È con piacere che mi accingo a presentare questa pubblicazione . Innanzitutto il piacere di chi segue da qualche anno il lavoro di studio e ricerca delle autrici, ne è stato testimone e a tratti ha partecipato alle intuizioni ed elaborazioni che qui vengono presentate. Ma anche il piacere di chi ha condiviso con loro per diverso tempo l’impegno formativo nella Scuola di Specializzazione in Psicoterapia dello IACP e le ha spesso stimolate alla stesura di un libro che fosse un primo bilancio del loro impegno di ricerca e di applicazione. E infine il piacere di vedere un contributo teorico e applicativo per lo sviluppo di un orientamento potenzialmente ricchissimo ma che, proprio in Italia, denuncia una carenza di pubblicazioni che ne valorizzino la vitalità e la profonda attualità, nell’odierno panorama della psicoterapia e più in generale della relazione di aiuto.

Il lettore potrà infatti trovare in questo testo numerosi spunti e sollecitazioni su alcuni temi che costituiscono a tutt’oggi oggetto di dibattito sia all’interno della “Comunità Rogersiana”, sia nel più vasto contesto della psicoterapia. Molti paradigmi, e quello di Rogers è uno fra questi, hanno il compito di continuare a interrogarsi se categorie e ipotesi teorico-metodologiche tracciate più di cinquanta anni fa siano ancora attuali, in una società profondamente mutata sia nelle sue caratteristiche generali, sia rispetto allo sviluppo della sofferenza: il “patire” psicopatologico, pur mantenendo certe caratteristiche distintive, ha dimostrato sfumature che necessitano did ulteriore comprensione, di un attento studio, di nuove aperture interpretative.
Penso a tutto l’ambito dei disturbi di personalità e del disturbo borderline in particolare, che si affaccia con caratteristiche sue proprie nel panorama delle “ferite dell’intersoggettività”. Proprio a riguardo l’utilizzazione clinica proposta dalle autrici dei diversi pattern di attaccamento, soprattutto nella descrizione fenomenologia delle aeree da loro denominate della “solitudine” e della “discontinuità/confusione”, offre al terapeuta che si accosta ai clienti con gravi disturbi della personalità la possibilità di migliorare le proprie capacità empatiche e di accettazione incondizionata, oltre che la possibilità di comprendere più correttamente la genesi di alcuni propri vissuti interni rispetto a quei clienti; e altrettanto interessante e utile nella comprensione della genesi di certe sofferenze psichiche è il capitolo dedicato alla trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento,che delinea fra l’altro il collegamento tra uno stile di attaccamento sicuro e la condizione della congruenza, definendo così anche la funzione del terapeuta quale base sicura per il cliente.
Tuttavia l’accurato accostamento, operato dalle autrici, del modello di Rogers ai fecondi a attualissimi studi inaugurati da Bowlby, apre per lo psicoterapeuta non solo nuove “strade” di intervento di cura, ma anche “cantieri” per la prevenzione o, ancora più auspicabile, per la promozione di stili relazionali educativi che possono favorire il benessere e la salute della persona nel suo sviluppo. E in tal senso ho applaudito alla scelta delle autrici di inserire proprio nella parte conclusiva del libro alcuni capitoli dedicati all’adolescenza e al mondo dell’infanzia. Oggi più che mai uno psicoterapeuta ha il compito professionale ed etico di non chiudersi nel proprio setting professionale, ma di mettere a disposizione il proprio sapere in cornici di confronto e approfondimento multidisciplinare, per rilanciare lo sforzo e l’impegno nel settore preventivo e nel settore educativo. Se è vero, infatti, che da tempo immemorabile si affermano e si predicano progetti volti ad evitare lo sviluppo del malessere psicopatologico, la verifica su ciò che è accaduto negli ultimi decenni, ma soprattutto l’evidente disinvestimento che in molte nazioni si è di fatto verificato su questo fronte, ci devono portare ad assumere posizioni di differenziazione, rispettosa ma determinata, dalla forte corrente biologista, che tende a ri(con)durre i temi preventivi all’offerta di una svariata e sempre più ricca gamma di psicofarmaci, anche in età infantile.
Oggi più che mai la psicoterapia deve affiancarsi ad altre discipline, per affermare il profondo valore di senso, per l’esperienza umana, di crescere e affrontare eventi critici, ferite e drammi dalle colorazioni emotive certamente forti, ma che rappresentano invero altrettante opportunità di nuova conoscenza sul mistero dell’esistenza e spesso la via attraverso cui le persone possono scoprire la propria autenticità. Ma per affrontare le crisi della vita è necessario che qualcuno (o qualcosa, come ben ha asserito Martin Buber) ci “riconosca”, ci accolga, ci “alleni”, ci permetta di apprendere, di costruire in noi la capacità di affrontare le frustrazioni inevitabili, ci permetta di diventare, come oggi affermano alcuni studiosi, “resilienti”.
Pertanto stimolo i lettori a cogliere e a soffermarsi, nell’auspicabile riflessione personale che scaturisce spesso dalla lettura di un testo, sul “come” promuovere cultura, sul come formare, sul come supportare tanti colleghi (insegnanti, educatori) ma anche tanti genitori nel loro difficile compito di accompagnamento al processo di sviluppo e di crescita delle nuove generazioni. E, permettetemi, sollecito anche ad affermare pubblicamente il valore di alcuni setting che, al pari dello studio psicoterapeutico, dovrebbero essere presenti nelle nostre comunità: i consultori, gli sportelli e le “scuole” per genitori, i laboratori di ricerca azione per gli insegnanti e gli educatori, i setting di formazione permanente, gli spazi ascolto per adolescenti, ecc…

