SPECIALE SCRIPT (testi dell’incontro pubblico “La depressione vuota”, 13 Maggio 2006).

La locandina del filmRegia e sceneggiatura: Ethan e Joel Coen.
Fotografia: Roger Rolla.
Montaggio: Tricia Shore, Roderick Jaynes.
Scenografia: Dennis Dreville.
Personaggi e interpreti:
Ed Crane: BIBBLY BOB THORNTON (protagonista) ,
Doris Crane: FRANCES McDORMAND (nella vita moglie di Joel Coen). (moglie di Ed) ,
Frank Raffo: MICHAEL BADALUCCO (fratello di Doris, barbiere capo).
Big Dave: JAMES GANDOLFINI (Gestore dell’emporio di tessuti, amante di Doris)
Greighton Tolliver: JON POLITO (“uomo d’affari”: vuole fare una società con Ed)
Freddy Riedenschneide: TONY SHALHOUB (avvocato di Sacramento)

Santa Clara, California, 1949. Ed Crane è un barbiere di provincia di mezza età, sposato da vent’anni con una donna che fa da contabile nell’emporio di un ricco commerciante, Big Dave.
Sospettando che tra i due ci sia ci sia una tresca e tentato dalla prospettiva di investire nel mercato del lavaggio a secco, Ed manda una lettera anonima a Big Dave, chiedendo denaro in cambio del silenzio sulla sua relazione.
Scopre così che i suoi sospetti sulla relazione della moglie sono fondati, ma quando Big Dave, che ha capito chi lo ricattava, lo aggredisce, Ed lo uccide.
Dell’omicidio viene accusata Doris, la moglie di Ed.
Benché Ed si prodighi per lei, assumendo come suo avvocato un principe del foro di Sacramento, la donna si suicida in carcere.
Ed verrà condannato alla sedia elettrica, ma per un omicidio commesso da Big Dave: l’uccisione del traffichino Tolliver, che anche a Big Dave aveva promesso l’affare del lavaggio a secco.

Filmografia dei fratelli Coen.

BLOOD SIMPLE – SANGUE FACILE 1984
ARIZONA JUNIOR 1985
CROCEVIA DELLA MORTE 1990
BARTON FINK – È SUCCESSO A HOLLYWOOD 1991
MISTER HULA HOOP 1994
FARGO 1995
IL GRANDE LEBOWSKI 1998
FRATELLO DOVE SEI? 2000
L’UOMO CHE NON C’ERA 2001
PRIMA TI SPOSO POI TI ROVINO 2003
LADYKILLERS 2004

Fin dalla prima inquadratura, che segue di qualche secondo la “copertina” del film, quando iniziano a scorrere i titoli, la cifra stilistico-iconica dei fratelli Coen si palesa immediatamente: la colonnina di un’insegna di barbiere si è messa in movimento, è un ritmo spiraliforme, che comincia dal basso per salire verso l’alto, in una sequenza senza fine.
In realtà il movimento circolare è soltanto apparente, è un’illusione ottica, la colonnina gira su se stessa e le volute sono sostanzialmente immobili.
Circolarità ed immobilità cominciano a palesarsi come elementi disseminati all’interno di quasi ogni sequenza.
L’impressione filmica è, da subito, di falso movimento.

Anche l’inquadratura successiva alla coda dei titoli obbedisce a questo costrutto, ma usando altri percorsi di immagine: la cinepresa parte con un movimento verso l’alto della colonnina, la partenza è molto veloce, ma l’occhio della macchina da presa indugia, si muove leggermente verso sinistra e scende precipitosamente verso il basso, come a voler scendere ad una “radice”, alla realtà terrestre, sormontata dall’oggetto morto-in-movimento (la colonnina del negozio di barbiere).

