Titolato “Il libro di Blanche e Marie”, l’ultimo romanzo dello scrittore svedese, uscito da Iperborea, racconta la storia di una paziente di Charcot, che, grazie alla sua magnetica presenza, era riuscita a guadagnarsi la predilezione del neurologo. Quando in quei laboratori francesi arrivò Marie Curie, è a lei che Blanche si affezionò. Ma la luce emanata dal radio finì con il renderla un tronco umano, che tuttavia non smetteva di interrogarsi sui suoi dilemmi amorosi.

Per sei anni, grazie alle sedute pubbliche tenute alla clinica della Salpetrière, nel corso delle quali Charcot, servendosi delle pazienti migliori e con una teatralità seconda solo a quella di Franz Anton Mesmer, tentava di dimostrare le proprie tesi sulle nevrosi isteriche, a Blanche Wittman toccarono in sorte la notorietà e la maschera della malata più celebre di Francia.
Ben presto – suggerisce Per Olov Enquist nel suo ultimo romanzo, Il libro di Blanche e Marie (traduzione di Katia De Marco, Iperborea, pagine 254, Euro 15,00) – Blanche si era guadagnata la reputazione di possedere “una presenza scenica paragonabile a Sarah Bernhardt”: Bella, giovane, intelligente, ferita da misteriosi traumi e da un’infanzia tutt’altro che felice, era riuscita a suscitare la predilezione di Charcot, scalzando nel ruolo di favorita un’altra degente che, dichiarata improvvisamente guarita e di conseguenza allontanata dalla clinica, si sarebbe rifatta diventando la musa ispiratrice di Toulouse-Lautrec e una delle principali attrazioni del Moulin Rouge, col nome d’arte di Jane Avril.
Per scongiurare il rischio di “perdere la rotta”, smarrendosi in un contesto di pura suggestione, Charcot – con la tipica attrazione degli illuministi per i territori inesplorati e una fiducia profonda e razionale per l’insufficienza della ragione” – preparava minuziosamente le sedute pubbliche, discutendo assiduamente con i suoi più stretti collaboratori su protocolli di ricerca e metodi di documentazione. O forse, insinua a poco a poco Enquist – che a un tema affine, nel 1966, aveva dedicato il suo secondo libro, Magnetisorens femte natt, non ancora tradotto – c’è dell’altro e l’apparente freddo rapporto fra il neurologo e la sua paziente aveva a lenti passi cambiato segno, fra intese segrete e sottili censure.
E’ proprio su questa e su altre censure che lavora Enquist, il quale non soltanto compie un lavoro non indifferente nella ricognizione delle fonti documentarie, ma sa, al momento opportuno, staccarsene, giocando sui margini del non detto, del non registrato, del non classificato, per ricostruire, con apparente facilità, acutezza e scrittura encomiabili, una serie di intricate vicende culturali e di connessioni affettive che, ad altri occhi, sarebbero irrimediabilmente, e altrettanto facilmente, sfuggite.
Nelle lezioni pubbliche del martedì, Charcot rimaneva spesso in silenzio e soltanto dopo molti minuti di riflessione avviava un dialogo con il pubblico e con il paziente, finendo col premere le mani (o, più raramente quello strumento passato alla storia della medicina col nome, meritatamente sinistro, di pressa ovarica) su alcuni “punti isterogeni”, per provocare in Blanche uno stato catatonico o un attacco convulsivo e calmarlo al momento voluto.
A lui, “illuminista ammaliato dal mistero”, convinto che davvero le settemila isteriche ricoverate rappresentassero “il più grande centro potenziale per la ricerca neurologica”, non dovette sfuggire, come fatto simbolico, che la Salpetrière era stata in origine una fabbrica di salnitro (salpetre), prima che Luigi XIV la trasformasse in ospedale generale e la Rivoluzione la cambiasse definitivamente in una sorta di ricovero per mendicanti, derelitti di ogni genere, prostitute colpite da malattie veneree, orfani, malati e, soprattutto, malate di mente segregate in una serie di cantine buie col pavimento in terra battuta, abitate da topi, chiamate, con un po’ di malizia, “Les loges des Folles”.
Un giorno, osserva Enquist, a uno degli esperimenti di Charcot partecipò anche August Strindberg, che ne rimase fortemente influenzato: “Era seduto in fondo, e aveva l’aria tesa e indisponente” e Blanche, informata della sua presenza, ne trasse una sensazione di disagio, come un’attrice confortata dal suo pubblico, ma non dall’unico ospite di riguardo, da cui aveva atteso invano un cenno di consenso. “Dopo la rappresentazione lo scrittore non l’aveva avvicinata per ringraziarla. Perciò lei l’aveva quasi dimenticato, fino a che qualcuno non le aveva raccontato che l’esperimento, e lei stessa, l’avevano colpito tanto da tingere, o addirittura impregnare, due suoi drammi. Uno era Delitto e delitto, l’altro Inferno”.
La singolare vicenda ricostruita e narrata da Enquist ci consegna una Blanche tutt’altro che sprovveduta, capace di osservare il sistema di crudeltà e affetti che la circondava. Alcuni anni dopo la morte di Charcot, nell’agosto del 1893, Blanche fu assunta da Marie Curie, che alla Salpetrière aveva il proprio laboratorio, premio Nobel per la fisica, nel 1903 e, nel 1911, per la chimica, in seguito alle sue ricerche sul radio. Sarà proprio lavorando sulla luminescenza azzurra del radio, estratto dal minerale di pechblenda, che a poco a poco la figura e alla sensibilità di Marie entreranno nel cuore di Blanche, sovrapponendosi al ricordo di Charcot.
All’inizio del xx secolo, la parola d’ordine per molti era divenuta “radioattività”. All’Esposizione universale del 1900, uno degli appuntamenti che suscitarono più interesse fu il Congresso di fisica, dove arte e scienza, al pari di suggestione e rigore, si fondevano e l’attrazione principale dell’Esposizione divenne proprio il nuovo elemento, il radio, che, con la sua fluorescenza, “sembrava infrangere la prima legge della termodinamica”. Scienziati da tutto il mondo arrivarono a Parigi per incontrare Marie Curie e carpire i misteri di questa “nuova materia” e dei suoi raggi di luce. Blanche ancora non sapeva che proprio quella luce azzurra l’avrebbe infine deformata e ridotta a un torso, amputata delle gambe e di un braccio, costringendola a trascinarsi per il laboratorio su un carrettino di legno, a scrivere con la sola mano che le restava e a conoscere la vita ancora una volta dalla parte degli handicappati. La splendida pazza che allietava la Parigi postcomunarda nei martedì della Salpetrière era diventata un tronco umano che non smetteva, però, di interrogarsi sul grande e solo dilemma della sua vita: se l’amore, davvero, potesse superare ogni cosa.