Tornando nei panni del clinico , vorrei proporre altre due riflessioni.
La prima legata alla questione della diagnosi, tema che in più di un’occasione il lettore incontrerà nei vari capitoli. Ho molto apprezzato la precisione delle autrici nel presentare gli elementi critici di questo tema, proprio a partire dalle argomentazioni di Rogers (presentate per la prima volta nel 1951 in Client Centered Therapy), che sosteneva non solo l’inutilità ma anche il ruolo ostacolante del far precedere l’intervento terapeutico da un’accurata diagnosi psicologica.
Condivido la linea scelta da Maria Luisa e Maura, che, pur riconoscendo la validità dell’impostazione di Rogers, stimolano innanzitutto gli psicoterapeuti di orientamento umanistico a non trascurare i temi e le conoscenze circa le diverse figure psicopatologiche, ma a porsi anzi in un’ottica che Charles Devonshire avrebbe definito di “lavoro con la teoria e non per la teoria”. Mario Rossi Monti ha ben espresso, a mio giudizio, questa posizione quando afferma che “La diagnosi basata sui soli criteri nosografici è solo una parte del processo diagnostico ed occupa un posto marginale nel lavoro clinico: da sola non basta ad entrare in risonanza dialettica con una diagnosi fenomenologia; una diagnosi cioè che cerca di cogliere, intuire e descrivere le particolari modalità di esperienza e di espressione di quella data persona e il rapporto che intrattiene con se stessa e con il mondo. E’ necessario che i singoli fenomeni mantengano i legami con la totalità della persona, i sintomi con la storia, le esperienze di vita con lo stato affettivo, i comportamenti con le esperienze, ecc… nella consapevolezza che la diagnosi fenomenologia deve rimanere un processo sempre aperto” [1].
Ma vorrei ribadire quella che dal mio punto di vista è la “vera” questione circa questo tema: la diagnosi non solo non è dannosa, ma diventa necessaria quale strumento per affinare l’empatia del terapeuta rispetto alle caratteristiche generali di quel particolare modo di essere al mondo del cliente – come ben si può evincere proprio dalla lettura di alcuni capitolini questo libro – nella misura in cui rimanga un’ipotesi di massima, continuamente modificabile nell’evolvere del dinamismo interpersonale della relazione terapeutica; ma questo in virtù del fatto che alla base essa resti in funzione del cliente e non si ponga a servizio principale della sicurezza del clinico. Le categorie diagnostiche, come qualunque altra conoscenza teorica metodologica che il terapeuta ha nel suo bagaglio professionale, possono infatti rimanere realmente all’interno di quel circuito ermeneutico, che oscilla sempre tra il particolare di quel cliente e il generale che l’esperienza clinica e il sapere scientifico ci offrono, solo nella misura in cui il terapeuta riuscirà a “domare” la propria inevitabile esigenza di sicurezza, anteponendovi il bisogno del cliente di essere compreso nella sua ferita soggettiva e per certi versi unica.
Come ben illustra Bruno Calmieri:

I fenomeni che nel singolo incontro ci si mostrano non sono osservabili in maniera neutrale e astorica, non si possono ridurre a dati oggettivi, elencabili e ordinabili. Il loro pieno significato, il loro senso si dischiude soltanto di fronte a quell’investigatore che è toccato da essi, a quello che è stato indicato come “osservatore partecipe”, in un difficile ma necessario equilibrio coesistenziale (…)
Benché la conoscenza razionale e il dominio tecnico che informano i manuali diagnostici e di trattamento servano perché appunto fanno sparire molta insicurezza, tuttavia l’insicurezza essenziale resta e anzi penetra nelle stesse garanzie esistenziali della scienza medica, che per vivere bene deve tornare a divenire arte. E’ forse anche per questo che la ricerca clinica del sintomo, della sua costituzione intersoggettiva non è mai conclusa ma deve essere sempre ulteriorizzata e non può darsi senza presupposti comunicativi di ascolto, di apertura e di scambio (…)
Può essere molto impegnativo a livello personale; ma questo è il rischio di ogni autentico psichiatra che quotidianamente incontra l’altro, la sua invocazione, il suo rifiuto, che affronta insicurezze anche profonde, evitando però la regione diagnostica dell’uomo a una dimensione, evitando di cadere nel trabocchetto di un’esperienza fatta soprattutto di scale, punteggi, presenza numerica di sintomi [2].

Solo un simile atteggiamento può garantire di non scivolare nella trappola e nel pericolo ddella diagnosi, che, parafrasando il grande Karl Jaspers nel suo Manuale di Psicopatologia, risiede nella possibilità per ogni clinico di riuscire a “spiegare” un modo di essere senza peraltro “comprenderlo”.

Questa posizione richiama inesorabilmente il secondo tema che vorrei sottolineare e che permea gran parte del lavoro delle autrici: lo studio e il lavoro sulla congruenza dello psicoterapeuta. Senza nulla togliere all’empatia e all’accettazione incondizionata, ritengo che questa terza condizione ipotizzata da Rogers sia la posizione esistenziale a cui come terapeuti di Approccio Centrato sulla Persona dovremmo dedicare più spazio di studio, ricerca ed elaborazione. E’ una condizione ricchissima e variegata, che proprio per questo corre il rischio di essere trattata e considerata, all’interno del lavoro clinico, come un “Jolly” di cui o se ne fa scarso uso, oppure se ne fa abuso(e non solo nei termini di ridondanza di interventi di trasparenza, ma soprattutto quel chiamare “congruenza” ciò che non lo è, giustificando in tal modo atti che hanno poco a che fare con un reale e consapevole contatto che il terapeuta ha con il proprio mondo interiore). La stimolazione che ci giunge pertanto dalle autrici sull’indagare e interrogarsi circa le sfumature della congruenza (per esempio in tuta quella dimensione che sono i vissuti tranferali del terapeuta) e circa le varie modalità con cui il clinico utilizza la propria congruenza (per esempio la confrontazione, il feedback) è più che mai opportuna: c’è bisogno di sviluppare le nostre conoscenze, di aprirci ad uno studio che però, è bene chiarirlo da subito, chiama di nuovo in causa il coraggio del terapeuta di svelare se stesso, di condividere quanto le proprie ferite muovono nella relazione terapeutica.
Tuttavia, se vogliamo stare realmente in un orizzonte intersoggettivo, non possiamo parlare solo delle ferite dei nostri clienti, ma descrivere proprio come queste riattivino anche, inesorabilmente e vertiginosamente, le ferite dei terapeuti; e raccontare quindi autenticamente i nostri limiti e le risorse che da questi paradossalmente scaturiscono, in un orizzonte ove la nostra crescita come uomini/donne e terapeuti è profondamente influenzata dai nostri clienti, in un orizzonte ove il senso di appartenenza e reciprocità permea l’intersoggettività relazionale tra cliente e terapeuta, in un orizzonte ove i narcisismi professionali lasciano spazio al senso di gratitudine e all’umiltà.

NOTE
[1] MARIO ROSSI MONTI. Percorsi di psicopatologia. Fondamenti in evoluzione. Franco Angeli, 2001, pp. 10-11.
[2] BRUNO CALLIERI, ANDREA BALLERINI (a cura di). Breviario di psicopatologia. Feltrinelli, 1996, pp. 46-47.

Di Gianluca Greggio

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