Il passo successivo è la ripresa del primo cliente che entra nel negozio.
La camera scende dall’alto, riprende l’ombra dell’uomo che si riflette sul vetro della porta del negozio, c’è uno stacco e si vede la figura in primo piano di un uomo anziano che entra.
Anche da queste “seconde pagine” si palesa un altro criterio di costruzione dell’immagine filmica: l’apparente passaggio da un negativo (come un negativo fotografico, l’ombra dell’uomo sul vetro della porta d’ingresso) ad un positivo (l’immagine ripresa in luce frontale e direttamente).
Ma anche questo passaggio è fittizio, perchè non c’è trasformazione da ombra in luce, ma un passaggio asettico tra due illuminazioni fredde, cioè un apparente diverso modo di affermare la stessa cosa: l’immobilità.

Contemporaneamente è già comparsa la voce narrante fuori campo (il film è concepito narrativamente come un racconto a posteriori, ma questo si capirà soltanto in una delle ultime sequenze; il protagonista scrive la storia della sua vita, che racconterà durante l’intero film). Simbolicamente sta ad indicare l’autorità dell’autore (impersonato nell’io protagonista) che già conosce tutto e spiega quello che succede.
Suscita cioè nello spettatore l’attesa di un già conosciuto.
Parallelamente (e paradossalmente) il film ha una trama di thriller “spiegato”: quando c’è uno stacco tra due sequenze e il narrato della seconda è andato al di là temporale di quanto è accaduto nella prima, non si lascia allo spettatore il legame tra i due blocchi narrativi, ma interviene la voce narrante che chiarisce tutto.
Anche questa è un modalità per comunicare fissità, immobilità, o comunque sentiero narrativo prefissato.

La costruzione attraverso immagini del negozio di barbiere parte da un altro espediente (in verità usato soltanto due volte): la non corrispondenza fra i movimenti labiali e le parole. Quando parla il barbiere capo (cognato del protagonista Ed Crane e proprietario del negozio) le labbra si muovono quasi mute, emettono più che altro suoni, anche se a sprazzi si coglie uno straccio di discorso. L’effetto di dissonanza, di non linearità, è anche dato dalla modulazione del volume del discorso, da alto a basso, da vicino a lontano. Le parole assumono l’andamento di un’onda che si rifrange sulla spiaggia, senza superare un limite ed arrivare allo spettatore (stessa scena si ripeterà a circa metà film, quando Ed manda avanti il negozio assumendo un altro barbiere, ciarliero quanto il cognato).

Fotogramma: 1La sequenza all’interno del negozio, che ci porterà alla prima inquadratura del protagonista, è condotta secondo uno stile “mortuario” (voce del barbiere capo che è un insieme di suoni indistinti, movimento di macchina sulla foto del padre del barbiere capo, morto anni prima di infarto all’interno del negozio, rallenti sul barbiere capo che spazzola il collo di un bambino, stacco ed inquadratura in primo piano di Ed Crane che, sigaretta in bocca, aspira, solleva gli occhi dal suo cliente e guarda nel vuoto, anche se l’inquadratura successiva – cioè dove portano gli occhi del protagonista – è ancora il barbiere capo che muove al rallenti).
Tutto è schiacciato sull’essere barbiere (cioè essere ciò che si fa, diventare una cosa come il lavoro), infatti, il finale del discorso di Ed è “Io taglio soltanto i capelli”, cioè non posso immaginare di essere altro da quello che sono.
C’è un giudizio su uno stato “reificato”: Ed può essere soltanto la realtà sociale che vive, alienato com’è nel negozio-topaia.
Questa sequenza è un altro esempio di scelta narrativa: la fissazione degli individui perdenti (quasi tutti, eccetto forse i furbi come l’avvocato del finale) nel loro stato sociale immobile (diventato cosa, cioè reificato e alienato).
Altro modo per circoscrivere la sostanziale immobilità del protagonista e del suo vissuto.

Le parti immediatamente successive definiscono meglio l’ambiente che circonda il personaggio protagonista. La bottega del barbiere è raccontata con inquadrature successive di bambini che sono andati a farsi i capelli. I ragazzini sono ripresi in primissimo piano, con inquadrature che registrano soltanto metà del volto (tipiche dei film horror, del mostro che esce dalla laguna e di cui si vedono soltanto gli occhi o quasi).
Non ci sono descrizioni di personaggi “positivi” o costruttivi (o c’è demolizione della funzione catartica o c’è immobilità o c’è sarcasmo spiazzante).

