Noi allora concepivamo il sogno quasi il progetto di vivere sempre più insieme, in una cerchia di donne e uomini magnanimi ed eletti, ben lontani dalla banalità, dal vizio e dalla malvagità… La vita come tu la volevi, sarebbe una di quelle opere per le quali occorre un’alta ispirazione. Come dalla fede e dal genio, noi potevamo riceverla dall’amore“. (M. Proust, I piaceri e i giorni)[1]

Le considerazioni che intendo fare nascono innanzitutto dal mio lavoro d’insegnante[2]. I contatti quotidiani con alunni della scuola media superiore sono stati sempre importanti ma hanno assunto nel tempo significati diversi. Nei primi anni d’insegnamento la poca distanza dall’età degli alunni e la fede nella disciplina in quanto tale, ci fanno vedere i ragazzi a cui insegniamo sia come riflessi di noi stessi, dei nostri amici e dei nostri fratelli, sia come esseri svogliati che non hanno quel desiderio di sapere che a noi, invece, sembrava di avere alla loro età. Riconosciamo nel loro sorriso, nell’ apertura verso le novità, nella tristezza, nella speranza e nella mutevolezza d’umore, il loro e il nostro essere giovani. Ci sentiamo diversi solo per quel grado d’istruzione in più che segna la differenza e giustifica il nostro ruolo.
Gli alunni sono simili a noi ma allora perché, ci chiediamo, riusciamo a trasmettere così poco di quello che sappiamo?
Non mettiamo in discussione quasi nulla del nostro modo d’insegnare e pian piano cominciamo a condividere quello che dicono i nostri colleghi più vecchi, che inizialmente guardavamo con sospetto: “I ragazzi non studiano, a loro interessa altro..non la scuola, non c’è niente da fare..” Quindi uniamo la nostra voce al coro lamentoso degli insegnanti nei consigli di classe. La nostra disciplina così vera e pura non viene compresa da questi ragazzi fannulloni. Riusciamo, nonostante queste convinzioni, ad essere comprensivi con i ragazzi difficili, i casi umani, a cui perdoniamo di non accogliere il nostro sapere. Come gli altri colleghi, bonariamente, chiudiamo un occhio e ci sentiamo a posto con la nostra coscienza. Il consiglio di classe diventa una botte di ferro di sicurezze e genera un idillio fra gli insegnanti: siamo tutti d’accordo che la disciplina conta più di tutto e che bisogna essere comprensivi con gli alunni deboli… Ci sentiamo così finalmente dei veri insegnanti!
Ma pian piano s’insinua il dubbio che non possa essere così semplice la spiegazione dell’insuccesso scolastico di tanti ragazzi e quando ci rendiamo conto che tanto dipende da cosa s’insegna e come lo si insegna, capiamo che le frasi di senso comune sulle colpe degli alunni riflettono solo una piccola parte della realtà. Lasciamo le opinioni fasulle dei colleghi a chi vuole crederle e rompiamo con l’idillio del comune sentire i problemi scolastici all’interno del consiglio di classe.
Nel frattempo infatti siamo diventati adulti e guardando dentro noi stessi, una delle prime cose che capiamo è che l’idillio non esiste: non si può credere alla perfezione dei connubi umani amorosi e intellettuali. Gli idilli mascherano le nostre insicurezze e le nostre nascoste o inconfessabili verità e creano pericolose illusioni.
Per un insegnante quindi diventare adulto significa spezzare l’idillio con i luoghi comuni sugli alunni, con la disciplina d’insegnamento vista nella sua perfetta organizzazione accademica, con chi si lamenta nelle sale insegnanti senza mai aver riflettuto su quali effetti ha l’insegnamento tradizionale per gli alunni. L’essere adulti comporta anche , dopo aver svelato le varie illusioni, costruire un nuovo modo di insegnare basato sulla consapevolezza che la disciplina deve essere piegata sull’alunno e non viceversa, che gli aspetti motivazionali e relazionali sono legati in gran parte a cosa s’insegna e che il processo d’apprendimento è pianificabile fino ad un certo punto.
In sostanza nasce nel tempo la convinzione che l’insegnamento, il fare scuola, è multicentrico e che le schematizzazioni che polarizzano l’attenzione esclusivamentesulla disciplina o sull’alunno non rendono idea di quello che succede veramente in classe. Ci sembra cioè che i contenuti disciplinari debbano circolare in modo fluido tra l’ insegnante e l’ alunno, tra l’insegnante e tutti gli alunni della classe, tra alunno e alunno. La fluidità della circolazione dipende in primo luogo dall’adeguatezza cognitiva dei contenuti disciplinari ma dipende tanto anche dalla qualità della relazione tra alunno e insegnante. Su questo punto occorre fermarsi a riflettere.

