Mario Mengheri
Specialista in Psicologia clinica; Psicologo Analista (AIPA)
Presidente airp.livorno.it

Giulia Luperini
Psicologo, Docente Università del tempo Libero Livorno

Estratto
Talvolta vengono definite come mobbing, situazioni di elevata complessità, non riducibili ad una situazione di maltrattamento. Possono esistere però alcuni ambienti lavorativi caratterizzati da culture organizzative che favoriscono l’insorgere di situazioni problematiche; è in questo tipo di ambienti che nasce uno spazio non gestito, che consente ad un soggetto di attuare vessazioni di tipo psicologico su altri lavoratori, la designazione di un capro espiatorio risulterebbe solo un possibile tentativo di
difendersi da ciò che è avvertito come minaccioso (Jaques, 1975), sarebbe inutile e non permetterebbe un cambiamento innovativo ed una reale verifica delle possibili conflittualità presenti nei luoghi di lavoro.

1. Il mobbing come fenomeno psicosociale

Il tema del mobbing è stato negli ultimi anni ampiamente trattato dai media europei. Si possono facilmente trovare articoli o libri basati su opinioni o vissuti personali, al contrario sono meno riscontrabili testi o articoli di natura scientifica, che descrivano le caratteristiche del fenomeno, o le cause che determinano la sua evoluzione. Alla domanda, perché questo fenomeno, (le cui origini risalgono ai primi anni dell’industrializzazione e da sempre caratterizza l’ambiente di lavoro), oggi desta un grande interesse, un’eventuale risposta consiste nella non casuale contemporaneità fra la diffusione esponenziale di questa particolare forma di disagio lavorativo ed i molteplici cambiamenti che hanno interessato il mondo produttivo negli ultimi anni (Sheehan, 1999; Gilioli e Gilioli, 2000, Gilioli, 2006; Pellegrino, Abate, Della Porta, 2005). Oggi si assiste ad una terza fase di transizione del mondo del lavoro che può essere definita: era postindustriale, contrassegnata dall’economia della globalizzazione e dell’informazione (Rifkin, 1995). Nell’epoca successiva al paradigma lavorativo tipico del fordismo, sorgono cambiamenti come introduzione di nuove tecnologie, adozione di modelli gestionali flessibili, diversificazione della forza lavoro, che possono avere effetti sulla qualità della vita lavorativa dei lavoratori, e sul benessere delle organizzazioni interessate da simili mutamenti. Questi cambiamenti devono essere attuati con particolare attenzione al fattore umano altrimenti potrebbero insorgere situazioni indesiderabili come: calo della soddisfazione lavorativa, aumento dello stress percepito dai lavoratori, assenteismo, per citarne alcuni. Johnson (1997) ritiene che, il modello del lavoro che si sta divulgando, potrebbe provocare un minor controllo dei lavoratori sulle proprie condizioni di lavoro, questo magari non è direttamente collegato all’insorgere di episodi di mobbing, ma laddove i nuovi paradigmi si rivestono di precarietà, flessibilità, contribuiranno all’aumento di insicurezza ed incertezza dei lavoratori; in questo modo, questo tipo di sentimenti al lungo andare potrebbero provocare conflitti sul lavoro, i quali se non gestiti possono facilitare la nascita di episodi di mobbing.

2. Che cosa si intende per mobbing

Comparso prima in maniera isolata, poi nel tempo con più insistenza si sta diffondendo nel nostro linguaggio l’ennesimo anglicismo: mobbing. La contaminazione linguistica anche se ultimamente appare sempre più variegata, sembra utile ed efficace, in quanto consente di appropriarci di un concetto che, per quanto intuito da molti, non aveva ancora trovato la forza di assurgere a categoria tipizzata dell’agire umano e, come avvenuto in tempi recentissimi, anche a categoria del diritto. Il termine mobbing, deriva dal verbo “to mob”, che nella corrente lingua inglese indica essenzialmente azioni come: affollarsi, accalcarsi intorno a qualcuno, assalire, aggredire. Questo contesto, è centrato sul concetto di aggressione. Il mobbing si concretizza tramite varie forme che a titolo esemplificativo, possono essere: l’emarginazione della vittima, continue critiche sul suo operato, la diffusione di maldicenze, l’assegnazione di compiti dequalificanti, oppure all’opposto troppo difficili da svolgere, la compromissione dell’immagine del soggetto davanti ai colleghi, ecc…(Cantisani, 2005). Tutte queste vicende non costituiscono, ovviamente, delle assolute novità né, isolatamente considerate sono sempre così significative da meritare tanta nuova attenzione: ciò che le fa diventare mobbing, è la loro ripetizione per un periodo di tempo sufficientemente lungo [1], e quindi la loro riconducibilità ad una logica unitaria, di attuazione di una vera e propria strategia comportamentale premeditata, tesa a colpire vittime ben precise con lo scopo di distruggerle. Fondamentale è riuscire a trovare una definizione sotto la quale raggruppare una serie di fenomeni comportamentali, poiché proprio la mancanza di una categoria unificante impedisce di cogliere nella loro interezza e di considerare nella loro reale portata.

