Prefazione

Nella lunga intervista che Rosella Picchi ha “strappato” a Giovanni Boria c’è una breve storia di un percorso dello psicodramma in Italia: l’iter personale dell’autore si fonde con l’acquisizione dell’esperienza moreniana, con la nascita di una scuola, con la diffusione della disciplina tramite gli allievi.
Accanto alle precedenti puntate sulla teatroterapia, pensiamo che questo approfondimento dello psicodramma (che segue una introduzione della stessa Rosella Picchi nel n. 10) offra uno stimolo ai lettori interessati per iniziare un approfondimento delle loro conoscenze o esperienze in materia.

“Intervista a Giovanni Boria.”

Rosella Picchi

Incontro Giovanni Boria a Sulzano, sul lago di Iseo, dove due volte l’anno tutti gli studenti del corso di specializzazione in psicoterapia psicodrammatica e del corso formatori si ritrovano per approfondimenti teorici.

Quando hai incontrato lo psicodramma?

Bisogna tornare un bel po’indietro, allo Shepard Pratt, un ospedale psichiatrico del Maryland, dove ha lavorato Harry S. Sullivan negli anni 30 e dove lavora mia sorella psichiatra. Sono andato là perché cercavo un’alternativa alla psicoanalisi. Erano gli anni ’70, lavoravo a Milano privatamente in ambito psicoanalitico ed in una scuola speciale come psicologo scolastico. In una scuola, appunto, conobbi uno psicomotricista, al tempo in cui non si sapeva che cosa fosse esattamente la psicomotricità. Sperimentammo con lui una serie di esperienze tipiche del suo approccio con musica ecc… Subito, direi quasi magicamente, avevo sentito la bellezza dell’unità dell’esserci, mi ero profondamente sentito a mio agio. Intuivo come in questa modalità ci fosse qualcosa di profondo che “funzionava” bene per me. Da bravo psicoanalista, però, ho subito cercato di sminuire la portata della cosa dicendomi che mancava un’analisi accurata.

A distanza di poco tempo la psicologa Anna Fabbrini mi propose di partecipare ad un week-end sulla comunicazione non verbale. Sono andato e mi è piaciuto moltissimo perché non riguardava solo l’uso del corpo e della psicomotricità ma la valorizzazione di molti elementi relazionali. Chiesi a lei informazioni per continuare su questa strada e pensai che l’America potesse essere un’ulteriore possibilità. Andando in America, in un momento fin troppo prolifico della psicologia umanistica, ne ho viste di tutti i colori: dalla sessione analitica, alla lettura del giornale, alla rap session, laboratori veramente di ogni tipologia.

Prima di finire il giro sono incappato (quasi per caso) anche in una sessione di psicodramma condotto da una certa Silvia che stava applicando quella tecnica – che poi conoscerò con più precisione – che viene chiamata “la bottega magica”. Mi parlò di Beacon nello stato di New York dove ogni sabato sera si tiene una sessione aperta allo scopo di far fare una esperienza diretta dello psicodramma alle persone curiose. Così andai e partecipai alla prima sessione aperta condotta da Zerka Moreno.

Moreno era morto nel 74. Gli studenti della scuola facevano da ospiti. Venivano attorno con stile psicodrammatico mostrandoti interesse come persona e ti riscaldavano al piacere di comunicare, coinvolgendoti lentamente nella sessione. Arrivò Zerka, mi colpì il fatto che non avesse più il braccio destro, con un vestito di seta lungo, stile indiano. Partita la sessione aperta, con il mio inglese non ancora sufficientemente fluido da poter seguire i dettagli dello psicodramma, riuscivo a seguire solo il senso generale. Ricordo che fu protagonista Vincent che mi chiamò a fare l’io-ausiliario. Fu un’esperienza onirica non capendo a fondo né la lingua né il metodo. Ciò nonostante decisi di chiedere ulteriori informazioni sul metodo di formazione della scuola.

Tornato in Italia, avvertii ancor più gravoso il peso del metodo analitico così diverso dall’esperienza più coinvolgente ed affascinante dello psicodramma. Dell’ambiente psicoanalitico mi piaceva la serietà professionale ma non quello dell’atmosfera relazionale spesso asettica e/o eccessivamente razionalizzante. Decisi di licenziarmi: nel dicembre del ’78 concludevo il mio rapporto di lavoro e andavo a frequentare la prima trance di esperienza formativa in America.

Nel primo turno ho intessuto relazione importanti, bei rapporti, che mi hanno confermato e rinforzato nella mia scelta e nel desiderio di portare a termine la mia formazione.

Quale è stata, a tuo avviso, la vera innovazione dello psicodramma?

L’immediatezza relazionale che consente di dare forma a relazioni più complesse attraverso il gioco della rappresentazione scenica.

All’inizio non mi ha subito convinto la modalità didattica, a quel tempo la Zerka era spesso assente a causa del suo peregrinare per il mondo. I gruppi formativi erano condotti spesso da allievi con maggiore esperienza e, solo talvolta, c’era la fortuna di avere come didatti degli psicodrammatisti con buona esperienza e acume intellettuale e creativo.

Mancavano i riferimenti teorici, il metodo non era chiaro, c’erano solo alcuni criteri di base. La mia abitudine ad una disciplina intellettuale proveniente dalla formazione psicoanalitica mi ha indotto a ricercare, in esperienze apparentemente slegate, dei fili giustificativi che mi hanno consentito di costruire non solo un’ esperienza emozionale e relazionale ma anche un quadro teorico di massima.