Segue l’ingresso nel film della figura della moglie di Ed, Doris. Nella prima inquadratura la si vede a figura intera, in sottoveste, mentre toglie dalla scatola della confezione un paio di calze nuove, si profuma (scatola di calze e boccetta di profumo in primissimo piano).
Anche qui il personaggio viene definito in base agli oggetti che lo circondano, che si dispongono quasi a barriera che circonda la persona, annullandone ogni diversa qualità e ogni psicologia che ne differenzi la funzione.

 La cena in casa Crane, con gli invitati (sono Big Dave, gestore del magazzino di abbigliamento dove lavora la moglie di Ed, e la moglie, che ne è la proprietaria).
Mentre Doris, la moglie di Ed, prepara la tavola, c’è un movimento di macchina che va ad inquadrare Ed seduto sul divano, “pietrificato”.
L’inquadratura ha una costruzione perfettamente simmetrica: un lume a destra e un identico lume a sinistra, un cuscino sul divano a destra e uno a sinistra, un tavolino basso, perfettamente centrale al divano. La postura di Ed è in perfetto equilibrio: seduto sul divano, le gambe divaricate, le braccia appoggiate sulle ginocchia.
La macchina da presa inizia una carrellata in avanti su Ed, ma il movimento si interrompe, quasi che fosse impossibile arrivare al primo piano di Ed, personaggio qui caratterizzato da una posizione statuaria, di pietra, rotta leggermente dalle volute di fumo della sigaretta.
In questa inquadratura c’è la sintesi di un’altra scelta di stile dei Coen nel film: la simmetria.
Anche l’icona simmetrica si inserisce nel mondo dell’immobilità, in un equilibrio mortuario e privo di dinamica, che caratterizza il personaggio di Ed e la vicenda.

A questo punto entra in campo l’ingresso di Big Dave e della moglie nella casa dei Crane.
Big Dave ha sulle labbra il sorriso che dice “bisogna essere ottimisti e contenti, soltanto così si è veri americani”. La moglie è una maschera glaciale.
La cena è piena di sbruffonate di Big Dave, che racconta di un atto di cannibalismo ad opera di soldati giapponesi nei confronti di un prigioniero americano, durante la guerra nel Pacifico, guerra a cui Big Dave dice di aver partecipato.
Si parla di un pasto macabro durante una cena, cioè di un pasto vero.
Anche in questa sequenza c’è una parte considerevole del modo di costruire la realtà dei fratelli Coen, l’ironia e il paradosso, cioè l’immagine corposa di un personaggio che, si scoprirà in seguito, è costruita sul vuoto (cioè lo smascheramento). Big Dave si rivelerà un millantatore, ha fatto il militare prestando servizio in un ufficio (più “autentico”, in questo caso, Ed Crane, riformato perché aveva i piedi piatti).
Big Dave conclude il suo discorso con una frase alla John Wayne: “è stata dura”. Doris ride divertita dal racconto, la moglie di Big Dave è atterrita, Ed Crane è indifferente.
Ancora una volta la realtà gira a vuoto ed il movimento ha l’immobilità di qualcosa che è morto ancora prima di essere vivo (il macabro “finto” nell’occasione di una cena).
Subito dopo l’indifferenza marmorea di Ed si connota di elementi grotteschi.
Alla fine della cena Bid Dave e Doris lavano i piatti insieme, Ed va sotto il porticato della villetta, si ode una voce fuori campo (sospetti di Ed su una relazione della moglie con Big Dave), ma la conclusione è “Non che ne facessi un affare di Stato, questo è un paese libero”.
Tutto scorre.