3. Stress e mobbing

Scorrendo la letteratura scientifica disponibile sul concetto di stress, è facile constatare come spesso esso sia stato definito ed utilizzato operativamente secondo modalità anche assai diverse tra loro (Pancheri, 1989). Ciò deriva in parte anche dai differenti livelli di analisi su cui la ricerca si è orientata: fisiologico, psicologico, sociale. Tradizionalmente, comunque possiamo dire che una larga parte degli studi condotti si sono sviluppati nell’ambito dei così detti modelli “stimolo-risposta” o “antecedente-conseguente” (Lazarus e Folkman, 1984). Nello stress psicologico (Lazarus e Cohen, 1977; Lazarus e Opten, 1966), l’aspetto lagato alla valutazione cognitiva dello stimolo e del suo significato rappresenta un elemento fondamentale per definire l’entità e la natura della relazione emozionale-fisiologica (Schachter, 1966). Non sono gli eventi stressanti in sé ad agevolare l’insorgenza e lo sviluppo della malattia, bensì il modo di interpretarli e di reagire ad essi (Lera, 1997). In armonia con il modello proposto originariamente da Lazarus (1966), le moderne concettualizzazioni propongono, un’interpretazione del concetto di stress in cui individuo e ambiente sono legati da una relazione reciproca e bidirezionale dove l’elemento-chiave della “transazione” è rappresentato dalla mediazione cognitiva. Soltanto studi più recenti porranno attenzione a situazioni interne all’ambiente di lavoro (Favretto e Rappagliosi, 1988; Favretto,1991; Favretto 2005; Karasek e Theorell, 1990; Kasl, 1991). Lo stress causato dall’attività lavorativa può essere visto come l’insieme di reazioni cognitive, fisiche, comportamentali, emotive, dannose, che sorgono al momento in cui le richieste non sono esaudite nella risposta provocando un disagio nel lavoratore. Gli stimoli che provocano stress possono essere ricondotti a fattori di natura fisica, sociale e gestionale e ricondotti ai seguenti aspetti (Depolo, 2003):
• contenuto del lavoro svolto (turni, straordinari, lavoro a cottimo, ripetitività e monotonia, risorse insufficienti per terminare il lavoro);
• relazioni sociali sul lavoro (equa distribuzione del lavoro, partecipazione ai processi decisionali, coesione del gruppo di lavoro);
• aspetti ergonomici e di sicurezza (rumore eccessivo, vibrazioni, scarsa luminosità);
• condizioni di lavoro e dell’organizzazione (chiarezza della struttura organizzativa, politiche discriminatorie nelle decisioni circa assunzioni, promozioni, licenziamenti);
• condizioni di impiego (incertezza circa la possibilità di conservare il proprio posto di lavoro a seguito di contratti a tempo determinato, lavoro interinale).
Per quanto riguarda i risvolti dello stress legato all’attività lavorativa si individuano diversi livelli di manifestazioni (Depolo, 2003):
• emotive (sensazioni di ansia, depressione, disperazione, che se prolungate nel tempo possono sfociare in vere e proprie patologie);
• cognitive (difficoltà di concentrazione, memoria, apprendimento);
• comportamentali (messa in atto di comportamenti nocivi per la sicurezza e la propria salute o quella di altri sul lavoro e nella vita extraprofessionale, come tabagismo, uso di alcool e droghe);
• fisiologiche (disfunzioni a carico dell’apparato gastrointestinale, cardiovascolare e muscolo – scheletrico).
Ponendo attenzione a questo tipo di classificazione il mobbing può essere interpretato come una estrema forma di stress psicosociale sul lavoro. Livelli elevati di stress interpersonale ed organizzativo insieme ad eventuali situazioni di conflitto possono creare un terreno fertile per episodi di mobbing (Berkowitz, 1989; Leymann, 1996; Ege e Lancioni, 1998; Parodi, 2005).