Un altro limite in questa struttura formativa era la mancanza di un gruppo stabile e prolungato nel tempo: nel week-end potevano esserci anche venti persone, mentre durante la settimana potevamo rimanere in quattro o cinque. Ad appesantire il tutto c’era il fatto che non veniva richiesta ai partecipanti una formazione di base minima.

La psicologia umanistica andava di moda e lo psicodramma poteva rientrare in una delle molteplici offerte di questo genere di psicologia.

Tornai per altri due mesi, lavoravamo con ritmi serrati, tre sessioni al giorno. Fra i maestri eccellenti ricordo: Don Miller, Alton Barbour, Claire Danielsson, J. Fox.

Le relazioni che riuscivi a stabilire nel gruppo erano la cosa più bella. C’era, purtroppo, una carenza nell’elaborazione teorica; succedevano cose, ma non si sapeva come strutturarle in un metodo rigoroso. Per fortuna a me viene naturalmente da metodologizzare le cose.

Finii la formazione nell’81 e mi misi subito a fare psicodramma. Ne parlai con i miei colleghi psicoanalisti, ed in particolare con un collega di Brescia. Nel 78 realizzai con lui il primo teatro secondo il modello moreniano. Iniziai con il formare formatori e parallelamente partii con il primo gruppo di pazienti.

Dopo due anni di spola a Brescia decisi di trasferirmi a Milano (dove risiedevo e risiedo) e costruii il primo teatro in via Cola Montano, dove anche attualmente si trova la scuola. Il centro di Milano divenne presto un luogo di fervore psicodrammatico, tanto che si formarono subito sei gruppi terapeutici settimanali. Nel giro di un breve periodo anche l’aspetto della formazione allo psicodramma si avviò bene, prendendo gradualmente le caratteristiche di una vera e propria scuola strutturata.

Che idea ti sei fatto di Moreno attraverso l’esperienza psicodrammatica?

Una persona geniale, che ha saputo delineare una teoria e una metodologia che valorizzavano due elementi sempre lasciati impliciti nello sviluppo della psicologia: la spontaneità e la creatività.

Per te, oggi, che cos’è lo psicodramma? Un metodo, una tecnica?

È una filosofia che genera una metodologia, che concretizza un’attitudine, un certo modo di porsi nei confronti della realtà, un modo di concepire il mondo inteso come relazione di incontro e di aiuto. Questa metodologia consente di realizzare il concetto moreniano di mondo ausiliario per cui ogni persona può diventare agente terapeutico per un’altra persona.

Ricca di conseguenze è l’assoluta primarietà della verità soggettiva che favorisce il crearsi di relazioni intersoggettive grazie ad una metodologia che implica la sospensione della risposta.

E l’azione?

L’azione, cioè il farsi momento per momento della vita, è il primo elemento che viene sollecitato e valorizzato evitando le interferenze di un pensiero preformato che ostacolerebbe la spontaneità e la creatività. Il pensiero è visto come elemento che si intreccia con l’azione, anziché prevenirla o ostacolarla. La metodologia psicodrammatica consente alle persone di esprimersi nel loro esistere del momento e di consentire l’espansione di sé grazie all’incontro con gli altri.

Quale pensi sia, ad oggi, il tuo contributo allo psicodramma?

La strutturazione del metodo. Non bastano le buone intuizioni e intenzioni. Dobbiamo cercare una struttura che consenta nella sequenzialità di passare dall’intenzione all’attuazione. Il mio contributo è il suggerire dei passaggi metodologici costantemente rilevati nella mia esperienza che consentano di trasformare in modalità operative i “valori” della filosofia moreniana.

Fin dall’inizio, a livello culturale, che cosa volevi promuovere con lo psicodramma?

Volevo promuovere una cultura di azioni contestualizzate capaci di produrre cambiamenti significativi nelle persone, in luogo della pretesa di produrre cambiamenti attraverso una azione prevalentemente orientata a modificare i pensieri delle persone con un intervento parziale in quanto limitato all’area cognitiva.

Rapporto tra maieutica e psicodramma?

Lo psicodramma valorizza la verità soggettiva e ne stimola lo sviluppo. Qualunque sia il punto di arrivo di questo processo, ciò che emerge dalla persona come sua verità è soltanto un prodotto di se stessa. In questo senso il procedere dello psicodramma è affine a quello di colui “che fa nascere”.

La maieutica avveniva attraverso l’incontro colloquiale; lo psicodramma attraverso il passaggio esperienziale in situazioni strutturate dallo psicodrammatista. Socrate usava il colloquio, Moreno la rappresentazione scenica, ma la qualità del risultato finale non cambia: in entrambi i casi niente viene aggiunto da fuori.

Oggi il sociodramma quanto può facilitare la crescita sociale?

Ha la stessa efficacia dello psicodramma, io chiamerei tutto psicodramma. Si parla di sociodramma quando si vuole coinvolgere un gruppo su un tema che accomuna i presenti. Non è una differenza sostanziale. L’elemento distintivo può essere individuato nel fatto che ciò che viene messo in azione è un aspetto che riguarda tutti i componenti di quel gruppo e non richiede l’analisi dettagliata di una vicenda individuale. Se, ad esempio, il sociodramma riguarda un gruppo di genitori di adolescenti, la rappresentazione scenica non avrà come oggetto una storia individuale, ma vicende che accomunano tutte le persone presenti in quel gruppo.

Quanto la risposta è cambiata rispetto allo psicodramma? C’è, oggi, una maggiore sensibilità rispetto al passato?