Reciprocità e asimmetria nella relazione alunno- docente

Mi sono persuasa che anche quando si pensa ad un insegnamento aperto, non trasmissivo e che si basi sull’idea che la conoscenza debba essere costruita, non si rifletta molto sul fatto che anche la relazione con gli alunni deve far parte di questa costruzione.
Cosa s’intende dire?
Generalmente l’insegnante, anche quando ha grandi capacità comunicative, ha l’ atteggiamento di chi dirige e prevede le conseguenze della sua azione didattica non modificando minimamente se stesso nel dialogo con gli alunni .
Sia nell’insegnamento tradizionale che in quello innovativo generalmente si concepisce il primo attore della comunicazione comunque l’insegnante che indirizza il senso della conversazione verso l’alunno e dall’alunno riceve poco o nulla. Non perché l’alunno non risponda anche in un linguaggio non verbale, ma perché l’insegnante non è disposto a mettersi in gioco come persona in grado di accogliere empaticamente le risposte degli alunni.
Considerando i diversi piani su cui la relazione si articola, spesso il dialogo esiste sul piano intellettuale- disciplinare ma è a senso unico per quanto riguarda altri aspetti. Spesso solo l’alunno ascolta e rivede le proprie convinzioni essendo coinvolto anche emotivamente dal lavoro in classe. Il processo di revisione dei propri pensieri e il coinvolgimento emotivo profondo riguarda difficilmente l’insegnante. C’è alla base di questo atteggiamento un’idea di controllo del processo d’insegnamento in ogni particolare che assomiglia a quello che in psicoanalisi viene identificato come il pensiero oggettivo dell’analista. Scrive Hoffmann, esponente della corrente psicoanalitica relazionale : “….fa parte dell’idea oggettivista che, in linea di principio, l’analista possa scoprire con precisione dove finiscono il suo contributo e l’effetto dell’interazione attuale…Al contrario vedere il transfert e il controtransfert in una relazione dialettica crea una zona d’irriducibile ambiguità e indeterminatezza circa la natura della loro interazione e della loro influenza, una zona che è spesso aperta a molteplici costruzioni interpretative.”[3] [4] Prevale quindi solitamente un atteggiamento di controllo della dinamica relazionale che impedisce gli effetti di ritorno e ciò ha come conseguenza la mancanza di riflessione critica su stessi, sull’insegnamento che si sta attuando. L’alunno inascoltato emotivamente può vivere il rapporto con l’insegnante come una gabbia magari comoda e “illuminata” ma in cui si sente solo.
Essere un insegnante credo significhi accettare la sfida che comporta mettere in gioco se stessi nella relazione con gli alunni sentendo gli stati emotivi, entrando in un rapporto dialettico che tenga conto anche del piano non verbale della comunicazione. Occorre che l’insegnante risponda e che risponda in modo autentico. La chiave di volta è, a mio avviso, proprio l’autenticità della risposta dell’insegnante. Per la mia esperienza una risposta che sveli la realtà affettiva dell’insegnante, non ha effetti negativi sugli alunni, ma li coinvolge nel lavoro avviando efficacemente il processo di costruzione della conoscenza. Il doppio binario della comunicazione è solo apparente, in realtà la “sincerità” con cui si mostra l’insegnante ha un effetto immediato sul versante dell’interesse alla disciplina.
Se accettiamo la definizione di costruttivismo di Jones: “La concezione secondo la quale ciò di cui facciamo esperienza non è un mondo totalmente indipendente da noi, ma un mondo al quale l’attività della mente attribuisce determinate caratteristiche”[7], possiamo dire che il mondo fatto di conoscenze che costruiamo a scuola ha bisogno del senso che deriva non solo dai significati oggettivi degli argomenti trattati ma dal valore affettivo che noi attribuiamo loro. E qui è fondamentale che i temi oggetto di studio siano realmente comprensibili per gli alunni, perché altrimenti il tutto si risolve in un grande tradimento…. di fiducia!
Il rapporto autentico e di fiducia è comunque diverso perché il rapporto fra alunno e docente è per sua natura asimmetrico per età e ruolo. E’ fondamentale che rimanga tale altrimenti non è possibile nessuna azione didattica positiva (nelle classi si genererebbe il caos). Ci dovrebbe essere una costante dialettica tra la percezione che l’alunno ha dell’insegnante come persona simile a lui e la sua percezione dell’insegnante come persona che ha un grado superiore di conoscenza, saggezza, e giudizio [8] . E’ difficile per l’insegnante giocare a carte scoperte dal punto di vista della disponibilità emotiva e mantenere costantemente il timone dell’insegnamento. Sono di grande aiuto in questo senso i riti dell’insegnamento (l’interrogazione, i compiti, il registro, la cattedra) e soprattutto la passione per la disciplina che s’insegna. Questa passione deve circolare fra gli alunni come segno del nostro amore per loro.

Di Eleonora Aquilini

NOTE:

[1] Marcel Proust, I piaceri e i giorni, New Compton, Roma,1986, p. 22

[2] Contributi altrettanto significativi sono stati il lavoro svolto all’interno del “Gruppo di ricerca e sperimentazione didattica del CIDI di Firenze” coordinato da Carlo Fiorentini, le lettura di psicologia e psicoanalisi che mi appassionano da molto tempo e le conversazioni con l’amico psicoanalista Alberto Lorenzini.

[3] Questi due modi di concepire la relazione vengono anche riferiti come i due paradigmi dominanti nella psicoanalisi : quello positivista o oggettivista e quello costruttivista- sociale. Il primo considera l’analista capace di rimanere fuori dall’interazione con il paziente, in modo da poter formulare ipotesi e giudizi abbastanza sicuri circa la storia, la dinamica e il transfert del paziente (5). Nel modello costruttivista- sociale c’è una reale interazione fra paziente e analista in quanto l’espressività spontanea dell’analista ha molto spazio poiché l’analista si consente di essere liberamente se stesso. Questo ruolo lo costringe a una continua riflessione critica della sua partecipazione.(6)

[4] Irwin Z.Hoffmann, Rituale e spontaneità in psicoanalisi, Astrolabio, Roma, 2000, p.53.

[5] Ibidem, p.181.

[6] Ibidem, p.184.

[7] Ibidem, p.49.

[8] Ibidem, p.107

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