4. Precedenti e conseguenze dannose del mobbing

Per le cause del fenomeno mobbing, possono essere riconosciute tre teorie, (Depolo, 2003) che sottolineano: i tratti di personalità, le dinamiche di gruppo, lo stress organizzativo.
I tratti di personalità: nell’ambito degli studi sul bullismo si è affermata l’ipotesi che il processo di mobbing possa essere spiegato a partire dai tratti di personalità (Field, 1996; Crawford, 1992, 1997; Rayner, 1997; Costigan, 1998; Hoel et al., 1999; Hirigoyen, 2000; Coyne et al., 2000, Marini e Nonnis, 2006). In linea con le teorie dell’apprendimento sociale (Bandura, 1973), il pattern di comportamenti aggressivi osservati fra gli adulti sono stati quindi spiegati come il risultato dell’apprendimento avvenuto durante infanzia ed adolescenza (Randall, 1997). Nelle ricerche internazionali si sono sviluppati veri e propri identikit della vittima e, in parte dell’aggressore canonico (Brodsky 1976; Adams, 1992°; Randall 1997; Crawford, 1992, 1997; Costigan, 1998; Hoel et al., 1999; Coyne et al., 2000). Il tipico mobbizzato sarebbe così una persona coscienziosa, rigida, ansiosa ed irritabile, con una bassa stima di sé, tendente a fenomeni come la paranoia e la depressione. Nel corso degli anni sono stati effettuati alcuni studi, da quello americano (Gandolfo, 1995) dove confrontando i profili di personalità derivanti dalla somministrazione dei test MMPI – 2, emerge come le vittime di mobbing manifestino livelli di sospettosità alti nei confronti degli altri. Risultati simili sono stati ottenuti in una ricerca norvegese (Matthiesen e Einarsen, 2001). Le dinamiche di gruppo: in questo caso la vittima del mobbing non sarebbe predestinata a tale ruolo sulla base delle sue caratteristiche intrinseche, ma sarebbero alcune dinamiche sociali, spontanee e fisiologiche nella vita dei gruppi sociali, a far si che essa diventi oggetto di inevitabili vessazioni e persecuzioni, secondo la teoria del capro espiatorio (Eagle e Newton, 1981; Thylefors, 1987). Il caso del capro espiatorio rappresenta uno dei ruoli che emergono fisiologicamente nei gruppi sociali. Nell’ottica della teoria della frustrazione – aggressività, il mobbing viene descritto come un processo di stigmatizzazione, di ricerca di un capro espiatorio sul quale scaricare aggressivamente la frustrazione derivante in gran parte da un ambiente particolarmente stressante. Lo stress organizzativo: il modello causale che negli ultimi anni è stato oggetto di maggiore attenzione è quello che riconduce il fenomeno del mobbing a fattori situazionali, ad esempio le carenze nell’organizzazione del lavoro, comportamento inefficace del leadership, cattivo clima aziendale, (Leymann, 1996). L’ambiente lavorativo è caratterizzato da norme che regolano il comportamento delle persone che operano al suo interno, limitandone l’espressione della propria personalità. Secondo l’autore, il corretto impiego delle regole è deputato alla supervisione della leadership. I superiori sono, dunque tenuti a sorvegliare, risolvere questi contrasti, altrimenti saranno loro stessi ad essere i promotori inconsapevoli del mobbing. Zapf (1996) ha indagato alcuni aspetti del clima sociale presente sul lavoro. Dalla ricerca emerge il fatto che: interdipendenza fra colleghi ed un elevato bisogno di cooperazione rappresentino opportunità di conflitto, e maggior rischio di mobbing.
Dal momento in cui il mobbing è stato definito estrema forma di stress psicosociale, gli aspetti socio-organizzativi del processo di mobbing possono essere riconducibili a tali aspetti (Depolo, 2003).Cultura e clima aziendale: le norme ed i valori presenti in un contesto di lavoro possono in un certo senso legittimare comportamenti molesti, prevaricatori e vessatori (Ashforth, 1994; Adams, 1997; Liefooghe e Mckenzie Davey, 2001).Leadership: la coesione ed il buon funzionamento di un gruppo dipendono dallo stile della leadership presente e dalle pratiche di supervisione che attua (Leymann, 1996; Vartia, 1996). Al momento in cui emerge una leadership autoritaria, basata sulla critica e sulla supervisione e su una logica di “premi e punizioni” si avrà lo sviluppo di un clima sociale competitivo (Brown,1990). Flusso di comunicazione: il mobbing si attua soprattutto tramite la comunicazione, o di natura impersonale, o di natura organizzativa (Hirigoyen, 2000).Organizzazione del lavoro e sopporto sociale: luoghi di lavoro distinti da ambiguità e conflitto di ruolo, da una richiesta non adeguata, o da uno scarso supporto sociale, da parte dei colleghi, o da parte dei superiori, questi aspetti sono stati delineati, come in grado di aumentare la possibilità di fenomeni di mobbing (Einarsen et al.,1994; Vartia, 1996). In luoghi di lavoro, con una leadership orientata al compito, molto autoritaria, dove è presente, una cultura organizzativa orientata al compito, che presta e concede poco spazio alle risorse umane, al clima organizzativo, è maggiore la possibilità dell’insorgere di fenomeni di mobbing. Il mobbing è fonte di danno principalmente per chi lo subisce, ma non solo. Anche l’azienda entro la quale viene attuato e, in ultima analisi, l’intera comunità sociale, pagano un loro prezzo. Studi condotti all’estero (Ege, 2000) hanno dimostrato un forte calo di produttività nei reparti colpiti dal fenomeno, nonché il costo sociale che comportano forme di malattia psichica grave, in termini sia di indennità di malattia che di eventuali pre-pensionamenti forzati. Ma è soprattutto nei confronti del soggetto passivo (il mobbizzato), che il mobbing può produrre una serie di conseguenze negative. Questa forma di violenza può colpire il patrimonio della persona attuale o futuro, diminuendo anche sensibilmente i benefici che egli trae dal rapporto lavorativo: il danno può spaziare dalla semplice perdita di possibilità, fino alla perdita del posto di lavoro. La prima conseguenza del mobbing è la perdita, da parte della vittima, della capacità lavorativa e della fiducia in se stesso. Da tale punto di partenza può innescarsi una spirale che, tramite un crescendo di disturbi psicosomatici, può sfociare fino al suicidio. Il disagio della vittima, può ripercuotersi anche sulla serenità dell’ambiente famigliare, con il rischio di compromettere, posto di lavoro, e famiglia, fenomeno definito, come doppio mobbing. Tuttavia, non necessariamente la vittima di mobbing risentirà di una lesione della sua integrità psico-fisica, accertabile da un punto di vista medico legale. Inoltre le persone non sono deboli allo stesso modo, di fronte alla vessazione. Questa debolezza può dipendere da fattori di personalità (autoefficacia, età, genere, risorse di coping), che possono rendere la persona debole, dirigendola così in una posizione di svantaggio, così da divenire il bersaglio più probabile per l’aggressione (Leymann, 1996).