Chi fa psicodramma viene coinvolto e appassionato, una volta come adesso, e chi non lo fa è spesso, oggi come ieri, sospettoso. I motivi di prudenza all’accesso allo psicodramma rispetto ad altre forme di approccio psicoterapeutico possono essere di una duplice natura. La prima è il fatto che si tratta di un lavoro gruppale che dà la sensazione di un’esposizione rischiosa di parti problematiche di sé, più facilmente affidabili nel “confessionale” duale. Il secondo motivo può essere connesso alla forza e alla velocità con cui una persona sente messe in crisi le forme difensive abituali, anche rispetto a modi di lavoro terapeutico gruppale basati principalmente sulla comunicazione verbale.

Da un punto di vista teorico quali i punti di convergenza con altre scuole?

I punti di convergenza ci sono con molte altre scuole: vedi la gruppoanalisi per gli aspetti della dinamica di gruppo e anche i lavori di ricerca fatti in collaborazione con la gruppoanalista Silvia Corbella. Punti di convergenza anche con le scuole che si rifanno alla teoria dell’attaccamento, in particolare alla cognitiva nell’impostazione di Liotti, con la scuola della psicologia funzionale del Sé di Rispoli, con la sistemico-relazionale che ci ha visto collaborare con Carla Ferrari Aggradi.

Che cosa c’è dello psicodramma che ci potrebbe aiutare a vivere meglio? C’è qualcosa in più da dire?

L’utopia di Moreno da lui chiamata “socioiatria” – ossia il tentativo di dare una struttura complessiva alla società in cui siano garantite relazioni “sane” o “capaci di guarire” – rimane pur sempre un’utopia. Realisticamente, vedo la possibilità di microinterventi attraverso la disponibilità di gruppi di psicodramma a cui possa accedere il maggior numero possibile di persone. Non vedo, in altre parole, l’applicazione in senso strutturale. Consentiamo alle persone di sperimentare fino in fondo situazioni diverse, di maturare benessere per poi tornare nel grande gruppo portandovi nuovi contributi.

È appena uscito il tuo ultimo libro “Psicoterapia psicodrammatica”. Vuoi presentarcelo?

L’elemento che caratterizza questo libro rispetto ai precedenti è che viene messo a fuoco l’aspetto del gruppo psicodrammatico come gruppo continuativo, gruppo che ha una storia, un’evoluzione che produce delle conseguenze durature nei suoi membri.

In una parte del libro presento le vicende interiori, psicologiche, di una persona all’interno di un gruppo con un percorso terapeutico della durata di tre anni.

A differenza degli altri libri fino a qui pubblicati, questo non si limita alla definizione dei principi dello psicodramma, delle tecniche, dei meccanismi, ma lega tutto insieme per evidenziare come si sviluppano i processi nel lungo periodo.

Vuoi illustrarci i criteri fondanti di questo approccio psicologico ideato da J.L. Moreno?

I “valori”che ho rintracciato col mio ritorno alle fonti e che considero l’eredità moreniane ancor oggi presente nello psicodramma classico, sono sintetizzabili nei seguenti capisaldi:

a) la spontaneità/creatività (binomio chiamato, nel gergo psicodrammatico “fattore S/C) elemento motore della dinamica mentale, forza propulsiva del progresso umano;

b) il tele, struttura primaria della comunicazione interpersonale, cemento che tiene unito il gruppo, principale strumento del processo terapeutico, dell’incontro tra le persone;

c) il ruolo, unità di esperienza “sintetica, interpersonale, privata, sociale e culturale”a un tempo, da cui discende la teoria dello sviluppo individuale come progressiva organizzazione dei ruoli in matrici di differente livello interrelazionale;

d) il gruppo, luogo dell’incontro interpersonale, agente dello sviluppo nelle persone della spontaneità, condizione essenziale per una dimensione creativa della vita, sede dell’identità di ognuno;

e) il mondo ausiliario, grazie al quale ogni individuo diventa agente terapeutico per gli altri, condizione che dà senso di sicurezza per una dimensione creativa della vita, sede dell’identità di ognuno;

f) il primato della soggettività, ovvero il valore primario del particolare e sempre unico mondo interiore di ogni individuo, in conseguenza del quale ogni contenuto mentale va riconosciuto ed accettato per quello che è, senza contrapposizioni;

g) lo spazio terapeutico, ovvero il “teatro di psicodramma” luogo ideale per dare corpo ai fantasmi intrapsichici e metterli in azione in un mondo che li rende della stessa qualità di quelli appartenenti al mondo dell’esperienza sensibile.

I punti a), b), c) costituiscono, nel modello moreniano, gli assunti fondanti la dinamica psicologica dell’individuo. Essi rispondono a questi interrogativi di base, a cui cerca di dare risposta ogni teoria esplicativa del funzionamento mentale umano:

“Che cosa dà tensione vitale alla persona?” (elemento energetico: fattore S/C).

“Perché la persona entra in relazione con gli altri?” (elemento sociogenico: tele).

“Come la persona passa da uno stato iniziale differenziato a livelli successivi di progressiva differenziazione e maturazione?” (elemento psicogenico: ruolo).

Allora partiamo dal primo punto: che cos’è il fattore S/C?

Moreno attribuisce al cosiddetto fattore S/C (spontaneità/creatività) il valore di energia cosmica disorganizzata (fama d’azione) oppure organizzata (ruolo/controruolo), vitalistica (intrinseca alla natura e alla forma vivente) che ha sue leggi proprie, diverse da quelle chimico-fisiche, giacché la sua produzione e disponibilità sono direttamente proporzionali alle possibilità (esogene o endogene all’individuo) di spenderla. Tale energia si differenzia, ad esempio, dalla pulsione freudiana che ha natura fisica ed è governata da leggi economiche.