Creighton Tolliver (il presunto uomo di affari che voleva concludere con Big Dave) entra in scena all’interno della bottega del barbiere.
Tolliver porta il toupé (Ed lo appoggia su una bottiglia, per un secondo viene evocata l’immagine macabra di una testa sacrificale, un’immagine di morte che anticipa la fine del personaggio).
L’uomo inonda di parole Ed, sul vantaggio e la novità del lavaggio a secco (siamo nel 1949, la tecnica era soltanto agli inizi).
La macchina ha stacchi successivi su Ed, inquadrato dal basso e su Tolliver, inquadrato dall’alto e di fronte. Se pensiamo che siamo in un negozio di barbiere, anche l’inquadratura di fronte parte dagli occhi di Ed, che vede l’altro guardando lo specchio.
Il parlato ha apparentemente le caratteristiche che abbiamo già visto nella seconda inquadratura del film (parlare a vuoto, suoni e non parole, movimento di labbra e non dialogo).
Ma la proposta di Tolliver (cerca un socio, dopo il rifiuto di Bid Dave), non cade a vuoto.

Ed Crane (ripreso nell’inquadratura che segue in controluce, ancora un negativo da fotografia di cui ci si aspetta la stampa per capire di che immagine si tratta).
L’istinto direbbe ad Ed di non entrare in questa impresa, il suo “istinto” gli direbbe di non muoversi, come gli ha detto fino ad ora di rimanere un barbiere.
A questo punto inizia un movimento (o meglio un falso movimento), Ed Crane (che non possiede i diecimila dollari per partecipare alla società con Tolliver) architetta un ricatto nei confronti di Big Dave (se non pagherà diecimila dollari, sarà resa pubblica la sua relazione con Doris, la moglie di Ed). C’è da considerare che Big Dave è il direttore dell’emporio tessile, ma la proprietà è della moglie.

Con la scena in cui Big Dave racconta ad Ed di essere ricattato (ma pensa che il ricattatore sia Tolliver, perché ha ottenuto un rifiuto alla proposta di partecipazione all’affare delle lavanderie a secco), siamo nel pieno grottesco (in questa parte si evidenzia quanto mai lo smarrimento di Ed, perso in un meccanismo che lui ha innescato, ma che non controllerà. L’uomo “immobile” verrà annientato dal fato, per avere avuto la ubris di tentare un movimento).
L’illuminazione è laterale (metà del volto o della figura intera è illuminata e metà in ombra), come se fosse una realtà da poter vedere da due parti. Anche qui scendiamo nel grottesco: Big Dave si confida con Ed sul tradimento che lui vive con la moglie di Ed (senza mai nominarla, ma Ed lo sa).

Con Tolliver avviene la firma del contratto, perché Ed ha ottenuto i diecimila dollari, ricattando Big Dave sulla sua relazione con Doris. Il tutto avviene senza che Big Dave si accorga che il ricattatore è Ed. La sequenza è magistrale di una quasi anticipazione di un’ascesa al patibolo: Ed va a ritirare i soldi in un portaombrelli all’interno dell’albergo dove, in una stanza, è sceso Tolliver. Ed sale dal primo piano dell’albergo, dove ha ritirato i diecimila dollari, al secondo piano, dove si trova la camera di Tolliver. Ed sale le scale, ma la cinepresa lo segue dall’ascensore: la scena ha tutto l’aspetto di “un ascensore per il patibolo” o di “un’ascesa agli inferi” (la salita usata in senso contrario all’uso comune).

