad Adele di essere sé stessa. Il potere paterno si è trasformato nel mondo vuoto di Adele, che non sarà compensato né da Pinson né da un’identificazione col cognome Hugo (identificazione falsa, perché soltanto altri la riconosceranno in questo modo: il dottore, il libraio, il notaio, Madame Baa alle Barbados).

Si tratta di amore? La distribuzione italiana ha voluto aggiungere al titolo “Una storia d’amore”. Il titolo originale è “L’histoire de Adèle H”. Lo stesso regista ha dichiarato: “Fin dall’inizio faccio capire che è tutto inutile. Il tenente non amerà mai Adele”(6).

Ed è in questo rapporto verso il nulla che consiste la tensione dell’azione filmica. “L’unica risorsa drammatica del film consisterà nel dimostrare che Adele riesce a sopravvivere in una situazione insostenibile”(7). Pinson è un altare dissacrato. Serve ad evidenziare una mancanza primaria, concretizzata nella dissacrazione dell’oggetto d’amore.

La passione serve alla protagonista per rimanere attaccata alla realtà, ma in una modalità che la porterà ad allontanarsene. In lei non è presente nessuna seduzione amorosa, lo stesso corpo è quasi assente, eccetto il volto onnipresente. La lontananza da ogni piacere trasformerà anche il corpo in una specie di struttura artificiale che sorregge il passeggiare senza meta delle ultime sequenze.

“Il nostro desiderio di bere, accarezzare, contemplare, prenderci cura di qualcuno o trascorrere con lui il resto della vita ci sembra assomigliare di più al credere che esistiamo: qualcosa che non abbiamo scelto di sentire e che non possiamo non sentire”.
Ronald de Sousa. Amore. Il Mulino, 2016, pag.66.

Il meccanismo di difesa di Adele è la scrittura, ma anche questa ha una caratteristica ambigua: è un diario, quindi non un genere letterario vero e proprio, ed è scritto in codice, quindi non perfettamente leggibile, non una comunicazione di sé agli altri. Viene spontaneo (arbitrario?) un paragone con la scelta di Emily Dickinson di vivere nel claustrum della sua stanza per anni. La differenza è che la scrittura della Dickinson è poesia, è una creazione, è la salvezza di un’anima insofferente delle ristrettezze dell’epoca. Per Dickinson la scrittura è un’arma di sopravvivenza, per Adele è il testo di una lapide mortuaria.

Quando sentiamo il bisogno di un abbraccio
dobbiamo correre il rischio di chiederlo”
Emily Dickinson

Adele non chiede l’abbraccio a Pinson, anzi spia i suoi abbracci con l’amante. Guarda la scena da lontano, fuori dalla casa dell’incontro dei due, e sorride. Attraverso un’ azzardata critica di matrice psicoanalitica si può interpretare la sequenza come uno sguardo infantile su una costruzione di scena primaria e il tenente come un doppio minore del padre mancante (il cognome di Adele è appena accennato con l’inziale H (il patronimico è un significante senza significato. Significato che invece ha per tutti gli altri personaggi del film).

Il film termina quando Adele non lotta più, l’oggetto Pinson alle Barbados è completamente disconosciuto e la follia avrà campo libero. La realtà, intesa come “ciò che gli altri vedono”, irromperà soltanto verso la luce dell’esterno e del paesaggio che si impossesserà dell’intera scena.

Il tempo fermo della psicosi si evidenzierà, filmicamente, nelle sequenze, che si presentano atemporali e sovrapposte e non in successione. Il passaggio di Adele dalla camminata senza meta alla tomba è un movimento teatrale, come un cambio di quinta durante la recitazione.

“Che l’amore è tutto è tutto ciò che sappiamo dell’amore”
Emily Dickinson

Adèle Hugo ritratta da Louis Boulanger

Adèle Hugo ritratta da Louis Boulanger

  1. La trama è tratta da ALBERTO BARBERA, UMBERTO MOSCA. François Truffaut. Il Castoro Cinema, 1995.
  2. Fino al 3 febbraio (2019), a Roma, a Villa Medici, sede dell’Accademia di Francia, in una mostra collettanea di opere grafiche e pittoriche, dal titolo “Le violon d’Ingres” sono esposti disegni e pitture di Victor Hugo.
    L’8 Dicembre 2018, sul quotidiano “La Stampa”, il giornalista Marco Vallora, con notazioni sui vari autori delle opere esposte, così connotava le opere di Victor Hugo: “…certo a dominare su tutti, è il sommo visionario Hugo, con le sue piovre vivide d’inchiostro, le sue abissali fantasticherie sub-oceaniche, il suo quasi compulsivo traboccare di automatismi grafici e leccornie nichiliste al punto da far ingolosire i Surrealisti”.
  3. Dice Truffaut, a proposito della sceneggiatura di “L’histoire d’Adèle H.” in PAOLA MALANGA. Tutto il cinema di Truffaut. Baldini e Castoldi. 1996. Pag.192. “Non volevo più sentir parlare del sole in un film d’epoca, né del cielo. Il film è diventato così sempre più serrato, claustrofobico; la storia di un viso”.
  4. JACQUES LACAN. Il seminario, Libro III . Le psicosi. Einaudi 1985.
  5. ANNE GILLAIN. François Truffaut. Il segreto perduto. Le Mani. 1995. Pag.239.
  6. ANNE GILLAIN (a cura di). Tutte le interviste di François Truffaut sul cinema. Gremese, 1990, pg.209.
  7. ANNE GILLAIN. François Truffaut. Cit. pag. 238.

Giovanni Lancellotti
giovannilance@alice.it


La Storia di Adele H.

Le immagini di grande bellezza di questo film sono in netta antitesi con la storia raccontata. Molti i particolari biografici con qualche licenza di cui forse dovremmo tenere conto nella lettura dei significati del comportamento della protagonista.