5. Le metodologie di misurazione del mobbing 
Lo studio di un fenomeno e la sua misurazione sono due aspetti correlati tra loro; è interessante notare che le tecniche utilizzate nello studio del mobbing possono essere metodologie quantitative o metodologie qualitative. Del primo gruppo fanno parte i questionari, sono stati effettuati diversi tentativi per costruire strumenti psicometrici capaci di dare una misura quantitativa del fenomeno e per conferire una struttura fattoriale al mobbing, attraverso indagini empiriche. Il “Leymann Inventory of Psychological Terrorization” (LIPT), realizzato nel 1997 da H. Leymann, rivisitato ed ampliato in relazione ai modelli culturali dei diversi paesi presi in considerazione da Knorz e Zapf. Ege (1996) ha tradotto il LIPT in italiano e lo ha utilizzato nella sua ricerca effettuata in Italia (1998), l’analisi fattoriale realizzata dall’autore ha consentito di evidenziare cinque fattori: comunicazione negativa, comportamento umiliante, comportamento di isolamento, cambiamenti frequenti delle mansioni lavorative, violenza o minaccia di violenza.
Il “Negative Act Questionnaire” (NAQ), sviluppato da Einarsen (1994) e da Einarsen e Raknes (1997), è stato realizzato per valutare l’esposizione al mobbing nell’ambiente di lavoro, ed offre una misura sia degli specifici comportamenti di vittimizzazione sia dei sentimenti legati all’aggressione. Il “Work Harassment Scale” (WHS),costruita da K. Bjorkqvist, K. Osterman e M. Hjelt-Back nel 1994, è composta da item riguardanti azioni denigratorie ed oppressive effettuate fra colleghi negli ultimi 6 mesi. Il fenomeno del mobbing, è dalla società odierna riconosciuto come un serio problema, nonostante ciò resta difficile da valutare e da definire con precisione (Cowie et al., 2002). Nel lavoro di ricerca, l’utilizzo dei questionari può comportare i seguenti vantaggi: in un tempo limitato è possibile raccogliere dati riguardanti un vasto campione; è facile ottenere con profitto analisi statistiche di una gamma di fattori come: il genere, lo status, l’età, ecc; viene assicurato l’anonimato. Gli svantaggi possono essere: i dati derivano da resoconti fatti dagli individui e possono essere influenzati da altri fattori; la validità predittiva dei dati può risultare dubbia; il ricordo di episodi di mobbing può essere distorto; le risposte possono essere distorte a causa del formato del questionario; il confronto fra culture diverse può risultare difficile; non è semplice raccogliere informazioni dettagliate riguardanti i processi e le dinamiche della situazione dell’ aggressore o della vittima. Le metodologie qualitative sono più numerose rispetto alle quantitative, tra queste le più comuni sono: l’intervista ed il focus group; sempre qualitativa ma innovativa ed in netta espansione rispetto alle altre è il counseling.Il termine intervista fa riferimento a metodologie tra loro molto diverse, un’intervista può essere più o meno strutturata, e più o meno standardizzata, il grado ottimale di strutturazione e standardizzazione è definibile principalmente in base agli scopi per i quali viene condotta l’ intervista ed in base ai vincoli e alle risorse esistenti per quella ricerca. Un’intervista è strutturata nella misura in cui è stato determinato a priori (Zammuner, 1998): quali sono gli argomenti e i temi specifici sui quali vertono le domande poste all’intervistato; qual è l’ordine con cui si pongono le domande relative a tali argomenti; qual è la formulazione delle domande, quando si predefiniscono, soltanto alcuni aspetti, si tratta di interviste semistrutturate, se la specifica formulazione a livello linguistico della domanda è predefinita, allora l’intervista è standardizzata: tutti gli intervistati rispondono esattamente alle stesse domande, sono esposti agli stessi stimoli, l’intervista completamente strutturata e standardizzata è del tutto analoga al questionario, salvo che per la modalità di somministrazione che