Alla sua morte Blanche lasciò tre quaderni, “formato 30 per 20, di quaranta pagine ciascuno, raccolti in una cartella marrone”. Tre quaderni intitolati, senza corrispondenza col colore della copertina, “Libro giallo”, “Libro nero”, “Libro rosso” che, uniti, costituiscono un “Libro delle domande” e scandiscono trauma, registro e divisione interna del romanzo di Enquist.
“Con questo libro tripartito” – precisa Enquist – Blanche “avrebbe potuto raccontare una storia sulla natura dell’amore”. L’amore segreto per Charcot, prima di tutto, ma anche quello furtivo e compromettente di Marie Curie per il fisico Paul Langevin e, soprattutto, quello impossibile di Blanche e Marie. Amor Omnia Vincit si leggeva nella corona di fiori che, coi pochi amici che le erano rimasti, accompagnò Marie Curie alla sua sepoltura. Era il 4 luglio del 1934. Di Blanche non si seppe più nulla, mentre soltanto otto anni dopo i nazisti, conquistata Parigi, abbatterono e fusero, per farne cannoni, la statua in bronzo che ricordava Charcot, all’ingresso della Sapetrière. La Terza Repubblica era ormai tramontata.

La recensione è stata pubblicata sul quotidiano “Il manifesto”, in data 11 novembre 2006.

Di Marco Dotti

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