“Io, impiegato, finito a dormire per strada”.

Un lavoro sicuro, una moglie, una casa. Poi più niente. Storia di Carlo e di tanti come lui. Nella società che cambia a causa della flessibilità – dove le persone sono sovraesposte, sole e indebolite – può bastare un divorzio per perdere tutto.

Carlo è quello che si dice un bell’uomo, sulla quarantina, con un posto fisso nella pubblica amministrazione. Quando ha fatto il concorso, vent’anni fa, pensava che un contratto a tempo indeterminato lo avrebbe garantito. Da cosa? Da tutto: dalla povertà, dalla solitudine, dalle disgrazie della vita.
E invece non è andata così. Racconta Carlo: “Mamma è morta quando avevo diciotto anni, il giorno della maturità. Cancro al seno. Papà s’è ammalato subito dopo. Non ha parlato per mesi, poi il cuore si fermato. I miei erano friulani. Oggi non mi è rimasto più un parente. Forse uno zio di secondo grado, ma chi lo vede mai? E poi, che cosa potrebbe fare per me?”. “Per mia fortuna in quel periodo ho conosciuto Lisa. Ero molto giù e lei mi è stata molto vicino. Di lì a poco ci siamo sposati. Lisa già lavorava, in una ditta privata. Guadagnava benino. Se non ci fosse stata lei non ce l’avrei mai fatta a passare il concorso. Pensavo: se vinco ci sistemiamo”. E così è stato.
Hanno comprato una casa in cooperativa, periferia di Roma est. Un bell’appartamento con un ampio terrazzo. Tasso fisso. Data della fine del mutuo: 2015. Rata mensile: meno di un affitto, ma alla fine la casa è tua e non te la può togliere nessuno. “A ripensarci adesso non so se il nostro è stato più coraggio o incoscienza. Forse tutt’e due”, dice Carlo, ciondolando la testa.
“Così, quando ci siamo sistemati è nata Teresa, nostra figlia, che ora ha cinque anni. E il sogno si è realizzato. Almeno per un po’”. Carlo si ferma. Si tira i capelli indietro e sospira. “Da quando Lisa se n’è andata incontrare la mia bambina è diventato veramente difficile. Ogni volta sembra una concessione”.
Carlo e sua moglie sono una coppia come tante. Si sono separati dopo un lungo rapporto: “Ancora non ho capito perché è finita. Sì, è vero, forse c’è stato qualche litigio di troppo, ma chi non litiga? E poi più che litigi erano silenzi che a volte sembravano non finire mai. Silenzi carichi di nervosismo. Certo, la bambina ne risentiva, per un periodo piangeva sempre”.
Per un po’ hanno fatto i separati in casa, ma la cosa non poteva reggere. Quando si sono separati il giudice ha affidato la bimba e la casa a Lisa e Carlo è stato costretto ad andarsene senza sapere dove, perché in città non ha parenti. In realtà nemmeno fuori. Il mutuo della casa, cointestato, continua ad essere pagato da entrambi. I mille e cento euro al mese di Carlo, al lordo del mutuo, diventano seicentocinquanta, e con seicentocinquanta euro, come si campa?
Gianni, l’amico d’infanzia, l’ha ospitato per qualche settimana, “ma l’ospite è come il pesce, dopo un po’ puzza, dice con un sorriso amaro.
Allora ha provato con altri amici, tre giorni di qua, due di là, poi con qualche conoscente, e poi in un paio di pensioni fetide vicino alla stazione, a trenta euro a notte, e così, sempre più giù, in un vortice depressivo discendente: i soldi scarseggiano, si esaurisce il giro degli amici che ti possono ospitare e rimani solo. E disperato.
Carlo si trova a vivere in macchina quasi senza accorgersene. Per qualche mese entra in ufficio la mattina presto, per lavarsi. I colleghi e persino il suo capoufficio lo coprono. Poi forse uno fa la spia, per invidia o chissà cosa e così il direttore del dipartimento lo becca al bagno con un asciugamano intorno al collo e la schiuma da barba ancora in faccia. Umiliato, è costretto a raccontare la sua storia. Il direttore lo invita a raggiungere la sua famiglia, e lui risponde che non ha più una famiglia, né un posto dove andare.