Big Dave ha scoperto l’inganno, è stato da Tolliver, che gli ha raccontato come sono andate le cose.
Ha picchiato Tolliver ( l’ha picchiato a morte e ucciso, gettando la macchina di Tolliver con lui sopra nel fiume, ma questo lo sapremo in seguito).
Bid Dave chiede di parlare Ed all’interno dell’emporio (la moglie Doris ne ha le chiavi).
Incontro tra i due: tagli di luce tipici del noir, laterali o di taglio (in modo da escludere del tutto o in parte il viso).
Sembra l’ambiente di un interrogatorio di polizia, ma Big Dave non è il poliziotto e Ed non è il colpevole scoperto, non c’è verità, ma una soluzione arbitraria di un enigma.
Big Dave aggredisce Ed, per caso Ed prende un tagliacarte e colpisce Big Dave al collo. Il colpo è secco e rapidissimo, non per perizia, ma per inconsapevolezza, sembra il gesto di un bambino che non conosce le conseguenze di quello che fa.
La conseguente morte di Big Dave è bizzarra, ripresa dall’alto e di spalle (come la vede Ed), la figura del moribondo assomiglia a quella di un elefante caduto in una buca e che non riesce ad uscirne: pesante nella vita e così nella morte, ma di una pesantezza che deriva dalla goffaggine di chi pensa di “possedere” qualcosa senza pensare di essere anche lui fra gli ultimi, nonostante la presunta scaltrezza.
Qui il vuoto e la sorpresa di quanto è successo è indicata dalle mani di Ed, riprese in primo piano, con le palme verso l’alto: non c’è nessuna traccia di sangue. Non è successo niente, Ed esce dall’emporio con lo stesso passo dell’entrata, nella strada non c’è nessuno, nessuno lo vede.

Quando torna a casa, di notte, in auto, la macchina da presa lo inquadra in primo piano, leggermente di lato con la luce tagliata su parte del viso: c’è una ricercatezza iconica che fa assomigliare Ed a Philip Marlowe nella interpretazione filmica di Humphrey Bogart.
Ma tutto è rovesciato, il noir è vissuto dai Coen in maniera stralunata, le indagini non si vedono quasi mai, i poliziotti sono puri elementi decorativi, Ed ha le sembianze di Marlowe-Bogart, ma in effetti è un assassino.
Un altro tratto caratteristico dei fratelli Coen è l’uso dei frammenti del genere filmico per parlare d’altro, per sottolineare il mancato dinamismo della realtà.
Ed ha lo stesso sguardo immutato di chi sa che la realtà sarà immutata, che di fronte alla possibile catastrofe non c’è nulla da fare, perché la catastrofe è già nel negozio-topaia di barbiere, nella moglie che lo tradisce, nei soci truffatori, ad Ed è bastato dare un po’ più di vita a tutto questo, che già esisteva pesantemente.

All’interno della casa, dove è tornato dopo il delitto, Ed ripensa ai momenti del suo matrimonio, deciso poco dopo la conoscenza di Doris. “A che valeva conoscersi meglio? Non sarebbe servito a niente”.

Questa battuta apre la tematica della seconda parte del film, centrata sostanzialmente su due processi, di Doris e di Ed, all’interno dei quali la conoscenza della realtà è puramente astratta, confusa, definita dall’avvocato “indeterminata”.
Esemplare, alla domanda di Ed su chi ha ucciso Tolliver, la risposta dell’avvocato è “Ma che cavolo ne so!”.
Anche qui la conoscenza del reale non porta a niente, anzi, maggiorente un fenomeno viene osservato, maggiormente se ne allontana la sua esperienza in termini sensoriali e logici.

La narrazione continua con un cammeo tipicamente coeniano: la comunicazione ad Ed, da parte di due poliziotti che la moglie è stata tradotta in carcere, accusata dell’omicidio di Big Dave. Non può essere stata che lei, complice in frode fiscale con Big Dave e unica, perché possedeva la chiave, a poter entrare nell’emporio di notte.
È una delle sequenze più esilaranti del film (di un comicità calma e naturale) ed è un’ulteriore dimostrazione di una delle chiavi narrative dei Coen, la dissonanza: i poliziotti pensano di comunicare una notizia tragica ad Ed, che invece è ingarbugliato in pensieri di sorpresa (la moglie è accusata di un omicidio che invece ha commesso lui). Ed non è un marito ignaro di tutto e colpito dalla sorte della moglie, così che è totalmente dissonante la “chiave” di relazione dei poliziotti, che sentono il peso (è la battuta di uno dei due) del loro “dannato mestiere”.