è orale, le interviste, chiamate colloqui, di selezione del personale, quelle di orientamento professionale, quelle cliniche, ecc. sono, ad esempio, quasi sempre parzialmente strutturate piuttosto che totalmente libere o non strutturate, o piuttosto che completamente strutturate (Argentero 1996; Lis, Venuti e De Zordo 1995), le interviste sono tecniche di misura di tipo qualitativo, che mirano ad indagare le modalità con cui ogni individuo interpreta e descrive il suo mondo e le persone che ne fanno parte, i vantaggi di un simile tipo di ricerca sono, il materiale ottenuto è di tipo qualitativo, chiaro e ricco, il materiale ottenuto può costituire un punto di partenza per l’elaborazione di un nuovo modello, la relazione fra intervistatore e intervistato è più controllabile rispetto a quella che si sviluppa con l’uso di un questionario, si ottengono informazioni più specifiche sulla dinamica delle situazioni di vittimizzazione in cui gli intervistati sono stati coinvolti,gli svantaggi, il metodo è limitato nel tempo; le vittime possono dimostrarsi reticenti a parlare; tale metodo permette di indagare campioni di piccole dimensioni; l’interpretazione può essere distorta a causa di alcuni errori. Il focus group, nell’intervista di gruppo a dei soggetti riuniti in gruppo, vengono poste alcune domande aperte a carattere vario, a volte molto generali, a volte specifiche, sugli argomenti oggetto di interesse per il ricercatore, è usato anche il termine panel interview (Zammuner, 1998), il ricercatore crea un ambiente confortevole, facendo domande mirate con lo scopo di incoraggiare la discussione e l’espressione dei diversi punti di vista, la discussione può anche essere audioregistrata e successivamente trascritta più o meno integralmente, in alcuni casi la videoregistrazione può essere necessaria, poiché fornisce informazioni maggiori e più dettagliate utili per capire meglio quanto è stato detto (Wilson, 1997), lo scopo dell’intervista di gruppo e i vincoli dettati dalle risorse disponibili definiscono anche la lunghezza ottimale dell’ intervista, che può variare da un’ora circa a tre ore (Argentero, 1996; Stewart e Shamdasani 1990), l’intervista di gruppo può essere utilizzata, quando, non ci sono molte informazioni circa gli atteggiamenti, le opinioni o le conoscenze della popolazione su un argomento; può essere utilizzata, in fase di ricerca pilota, per individuare quali sono gli argomenti specifici, pertinenti, circa un certo tema, questa tecnica è molto utilizzata nelle ricerche di marketing, con lo scopo di evidenziare quali sono i pensieri, le motivazioni, i desideri e le percezioni dei clienti (Stewart e Shamdasani, 1990), le interviste vengono condotte su molte persone per poter identificare le tendenze nelle percezioni e nelle opinioni espresse, i vantaggi di questa metodologia possono essere: consentire al ricercatore di intervistare ed agire su più persone contemporaneamente; è flessibile, socialmente orientato e condotto in contesti di vita reale; la durata (minimo un’ora) permette ai partecipanti di conoscere in modo più approfondito i punti di vista, le percezioni e le esperienze fatte sul mobbing nei luoghi di lavoro; il metodo aiuta ad identificare la chiave del problema che può essere poi approfondita in un più ampio studio quantitativo; gli svantaggi del focus group possono essere: è un metodo limitato nel tempo; l’intervistatore può perdere il controllo della situazione; i soggetti possono divagare dall’argomento centrale; l’azione del gruppo può essere influenzata “dall’effetto del consenso” rendendo difficile l’emergere dei diversi punti di vista; è una tecnica che ha bisogno di esperti che facilitino la discussione e l’interazione; i dati raccolti possono essere difficilmente generalizzabili; possono esserci problemi etici circa la riservatezza del gruppo ed il grado di libertà che ognuno ha nell’esprimere i propri pareri senza dover subire delle ripercussioni.