La spontaneità è da noi riconoscibile attraverso le sue manifestazioni. Essa si disvela all’uomo attraverso la percezione intima di sentire viva la disponibilità a mobilitare le proprie energie intellettuali, fisiche per mettersi in un rapporto adeguato (che tenga cioè nel giusto conto le esigenze intrapsichiche e le richieste ambientali) con la realtà, “inventando” risposte adatte alla situazione. Essa è il prerequisito di ogni esperienza creativa. La spontaneità stimola a trasformare la realtà, a rompere gli schemi, ad evitare cristallizzazioni; essa comporta di affrontare i rischi del cambiamento. Ed è pertanto in contrasto con la tendenza alla conservazione rassicurante riscontrabile in ogni organismo sia individuale che sociale. L’uomo può essere aiutato sempre a prendere contatto con la propria spontaneità, giungendo a sentire questo elemento non come una forza esplosiva e pericolosa, ma come uno stato positivo in cui può vivere senza la minaccia di sentirsi smarrire. Le esperienze di riscaldamento (tipiche della prima fase di una sessione di psicodramma) favoriscono il massimo di congruenza tra razionalità e emotività in riferimento ad una specifica situazione (“qui ed ora”) e diminuiscono la percezione delle spontaneità come pericolosa nelle sue conseguenze.

Moreno sottolinea come la spontaneità sia uno stato e non un dato, in quanto essa costituisce una forma di energia non conservabile che sussiste solo nel momento in cui si manifesta. Essa pertanto, non va “risparmiata”, ma va “consumata” per far posto a successivi stati di spontaneità.

La spontaneità gioca, nella dinamica psichica dell’individuo, una funzione antitetica a quella dell’ansia. Questo dato ha delle conseguenze operative sul metodo psicodrammatico molto evidenti: il direttore di psicodramma tende programmaticamente a strutturare il gruppo in modo che l’ansia non venga alimentata ma sia contenuta entro limiti minimali. La fase iniziale di una sessione di psicodramma (riscaldamento) mira a liberare la spontaneità anche smorzando le possibili fonti esogene dell’ansia.

La creatività, invece, costituisce la più alta forma d’intelligenza che l’uomo conosca e rappresenta una forza che pervade tutto l’universo, per cui questo appare in continua evoluzione. La creatività è un quid non definito allo stato potenziale, ma che si definisce nell’atto concreto: ciò che esiste è soltanto questo ultimo, la cui caratteristica è quella di fornire risposte adeguate a situazioni nuove o risposte nuove a situazioni già affrontate. La creatività si riferisce all’atto in se stesso, la spontaneità si riferisce alla preparazione dell’atto: l’uomo è spontaneo mentre cerca comportamenti nuovi e adeguati a situazioni specifiche; è creativo quando li trova.

Spontaneità e creatività sono interdipendenti ed essenziali l’una all’altra ai fini di un comportamento soddisfacente.

L’atto creativo quando giunge all’opera compiuta produce una conserva culturale, cioè un prodotto statico che è importante testimonianza del processo creativo che l’ha determinato, ossia produce ciò che generalmente chiamiamo cultura.

Lo psicodramma rappresenta la situazione appositamente costruita per aiutare uno specifico individuo (il protagonista) a sviluppare le forze base del comportamento umano: la spontaneità e la creatività. Sul palcoscenico psicodrammatico troviamo tutti gli elementi che consentono lo svilupparsi della creatività: la matrix (l’individualità del protagonista), il locus (la scena psicodrammatica, costruita da favorire la spontaneità), lo statu nascendi (l’atto che si sviluppa attimo per attimo). L’atto di creazione è contemporaneo alla sua messa in scena: ha luogo ed esiste una volta sola ed è il momento in cui l’oggetto, attraverso l’azione, passa dal nulla all’essere.

Arriviamo dunque a parlare di “tele”. Che cosa intende Moreno utilizzando questo termine?

Moreno usa il termine tele per indicare “l’unità sociogenica che serve a facilitare la trasmissione della nostra eredità sociale”. Esso costituisce la struttura primaria della comunicazione interpersonale, è il cemento che tiene unito ogni gruppo, è il principale strumento del processo terapeutico e dell’incontro tra le persone: il tele nasce da un’organizzazione fisiologica connessa a processi affettivi e avente una funzione sociale. Tale organizzazione è basata su due tensioni originarie, quella di attrazione verso l’altro e quella di rifiuto dell’altro.

Il tele costituisce la più semplice unità di sentimento che viene trasmessa da un individuo ad un altro:esso è la naturale tendenza dell’essere umano a porsi in relazione emozionale con altri esseri.

Il tele – insomma – comprende in sé ciò che usualmente è espresso con parole diverse: empatia reciproca, comunicazione emotiva a doppia via, sensibilità che consente ad una persona di afferrare i processi emozionali di un’altra stabilendo con essa una reciproca comprensione, ponte su cui passa l’energia psichica, calore affettivo, ecc.

Che cosa distingue il tele dal transfert?

Da un punto di vista genetico il tele appare prima del transfert.

La parola transfert sta ad indicare nel linguaggio psicoterapeutico, il meccanismo per il quale il paziente vive verso il terapeuta sentimenti, desideri, fantasie e difese che non si addicono alla situazione, in quanto sono la ripetizione automatica di comportamenti che si sono originati verso persone significative della prima infanzia e che sono inconsciamente trasferiti su una figura del presente. Dei comportamenti transferali vanno sottolineati due aspetti: che sono una ripetizione del passato e che risultano inappropriati alla situazione attuale. Si può dire che ogni relazione umana contiene, in misura più o meno significativa, elementi di transfert. L’istanza terapeutica contenuta nel transfert è quella di aiutare il paziente a scoprire il nesso causale fra esperienze precoci di vita a sintomi attuali. Moreno individua la strategia per il superamento del transfert – di cui egli sottolinea le caratteristiche di stereotipia e inadeguatezza alla situazione – nello sperimentare forme nuove, creative ed adeguate di relazione con se stesso e con gli altri, che possono essere appositamente costruite sul palcoscenico psicodrammatico. Si può dire che egli contrappone privilegiandola, la “reazione reale” alla “reazione di transfert”.