Tutte le sere mangia in rosticceria fissando catatonico la televisione. Una sera vede una pubblicità di un’auto di lusso guidata da un distinto signore nero. Accanto viaggia un passeggero bianco. I due parlano del più e del meno, mentre attraversano una splendida campagna verde. La voce di sottofondo dice che prima il guidatore era un homeless e oggi è un broker di successo. La morale è che, nella nostra società delle opportunità, tutti possono scalare le vette. Ma dietro questa c’è un’altra morale: nella società del rischio a chiunque può capitare di avere un’esperienza di vita in strada.
Una notte, mentre stava in dormiveglia nella sua macchina, Carlo viene notato da un operatore dell’unità Mobile della Sala Operativa Sociale del Comune di Roma. I due iniziano a parlare. Carlo si vergogna.
L’operatore lo invita ad entrare in un centro di accoglienza. Lui rifiuta: non sono un barbone, dice. Si danno appuntamento il giorno dopo e si vedono ogni settimana per due settimane. Poi finalmente Carlo si convince ed inizia a frequentare i centri diurni, almeno per lavarsi e cambiarsi d’abito. Dai colloqui con gli operatori del centro emerge la depressione e la difficoltà di Carlo a comprendere la sua nuova situazione.
Pur potendo permettersi economicamente di affittare un posto letto in un appartamento, lo rifiuta, perché non vuole stare con persone che nemmeno consoce. Lo stimolo di un bisogno non produce una risposta conseguente. Carlo rifiuta inoltre la situazione nella quale è precipitato, la sensazione di fallimento che il riflesso del suo volto sul tachimetro della macchina gli rimanda ogni mattina quando si sveglia intorpidito.
“io non sono né di destra né di sinistra” – dice – “certo è che noi ci stiamo americanizzando, ma al contrario di loro non siamo abituati. Il fatto è che senza una famiglia che ti appoggia non puoi fare niente”.
In questo cambiamento epocale che ci trova tutti coinvolti nell’assenza di reti sociali, è venuto a mancare anche un ammortizzatore sociale come la famiglia. Nella nostra società un equilibrio si è irrimediabilmente spezzato. La mobilità sociale non è più soltanto ascensionale. E’ una mutazione culturale che coinvolge tutti, un cambiamento di paradigma dettato dalla flessibilità, questo imperativo categorico che entra nelle nostre vite e ne dispone integralmente. La predisposizione a correre del rischio assume una forma antropologica che delinea i tratti dell’uomo nuovo e della sua identità multipla: una vita sul filo del rasoio, spinta dalla selezione e dalla mobilità perpetua, poiché se ti fermi sei fuori. Ogni individuo deve farsi carico egli stesso dei rischi del suo percorso professionale divenuto discontinuo; deve fare delle scelte e operare per tempo delle riconversioni necessarie.
Il lavoratore deve diventare imprenditore di se stesso, costruire il suo posto di lavoro invece di occuparlo e costruire la carriere fuori dagli schemi lineari dell’azienda fordista. E così si trova isolato, sovraesposto e indebolito, perché non è più sopportato dai sistemi di regolazione collettiva, come dice Robert Castel.
La storia di Carlo non finisce con Carlo.
Soggettivamente lui ce la farà. Per sua fortuna ha un contratto di lavoro robusto e, contrariamente a quel che credeva, non è una persona poi così fragile. Dopo un periodo di alternanza e un buon sostegno psicologico, riuscirà finalmente a trovare il coraggio di guardare in faccia la realtà e affittare un posto letto con altre persone. Poi si vedrà. I mesi trascorsi a dormire in macchina saranno un brutto ricordo e a volte gli capiterà di chiedersi se davvero ci sono mai stati.
Intanto però le persone come Carlo aumentano. Gente comune, come tante. Sono la punta di un iceberg di una società che è cambiata, per sempre.

L’articolo è stato pubblicato sull’inserto “Liberazione della domenica” del quotidiano “Liberazione”, in data 25 settembre 2005.

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