5.1 Counseling e mobbing

Il counseling è tra le metodologie descritte quella più innovativa ma anche quella con un unico svantaggio che vedremo non investe la metodologia in se, per counseling si intende una relazione di aiuto tra una persona che riveste il ruolo di counselor ed un’altra che temporaneamente riveste il ruolo di “cliente”, termine che comprende e identifica non solo un singolo individuo ma anche una coppia, un gruppo, un nucleo familiare (Marini, Mameli, 1999), il counseling è un’attività distintiva, fondata su principi e caratterizzata dall’applicazione di un insieme di abilità comunicative, che si svolge secondo modalità che rispettano valori, risorse personali e capacità di autodeterminazione del cliente, è una tecnica che aiuta la persona a capire e a rispondere ai propri bisogni, a gestire e a risolvere i problemi, l’aiuto non va inteso come un intervento finalizzato a dare consigli o a fornire soluzioni di problemi, quanto come un processo che rende possibile la riattivazione e la riorganizzazione delle risorse personali del “cliente”, per quanto il counselor agisca con strumenti comuni allo psicoterapeuta, il counseling non è psicoterapia e da essa si differenzia per tempi ed obiettivi, l’intervento di counseling, dovrebbe, in caso di vessazioni subite:fornire supporto in momenti di crisi, cioè mettere le persone nella condizione di ripristinare il senso di controllo della situazione (crisis counseling); aiutare ad individuare, chiarire ed affrontare i problemi attuali e futuri (problem solving counseling); fornire motivazioni ed accrescere la fiducia in se stessi così da facilitare il processo decisionale (decision making counseling). Come sostengono Binetti e Bruni (2003), il counseling viene visto come un itinerario attraverso il quale il soggetto apprende a essere sempre più libero, perché si libera di condizionamenti interni ed esterni che per varie ragioni ne limitano le potenzialità. Già questa affermazione esplica quali possono essere i vantaggi, può essere un percorso affrontabile singolarmente o in relazione con chi vive quotidianamente le medesime problematiche, il counseling è un incontro destinato al sostegno e alla chiarificazione, allo sviluppo e alla crescita, ma non può prescindere dalla natura dell’incontro con l’altro (o gli altri), dall’emergere dell’empatia e da una relazione interpersonale finalizzata alla evoluzione/trasformazione (Mengheri, 2003). Il processo di counseling mira all’autoconsapevolezza, all’autopercezione, all’autodeterminazione e all’autocontrollo (O’Leary, 2002). Di contro gli svantaggi possono essere racchiusi nella convenzione sociale per cui la rapidità è un valore per la società odierna, dove rapidità è sinonimo di efficienza, ma, come sappiamo, non è detto che ciò sia sempre vero (Mengheri & Pini, 1992).Il lavoro è investito da una precarietà incredibile, questo induce il lavoratore a proseguire il suo difficile cammino senza fermarsi, altrimenti ci sarà qualcun’altro pronto a prenderne il posto immediatamente; la stessa azienda è difficile che “fermi” la produzione per qualcosa che riguarda un disagio del lavoratore ma che assolutamente deve incidere con l’andamento aziendale; in realtà benessere del lavoratore e produttività aziendale sono identità direttamente proporzionali.