A questo proposito egli osserva che, nello stesso momento in cui il paziente proietta inconsciamente sul terapeuta le sue fantasie, un altro processo è attivo: una parte dell’io del paziente non viene trascinata nella regressione transferale, ma piuttosto prova emozioni verso la persona del terapeuta “qui e ora”. Tale parte dell’io giudica il terapeuta e lo apprezza intuitivamente per il tipo di persona che è. I sentimenti verso l’io reale del terapeuta sono un’espressione della relazione di tele: essi si amplieranno gradualmente, sostituendosi alla relazione di transfert.

Le esperienze di rapporti “reale” vengono innescate dalla specifica e genuina umanità di cui lo psicodrammatista si mostra portatore. Egli non funge da specchio, da eco del paziente; non si fa percepire come una realtà neutra e indistinta , egli dà al paziente stimoli e reazioni “reali”. La differenza con altre scuole nasce proprio dal fatto che lo psicodrammatista considera proprio il suo atteggiamento trasparente e soggettivo verso il paziente l’elemento che avvia il processo terapeutico, mentre la non trasparenza dell’analista trova la sua giustificazione nell’esigenza di favorire la nevrosi da transfert. Questo non significa che i meccanismi transferali non vengano specificatamente presi in considerazione nella terapia psicodrammatica. Essi sono presenti e vanno trattati con uno strumento tipico dello psicodramma : la concretizzazione scenica delle immagini del protagonista con la partecipazione degli io-ausiliari. Costoro sulla scena incarnano i fantasmi del protagonista, diventano schermo vivente che accoglie e riflette i sentimenti transferali di questo. Il protagonista agisce i suoi meccanismi di transfert attraverso i personaggi che ricoprono il ruolo delle figure che egli ha dentro di sé e che finalmente incontra fuori di sé. Questo incontro stimola in lui quell’insight che gli permette da un lato di prendere coscienza di quanto vi è di irrealistico dentro di sé, dall’altro di recuperare gli elementi di realtà che pur esistono sotto i meccanismi transferali.

Occorre considerare i diversi tipi di relazioni in cui il protagonista si trova coinvolto nello psicodramma, vale dunque la pena di considerare distintamente le tre fasi della sessione: il tempo del gruppo, il tempo del singolo (protagonista) , il tempo della partecipazione. Nella prima fase lo psicodrammatista è teso a cogliere i bisogni dei presenti e a predisporre qualcuno al ruolo di protagonista. Durante questa fase il protagonista può trasferire immagini di persone importanti della sua vita sullo psicodrammatista: ma questo transfert è di breve durata. Lo psicodrammatista non permette al protagonista di sviluppare tali sentimenti nel rapporto con sé, ma lo incoraggia a trasferirli nell’azione, dando così inizio alla seconda fase psicodrammatica. Egli chiede al protagonista di scegliere i membri del gruppo che possono ricoprire il ruolo di padre, madre, amico, ecc. Il protagonista, mentre sceglie questi io-ausiliari, già trasferisce su di essi i suoi ricordi e i suoi sentimenti. Durante questo processo lo psicodrammatista forse non è nemmeno percepito dal protagonista; certamente non è oggetto di transfert. Egli segue il corso dello psicodramma con empatia e padronanza. Nella terza fase- la partecipazione dell’uditorio- il transfert sugli io-ausiliari viene interrotto. Il protagonista, il direttore ed i membri del gruppo vedono e trattano ogni altra persona per quello che essa è: la relazione di tele è in atto.

Approfondiamo adesso il terzo elemento, il fattore psiocogenico (il ruolo), che risponde invece alla domanda: “Come la persona passa da uno stato iniziale indifferenziato a livelli successivi di progressiva differenziazione e maturazione?”

Moreno, che si riferisce ad un modello relazionale per interpretare le dinamiche psicologiche sia individuali che collettive, assegna al ruolo il valore di imprescindibile unità esperienziale che rende percepibile, osservabile e modificabile la relazione e la situazione interpersonale. L’approccio psicodrammatico mira a facilitare l’individuo nella costruzione di una personalità capace di produrre ruoli adatti a sé e adeguati alle diversificate situazioni interpersonali in cui egli viene a trovarsi.

Moreno presenta così il suo concetto di ruolo in un suo articolo del 1961 (Il concetto di ruolo: un ponte fra la psichiatria e la sociologia), pubblicato sull’American Journal of Psychiatry:

Il ruolo può essere identificato con le forme reali e percepibili che il sé prende. Pertanto definiamo il ruolo come la forma operativa che l’individuo assume nel momento specifico in cui egli reagisce ad una situazione specifica nella quale sono implicati persone e oggetti. La rappresentazione simbolica di questa forma operativa, percepita dall’individuo e dagli altri, è chiamata ruolo. La forma è creata dalle esperienze passate e dai modelli culturali della società in cui la persona vive, ed è sostanziata dalle caratteristiche specifiche della capacità produttive della persona stessa. Ogni ruolo contiene una fusione di elementi sia privati che collettivi. Ogni ruolo presenta due aspetti, uno privato ed uno collettivo.

Questa formulazione densa di contenuti mi consente ulteriori riflessioni che chiariscono aspetti fondamentali del ruolo moreniano.