Nel film Adele è giovanissima, nella realtà, all’epoca dei fatti raccontati, era una donna adulta, aveva più di 30 anni in un’epoca storica in cui una donna di quell’età, spesso, era già moglie e madre da molti anni oppure era considerata una “zitella”, con una parola che etichettava. La relazione con la famiglia di origine si intuisce dalle parole delle lettere del padre, dai racconti che lo stesso fa e da alcuni comportamenti della protagonista. Il cambio del nome, la reazione scomposta nei confronti di un ammiratore che, credendo di farle un omaggio gradito, le offre dei libri di suo padre, e, naturalmente, l’ostinazione a non tornare a casa. In questo caso non sappiamo quanto dettata dalla follia del suo attaccamento al tenente Pinson o da un insanabile conflitto con la famiglia.

I problemi legati alla famiglia ci sono e in alcuni momenti filmici, in cui viene magistralmente mostrato l’alto livello di incongruenza, Adele racconta la pena per la morte per annegamento della sorella Léopoldine e, allo stesso tempo, si rammarica di non essere figlia unica.
Possiamo intuire anche la volontà di non essere “la figlia di”, in questo caso dell’uomo più famoso della Francia e non solo. Quanto è difficile non restare schiacciati da una grande personalità genitoriale è un tema ricorrente nella nostra pratica professionale.

In una delle scene finali il regista mette in evidenza la volontà della protagonista di esaltare il coraggio che l’ha portata a lasciare la famiglia e ad attraversare l’oceano, un viaggio che sembra rappresentare più un viaggio alla ricerca della definizione di una sua identità piuttosto che la ricerca di un uomo, quell’uomo a cui si è data credendo che questo li avrebbe legati per sempre, come se avessero stretto un vincolo matrimoniale. Questa parte non è riferita al diario di Adele, da cui è tratto il film, è, invece, una “ nota a margine” che sembra illustrare il punto di vista del regista sulla vicenda che porta questa donna ad attraversare l’Oceano ed a rinunciare ad una vita certamente più comoda e protetta di quella che l’aspetto una volta che è scesa dalla nave, pur di affermare se stessa.
La storia tra Adele e il tenente, ridotta alla sua essenza, somiglia a infinite altre. Si incontra una persona che suscita il nostro attaccamento ed il nostro desiderio. Si entra in una fase magica, almeno per uno dei due, che definiamo innamoramento in cui sia l’uno che l’altro mostrano, spesso, se stessi al meglio delle proprie potenzialità. Non si tratta di una finzione ma della realizzazione di una spinta motivazionale che travalica le eventuali rigidità e difese che tendono a ripresentarsi appena quella spinta diventa meno forte. Sono stati scritti molto libri sull’innamoramento e sull’amore e tutti sappiamo che non sempre l’uno si trasforma nell’altro. Cosa accade, allora, a chi ha creduto in quel sentimento, a chi si è legato a quell’immagine al meglio delle proprie e delle altrui potenzialità? Può subentrare la delusione e lo sconforto, se non addirittura il dubbio di essere stati ingannati ma, molto spesso, avviene qualcosa di diverso. La persona nella coppia che fa fatica a ritrovare l’innamorato a cui si era legata, può continuare anche per tempi molto lunghi a rincorrere l’immagine iniziale, con la convinzione che quella sia la realtà dell’altro e che basterà aspettare che riemerga perché tutto funzioni.

Ad Adele, tra le altre cose, sembra accadere proprio questo. Vive in un passato perduto per sempre, ama una persona che, se mai è stata innamorata, certamente non lo è più ma non c’è umiliazione che basti a farla tornare nella realtà. In alcune scene c’é anche una sorta di compiacimento patologico per il successo che l’oggetto amato riscuote con le altre donne. Tutto diventa possibile pur di riposizionarsi nella relazione perduta. Adele alimenta l’esistenza di quel mondo perduto raccontando bugie a se stessa ed agli altri, prova a forzare la realtà tutto concedendo, alla ricerca del suo paradiso perduto.
La lettura che facciamo nel nostro contesto di appartenenza, che è quello della professione di psicoterapeuta, non può prescindere da un dato a mio avviso essenziale.

Adele non ha interlocutori, non c’è nessuno che con rispetto, accettazione, empatia profonda dei suoi vissuti che sono permeati di paure, angosce, speranze, delusioni, senso di fallimento, l’aiuti a contattare il suo vero sé. Non c’è un terapeuta che la sostenga e l’aiuti ad elaborare la perdita, anzi le perdite, che la faciliti nell’acquisizione di consapevolezza dei suoi bisogni frustrati e dei suoi desideri. Nessuno la può confrontare perché non c’è nella sua vita una relazione autenticamente significativa che le offra la possibilità di creare uno spazio interiore per cercare la propria strada. Un po’ alla volta, Adele sprofonda nella sua solitudine, nessun contraddittorio è possibile, nessuna mano può esserle tesa, nessuna notizia, neanche quella della morte della madre, può essere vissuta pienamente perché la nostra protagonista è chiusa, rigidamente, in uno spazio interiore che molto esclude.

La psicoterapia non è, ovviamente, la panacea di tutti i mali ma, allo stesso tempo, siamo acutamente consapevoli di quanto possa essere utile nei momenti di crisi profonda, lì dove, anche senza scivolare nella follia, corriamo il pericolo di vivere la nostra sofferenza senza darci la possibilità di farla diventare fonte di nuovi apprendimenti che possano cambiare i nostri modelli operativi interni e, cioè, il nostro modo di guardare a noi stessi, alle nostre relazioni con gli altri ed a come le co-costruiamo.

Mariangela Bucci Bosco
mariangela.bucci@gmail.com

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