6. Conclusioni

Il mobbing appare sempre di più come un fenomeno complesso, la cui comprensione necessita di ulteriori indagini, sopratutto per ciò che riguarda la dimensione metodologica delle procedure di ricerca. Da questo punto di vista c’è bisogno dell’impegno di tutte le attività che possono aiutare il fenomeno mobbing, ad uscire dalla notevole e recentissima banalizzazione che inconsapevolmente conduce a diminuirne la portata, e dalla eccessiva spettacolarizzazione che infine tratta episodi lontani dal mobbing. Altra questione fondamentale non semplice e non risolvibile solo con le parole, è l’atteggiamento ambivalente delle aziende, da una parte viene riconosciuto il problema e non si è disposti a tollerarne la presenza, dall’altro non desidera suscitare problemi quando non ci sono o crearne se questi fossero ancora nell’oscurità. Questo tipo di atteggiamento è certamente comprensibile, ma non solo perché persone esterne all’azienda vengono a porre domande ai dipendenti su un tema così critico, ma di cui a causa di un’informazione per lo più banale, si conosce poco in realtà, e si percepisce così il fenomeno come un problema necessariamente in agguato. Il mobbing come afferma Spaltro (1995), è una patologia relazionale, che deve essere conosciuta al fine di proporre adeguati progetti di intervento e per traghettare la nostra società, che accetta e subisce il malessere lavorativo, verso una società del benessere che offra speranza e promesse di progettualità, invece di minacce e paura. Talvolta vengono definite come mobbing, situazioni di elevata complessità, non riducibili ad una situazione di maltrattamento. Possono esistere però alcuni ambienti lavorativi caratterizzati da culture organizzative che favoriscono l’insorgere di situazioni problematiche; è in questo tipo di ambienti che nasce uno spazio non gestito, che consente ad un soggetto di attuare vessazioni di tipo psicologico su altri lavoratori, la designazione di un capro espiatorio risulterebbe solo un possibile tentativo di difendersi da ciò che è avvertito come minaccioso (Jaques, 1975), sarebbe inutile e non permetterebbe un cambiamento innovativo ed una reale verifica delle possibili conflittualità presenti nei luoghi di lavoro. Qualunque strategia si scelga di seguire per fronteggiare il fenomeno mobbing, non bisogna dimenticare che, “Roma non è stata costruita in un giorno”anche laddove vi sia consenso sulla direzione da seguire occorrono molti sforzi per tradurre i concetti in realtà comportamentali e per imprimerli nella routine di tutti i giorni (Schein, 1990). In conclusione si ritiene utile trasformare il presente contributo di ricerca, in un osservatorio permanente sul fenomeno mobbing, affinché sia possibile verificare i miglioramenti sulle variabili di mobbing, conseguenti alle azioni intraprese. Promuovere la salute di una persona e nello specifico di ogni lavoratore è di per sé un processo antimobbing.

NOTE:

[1] Alcuni psicologi del lavoro che studiano il fenomeno sostengono che si può parlare di mobbing, dopo almeno sei mesi di vessazioni ripetute (Ege, 1997, Il mobbing in Italia, Pitagora Editrice, Bologna).

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