Il ruolo come forma

Il ruolo viene innanzitutto , presentato come forma. Questa caratteristica dà evidenza al ruolo, lo rende immediatamente descrivibile, consente di intervenire con modalità concrete per operare cambiamenti. Attraverso il ruolo è agevole dare corpo a strategie d’intervento più di quanto non accadrebbe se facessimo diretto riferimento alla relazione, entità astratta che può essere individuata soltanto a conclusione di un processo interpretativo dei dati conosciuti.

In quanto forma operativa, il ruolo si presenta come un insieme unitario che va facendo qualcosa in un dato lasso di tempo. Esso è una Gelstalt; ma a differenza delle forme percettive cui fanno riferimento i gelstaltisti, il ruolo è una forma non sincronica, ma diacronica. Esso si compie nell’arco di una sequenza di momenti lunga quanto necessario perché l’azione acquisti una sua compiutezza. Per questa sua caratteristica esso, per essere riconosciuto, deve venir colto nei singoli attimi del suo farsi sino a trovare unificazione in una forma, grazie ad un lavoro mentale di tipo riflessivo.

Il ruolo come bipolarità

Il ruolo implica una relazione con altri (persone od oggetti) all’interno di una situazione specifica; se non esistesse altro da noi, non potrebbe darsi il ruolo. Il ruolo richiede sempre una bipolarità, cioè due entità che, interagendo, creano una relazione. Una di esse verrà nominata ruolo, l’altra controruolo. Applichiamo il termine ruolo a colui che coglie, dal suo punto di vista, la relazione e se la rappresenta; il termine controruolo all’elemento che fa da “altro”. Il punto di vista è spesso collocabile nell’una come nell’altra polarità: in questo caso i termini di ruolo e controruolo risultano simmetrici e intercambiabili; talora , invece, soltanto una polarità risulta adatta a contenere il punto di vista della relazione. La situazione di simmetria relazionale è quella che consente di esplorare più a fondo l’interazione, dato che permette di cogliere il medesimo oggetto (la relazione) da due punti di vista. Lo psicodramma dispone di una tecnica fondamentale (inversione di ruolo) grazie alla quale una stessa persona (quella agente il ruolo) è messa in condizione di integrare il suo usuale punto di vista col punto di vista dell’altro (quello che agisce il controruolo), come conseguenza di un provvisorio decentramento da se stessa nei panni dell’altro (es.: il maestro si fa discepolo; il discepolo si fa maestro). Per rendere più universalmente applicabile questa tecnica nel setting terapeutico, il gioco psicodrammatico autorizza ad attribuire le caratteristiche della simmetria a qualunque relazione, ad esempio, “personificando” gli oggetti, dando loro un’anima.

L’interazione fra ruolo e controruolo avviene all’interno di una situazione che costituisce il contesto in cui tale accoppiata si colloca. Tale contesto funge da riferimento che offre le coordinate per qualificare, definire, unificare singoli comportamenti che in tal modo si trasformano da meri fatti in ruolo.

Ruolo, controruolo e testimone

Ora per continuare la mia analisi scelgo di immaginare, per ragioni di chiarezza espositiva, che ruolo e controruolo siano attribuiti a due persone che chiamo rispettivamente A e B. E immagino che ci sia una terza persona C testimone dell’interazione fra A e B. Con questa esemplificazione voglio mostrare attraverso quali passaggi la relazione tra A e B venga trasformata in rappresentazione simbolica di questa forma operativa, percepita dall’individuo (A e/o B) e dagli altri (C); cioè come il ruolo venga trasformato da accadimento reale (evento collocato nello spazio e nel tempo) in immagine mentale.

Per riuscire a costruire una rappresentazione mentale l’individuo non può essere totalmente assorbito nell’atto relazionale, dovendosi concedere spazio sufficiente per la riflessione. Soltanto a questa condizione la mente può organizzare e dare forma alle molteplici informazioni in cui si trova immersa. Il testimone C è facilitato in questo compito dato che il suo non diretto coinvolgimento nella relazione tra A e B e il suo essere esterno ad essa gli consentono di osservare, elaborare e rappresentarsi tale evento come accade per altre realtà collocate fuori da sé: si tratta di un processo conoscitivo che utilizza gli usuali meccanismi percettivi. Può accadere che C integri le parziali informazioni in suo possesso coi suoi punti di vista, i suoi ricordi, i suoi valori, le sue proiezioni. Molto più complesso è il meccanismo riflessivo che si mette in moto in A o B, impegnati in prima persona nel ruolo che è oggetto dell’osservazione. Essi per fare ciò devono sottrarsi al totale assorbimento nella relazione per registrare quanto va loro accadendo e, quasi sdoppiandosi, far sì che una parte della loro mente, quella predisposta alla riflessione, si decentri per osservare, registrare, comporre o scomporre, decifrare quanto la parte in azione va facendo.

Il risultato di questa operazione è la messa a fuoco, da parte di A o di B, del proprio ruolo in quella specifica situazione relazionale. Questo è un punto conclusivo di un compito particolarmente impegnativo, dato che richiede di tenere contemporaneamente attivi due registri nettamente distinti: quello (primario) dell’azione e quello (secondario) della riflessione (questi due momenti del funzionamento mentale sono da noi oggi identificati coi termini io- attore ed io- osservatore. Infatti quando una persona riesce ad intrecciare azione e riflessione, giunge ad avere di se stessa una consapevolezza immediata, evidente, intuitiva, nella quale non c’è spazio per l’inserimento di meccanismi distorcenti molto usuali, quali la proiezione o la negazione. L’io quando riesca a decentrarsi e divenire osservatore di se stesso, permette all’esperienza che si va svolgendo nell’azione di canalizzarsi – senza filtri oscuranti o deformanti – nella riflessione, conservando la vivezza dei suoi contenuti emotivi. Il testimone, invece, essendo svincolato dalla sua posizione esterna, orienta liberamente la sua osservazione sui diversi elementi percettivi che lo colpiscono, cogliendo dettagli esterni che probabilmente sfuggono ad A o B; ma può ricostruire solo indirettamente – ricorrendo alla sua capacità empatica e d’identificazione – i contenuti affettivi sperimentati da A e B all’interno della loro interazione.