Ed va in carcere a trovare la moglie. Non vuole sapere quasi nulla di perché la moglie si trovi lì.

Arriva l’avvocato, venuto da Sacramento (uno dei migliori). Il racconto di Doris e l’autosvelamento di Ed (“sapevo della relazione di mia moglie con Big Dave e l’ho ucciso io”) vengono presi dall’avvocato come “la cosa non va”.
La verità non può essere provata se nessuno l’ha vista (Ed non è stato visto da nessuno uscire dall’emporio la sera del delitto). E d’altronde Ed è “l’uomo che non c’era” e quindi non può essere visto.

Il secondo colloquio con l’avvocato (presenti Ed, Doris e un detective privato assunto dall’avvocato) riprende la cifra del cerchio, della forma circolare, rappresentata da un cono di luce che cala dall’alto, all’interno della sala del colloquio, e si allarga verso il basso.
L’illuminazione segue le regole dell’occhio di bue, che inquadra una persona, lasciando in ombra le altre: è l’avvocato che illumina tutto, l’altra realtà è in ombra, la verità lontana.
E a questo punto viene presentato il principio di indeterminazione, con le parole dell’avvocato: “La realtà non è come è, ma come viene osservata…Ma più guardi e meno conosci… È il principio di indeterminazione”. Questa sequenza è un segno cinematografico del valore di “saggio” che ha il film dei Coen (in omaggio al fatto che Ethan è laureato in filosofia).
Attraverso il ricorso alla filosofia si enuncia una “verità” giudiziaria (in questo caso la difesa non serve a collaborare con la giustizia, ma a complicare i punti di osservazione, in modo che la realtà non venga conosciuta, ma se ne inventi una che possa passare per credibile a favore del reo (la realtà come viene “fatta” osservare).
L’imprevisto, cioè il suicidio di Doris (troppo semplice per reggere ai meccanismi di costruzione del processo e non tanto depressa da sommergersi del tutto nella vicenda) scompagina l’architettura della difesa (non tanto colpita dal suicidio di Doris, quanto dal fatto di non poter “raccontare” la sua verità “fumogena”.

 L’avvocato rientra di nuovo in campo quando Ed viene accusato dell’omicidio di Tolliver (il cui corpo viene ritrovato, all’interno della sua auto, sul fondo di un fiume).
La costruzione della figura di Ed come “un uomo dei nostri tempi”, cioè come un componente della giuria e quindi non come un assassino (o comunque un potenziale “assassino” come lo possono essere tutti i giurati) sembrerebbe reggere, se non arrivasse un quasi inaspettato annullamento del processo, dovuto ad un’intemperanza in aula del cognato di Ed, il fratello della moglie Doris.

È il punto di non ritorno. L’avvocato d’ufficio (Ed non ha più risorse per potersi permettere un avvocato di fama) non può costruire un’immagine socialmente accettabile di Ed, che diventa, per giurati e giudice “l’assassino che non può vivere in società”.

 La condanna a morte è “mitigata” dal fatto che, nell’attesa, un rotocalco ha chiesto a Ed di scrivere le sue memorie, il racconto della sua vita (ancora una volta la realtà come “viene raccontata”).

Due sequenze, una di fantasia e una di realtà, chiudono la vicenda filmica.
La prima, immaginata da Ed, lo vede uscire dalla porta della cella aperta, raggiungere il cortile della prigione (è notte) e venire inquadrato dal faro delle guardie. Contemporaneamente compare in cielo un disco volante (forse venuto per portalo via); ma Ed rientra nel carcere e chiude la porta;

La seconda è la scena dell’esecuzione (sedia elettrica).
Giocata sul bianco e non sul grigio (non comunque sullo scuro), con una dissolvenza finale che, impercettibilmente e velocemente riprende la forma del cerchio, per chiudere una vicenda in cui la morte veniva respirata fin dal movimento statico della colonna del negozio di barbiere.

Giovanni Lancellotti
Psicologo psicoterapeuta SCRIPT Centro Psicologia Umanistica

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