La possibilità che una persona ha di utilizzare questo meccanismo di decentramento e di auto-osservazione merita un’attenzione particolare, perché è proprio attraverso l’attivazione di esso nel setting psicodrammatico che la persona giunge ad ampliare la sua autoconoscenza ed il suo autocontrollo, in conseguenza sia della svariata gamma di ruoli in cui ella si cimenta, sia della presenza di “altri” (il gruppo, il terapeuta) che – in quanto testimoni del suo agire – le offrono dei feed-back che inducono in lei la messa a fuoco di ulteriori aspetti auto-osservativi.

Concreto ed astratto ovvero ruolo e relazione

Il ruolo rende osservabile e percepibile la relazione, la quale è di per sé un’entità astratta esprimibile soltanto attraverso concetti che , in quanto tali, risultano generali e poco discriminanti. Ricorrere al ruolo significa rendere percettibile anche sensorialmente un comportamento che acquista significato all’interno di un contesto ben delineato.

Questo modo di presentare una situazione relazionale permette a chi si occupa di tale relazione di cogliere immediatamente nell’immagine i diversi elementi che concorrono a produrre l’interazione (ruolo/controruolo, contesto) consentendo di orientare sul polo più adatto gli interventi volti a produrre dei cambiamenti. Questa procedura risulta particolarmente evidente nella sessione di psicodramma, dove il cambiamento dei modi relazionali del protagonista – punto focale dell’inter-vento terapeutico – viene provocato dalla modifica del ruolo di una delle polarità in gioco sulla scena (protagonista, direttore, io-ausiliario).

Privato e collettivo nel ruolo

Un ruolo, utilizzando modi espressivi appartenenti alla cultura di un certo gruppo , dà ai contenuti individuali (privato) una forma leggibile e condivisibile da tutti i membri di quel gruppo (collettivo).

Il ruolo è, dunque, un potente strumento di comunicazione all’interno di una cultura omogenea. Se poi si tratta di un piccolo gruppo che si ritrova sistematicamente per lunghi periodo, come nel caso di un gruppo che fa psicoterapia, la trama conoscitiva ed emozionale che unisce come in un unico corpo le diverse persone (Moreno parla , in una situazione del genere di co-conscio e co-inconscio) fa sì che quasi sempre i ruoli agiti da un individuo esprimano significati condivisibili anche dagli altri. In un tale contesto la distanza fra aspetto privato e aspetto collettivo del ruolo tende verso lo zero, con la conseguenza di rendere più immediata la comunicazione.

A questo punto ti chiederei un approfondimento su alcuni aspetti della dinamica gruppale che presenti nel tuo libro; in particolare: il primato della soggettività, il mondo ausiliario, la dialettica fusionalità/individuazione ed infine il co-conscio ed il co-inconscio.

Nel gruppo di psicodramma aleggia una particolare atmosfera connotata da modalità espressive variegate e creative e da intensa comunicazione empatica, conseguenti ad alcuni principi propri della filosofia moreniane e trasmessi al gruppo dal direttore attraverso il suo modo peculiare di porsi. Tali principi sono riconducibili al primato della soggettività ed alla attribuzione al gruppo della funzione di mondo ausiliario. Essi si concretizzano in una metodologia programmaticamente tesa a creare relazioni intersoggettive e ad offrire opportunità per un reciproco accadimento.

Il primato della soggettività

I contenuti che una persona esprime nel gruppo hanno il valore e la dignità di una “verità” (soggettiva) e non possono essere categorizzati in “giusti” o “sbagliati”. Ogni persona ha un suo spazio espressivo che consente al suo mondo interno di mostrarsi senza il rischio di censure o ritorsioni. La vita del gruppo prevede il popolarsi dello spazio comune di verità convergenti o divergenti, simili o dissimili, in una coesistenza di contenuti che consentono ad ogni soggetto di affermarsi per quello che è, con una modalità simmetrica che permette a ciascuno di mettersi in gioco senza finzione. Ciò accade perché lo spazio espressivo di ogni componente si attualizza attraverso la risposta alle consegne del direttore, le quali sono costruite in modo da stimolare comportamenti adeguati, cioè capaci di armonizzare la richiesta col modo di essere della persona.

La relazione fra soggettività che si muovono con cadenze equivalenti e simmetriche permette a ciascuno di riconoscersi e sentirsi riconosciuto in un contesto popolato da somiglianze e diversità, tutte affermate ed accolte con pari dignità.

Questo modo di stare in gruppo deve anche fare i conti con la tendenza, comunemente presente nelle relazioni sociali, a contrapporsi al diverso. Nel gruppo di psicodramma l’antidoto a questa tendenza è dato dalla regola della sospensione della risposta, la quale prevede di non entrare in un rapporto dialogico quando una persona di trova nel tempo a lei assegnato per l’autoespressione. Il direttore è geloso custode di questa preziosa regola, senza la quale la dinamica gruppale intersoggettiva rimarrebbe una chimera.

Il mondo ausiliario

Il gruppo di psicodramma è il luogo in cui ogni suo componente fa sufficiente esperienza di quelle funzioni nutritive e di sostegno che coagulano la soggettività e danno all’individuo la sensazione di stare bene o stare male nel mondo. Esso è strutturato e condotto in modo da funzionare come mondo ausiliario. Il terapeuta agisce nei confronti delle persone del gruppo come un genitore “accudente”. L’accudimento di cui parlo è un accadimento sano che esige atteggiamenti commisurati alle esigenze della persona accudita, dosando ed agendo atteggiamenti propri della funzione “materna”, ma anche di quella “paterna”.

La dialettica fusionalità/individuazione

Il gruppo attraversa delle fasi caratterizzate da particolari atmosfere adatte a facilitare il soddisfacimento di due bisogni dalle caratteristiche divergenti: quella della fusionalità e quello dell’individuazione. Il bisogno di fusionalità sta ad indicare la tendenza della persona (ruolo) a portarsi verso un altro essere (controruolo) sino a giungere ad un intimo contatto con lui, smarrendo il senso dei propri confini e confondendosi con lui. Tale bisogno è controbilanciato dal bisogno opposto, quello dell’individuazione, grazie al quale la persona si separa dall’altro per affermare la propria specificità e distinzione. L’alternanza armoniosa oppure imperfetta dei ruoli capaci di soddisfare questa duplicità di bisogni determina nella persona equilibrio oppure disagio.

In corrispondenza di queste fasi dell’atmosfera gruppale, il bisogno fusionale si esprimerebbe attraverso ruoli che cercano soddisfazione e completamento nell’affidamento all’altro, nell’abbandono in lui; mentre il bisogno individuativo si esprimerebbe attraverso ruoli che ricercano attivamente il distacco e l’allontanamento dall’altro.

Il co-conscio e il co-inconscio

Possiamo immaginare il gruppo come un serbatoio nel quale ogni persona deposita le vicende della sua storia, vicine o remote che siano. Questo deposito di storie individuali è ciò che Moreno chiama co-conscio. Tali conoscenze , che per la loro qualità accomunante Moreno ha etichettato col prefisso “co”, si riferiscono a contenuti presenti a livello di coscienza (co-conscio). Ma la frequentazione e la condivisione proprie di un gruppo continuativo costruiscono anche un altro bagaglio comune, non comunicabile con la strumentalità verbale in quanto non è pensato, ma è soltanto sentito. Si tratta di un altro “co”: il co-inconscio. Esso compare nel “qui ed ora” della situazione gruppale ed ha a che vedere con il clima emotivo, col tono di fondo che si avverte in un incontro. La vita di relazione all’interno del gruppo di terapia contribuisce a modificare e correggere i modi individuativi di interazione grazie al costituirsi del co-inconscio gruppale.

Il co-inconscio mi sembra assimilabile al transpersonale di cui si parla in ambito gruppoanalitico. Il materiale co-inconscio portato dai singoli nel gruppo di terapie originato nei gruppi precedenti di appartenenza potrebbe essere identificato con fenomeni transpersonali intesi in senso diacronico, mentre il co-inconscio che si va costituendo nel gruppo col contributo di tutti e che si percepisce nell’atmosfera gruppale potrebbe essere sovrapponibile ai fenomeni transpersonali in senso sincronico.

Vuoi dirci, per concludere il discorso, qualcosa rispetto all’espressività all’interno dello psicodramma e soprattutto a ciò che accomuna in tal senso psicodramma e teatro?

Primo punto. Il lavoro psicodrammatico crea una situazione che induce le persone ad esprimersi nella loro globalità, mobilitando – coi dosaggi richiesti dal “qui ed ora” in cui queste sono coinvolte – tutte le funzioni che sono loro proprie:pensiero, emozionalità, movimento corporeo, contatto fisico, postura, ecc … L’espressività, costantemente sostenuta da un metodo che orienta le persone verso comportamenti leggibili e comunicativi, è uno dei criteri basilari a cui il terapeuta si riferisce nel costruire e nel proporre le sue consegne che attivano i singoli e il gruppo.

La metodologia attiva e direttiva propria dello psicodramma non si limita ad offrire alle persone l’opportunità di esprimersi, ma le mette nella condizione di “doversi esprimere” e di farlo in un modo ben contestualizzato. La persona che si esprime con libertà in un contesto gruppale fa l’esperienza esistenzialmente vitalizzante dell’esserci. Tale esperienza è la risultante di un duplice meccanismo mentale: quello del guardarsi dentro per poi esternare quanto si percepisce di sé (funzione di doppio) e quello del rendersi conto di essere presenti negli altri con le caratteristiche che questi ci attribuiscono (funzione di specchio). Il risultato “evolutivo” della costante messa in atto dei meccanismi espressivi è una progressione verso comportamenti e modalità relazionali sempre più variegate, creative ed individuanti.

Secondo punto della tua domanda. Voglio soffermarmi su un particolare effetto dell’espressività nel lavoro psicodrammatico, connesso ad una caratteristica che accomuna psicodramma e teatro: entrambi sono “theatron”, cioè costituiscono una situazione dove si è guardati quando si agisce e si guarda quando si è spettatori. Questa peculiarità “teatrale”dello psicodramma, dove è possibile essere alternativamente attori e spettatori, rende l’espressione di sé un fatto pubblico che vincola gli uni e gli altri per via di ciò che si trasmette (come attori/protagonisti) o di ciò che si recepisce (come membri del gruppo/uditorio). Lo psicodramma consente la non comune esperienza di accedere all’intimità nostra e altrui come ad un terreno aperto e percorribile senza vergogna assieme a dei fidati compagni di viaggio.

Rosella Picchi

E-mail: rosapicchi@tiscalinet.it

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