Federazione Italiana Teatroterapia in collaborazione con Fondazione Sipario Toscana e Associazione Politeama di Monza. Cascina (Pisa) 20, 21, 22 Novembre 2003.

Le giornate del 20, 21, 22 Novembre 2003 hanno visto lo svolgimento del convegno nazionale di teatroterapia, nella sede della Fondazione Teatro Politeama di Cascina (Pisa). Sono state tre giornate intense, caratterizzate da relazioni, performance, proiezioni di video, incontri fra diversi operatori del teatro, studiosi, psicologi e psicoterapeuti.
Le righe che seguono vogliono essere un primo contributo per fissare le linee fondamentali di un materiale ricco e composito che vedrà successivamente la luce nella pubblicazione degli atti veri e propri.
Per il momento proponiamo questo testo che è il risultato di un serie di appunti presi nel vivo del convegno.

Premessa

La teatroterapia, secondo le normative della F.I.T. (Federazione Italiana Teatroterapia), può essere condotta da terapeuti, da operatori in ambito psicosociale o da educatori che abbiano svolto un percorso formativo e che comunque contribuiscano a far crescere la federazione con proposte e attività.
Fin da quando sono entrato a condividere quest’ambiente, ho sempre avuto delle resistenze sul termine “terapia”, forse perché il dizionario lo indica come un metodo di cura per una malattia, forse perché appartengo alla categoria di coloro che amano e condividono il palcoscenico.
Come sappiamo gli usi e i costumi sono condizionanti e a volte una parola con una logica condivisa può essere un limite vincolante. E’ naturale però che, chi ha strutturato quest’attività fin dall’inizio, abbia individuato questo termine come il più sintonico a ciò che si era proposto.
Man mano che un’attività cresce, anche se a piccoli passi, comincia a prendere forma, a delinearsi, a maturare, a conformarsi secondo le necessità e le proposte che avanzano (in termini informatici, viene detto “prende una configurazione”). Ed è quello che si sta verificando anche in teatroterapia. Per questo mi sento di affermare che gli ambiti a cui si rivolge questa disciplina sono molto vasti e probabilmente il termine risulterebbe indefinito se si cercasse di trovare i canoni rispetto all’evoluzione in atto, mentre ricercare la concretezza nelle azioni o nei lavori realizzati, in modo da definire dei parametri su cui raffrontarsi è un’attitudine diffusa. Questo sistema però definisce dei confini e la teatroterpia non vuole mettere dei paletti e seguire degli schemi, perché ciò limiterebbe l’evoluzione e la continua trasformazione che avviene al suo interno.
“Teatro o terapia?” E’ una domanda che frequentemente viene fatta da coloro che affrontano l’argomento rimanendo spesso ai margini, senza confrontarsi, magari eludendo il teatro perché terapeuti o la terapia perché artisti o registi.

Impressioni dal convegno.

“Teatro in terapia?” è invece il titolo del convegno che si è tenuto a Cascina, in provincia di Pisa, nelle giornate del 20 – 21 – 22 novembre 2003.
Un titolo con una domanda che contiene un sottile sofisma e che può anche essere soddisfatta con una non risposta.
Le intense giornate del convegno penso abbiano permesso di “confortare” gli attori o coloro che appartengono al circuito teatrale, perché la “sfida” lanciata alla teatroterapia dai “luminari” del teatro non ha ottenuto una risposta diretta, ma una conferma sulla possibilità di condividere la materia in diversi ambiti, al fine di allargarne gli orizzonti e permettere così una più esauriente ricerca psico-fisica, grazie appunto al teatro in sé e per sé.
Molto interessanti, inoltre, sono state le citazioni riportate nelle varie relazioni, riprese dagli autori che, a partire da inizio 900, hanno saputo trasformare e trasmettere l’essenza del teatro (per citarne alcuni: Stanislavskij, Artaud, Vachtangov, Grotowski).
Grazie all’essenza di questo tipo di teatro, nell’ambito della teoria della conoscenza, si sviluppa un nuovo studio dei processi cognitivi umani, attraverso l’individuazione dei metodi di azione e della loro influenza sui processi evolutivi, coi mezzi di un teatro che si occupa dell’attore come persona che sperimenta sul suo corpo e di conoscenze di natura antropologica, mediate da studi sul campo o da osservazioni di un teatro da sempre legato a queste atmosfere (ad esempio il teatro euroasiano). Queste nuove conoscenze hanno contribuito alla nascita di una nuova realtà, appunto la teatroterapia.

La giornata di giovedì 20 novembre è stata dedicata al pre-convegno per gli studenti dell’Università di Pisa e USL Toscana. In questo spazio sono stati trattati, con il coordinamento della dott.ssa Vincenza Quattrocchi, gli aspetti della riabilitazione, attraverso il teatro, nei centri diurni psichiatrici.
Il dr. Mario Betti, psichiatra, referente del Coordinamento Toscano Centri Diurni, ha parlato dello “smascheramento” come di una prospettiva nuova, fuori dal palcoscenico, riferendosi al processo di presa di contatto con le proprie maschere interiori, attraverso le psicoterapie corporee e transpersonali che inducono alla trance (stati modificati di coscienza i cui principi epistemologici sono da ricercare nella psico-omeopatia), fino ad arrivare alla considerazione che le malattie mentali sono un tentativo di trance-formazione non riuscito o per lo meno non consapevole. Con le tecniche teatrali, secondo l’impostazione del dr. Betti, si provoca una disidentificazione dell’Io a favore di un “oltre” o trance-formazione del Sè.
La giornata è poi proseguita con lavori di gruppo sul tema “Maschere e persone oltre la scena. Esperienze teatrali nei centri diurni toscani”, coordinati dal dr. Rolando Paterniti.

Venerdì 21 novembre il convegno è iniziato con due laboratori di teatroterapia dal titolo “Dai giornali viventi al sociodramma” e “Dallo psicodramma alla teatroterapia”, tenuti rispettivamente da Rossella Fasano (Attrice-Operatrice in teatroterapia) e dal dr. Walter Orioli (Psicologo e Presidente F.I.T.).
In entrambi i laboratori si è voluto evidenziare come, mediante piccoli, ma intensi, lavori con il corpo, si possa imparare a conoscersi attraverso il “fare”.

Rossella Fasano, ha dato il via ai lavori, dopo una breve introduzione teorica sull’origine del “giornale vivente”, punto di partenza per arrivare al “sociodramma” di Moreno. Raccogliendo due articoli da un quotidiano, ha invitato i partecipanti al laboratorio a sviluppare una drammaturgia, concedendo, in quello iniziale, abbastanza tempo per lo studio dei dettagli, mentre nel secondo, solo pochi minuti. I partecipanti hanno potuto così notare la diversità dei prodotti ottenuti.
Nel primo caso si è avuta una elaborazione mentale, attenta, più strutturata, mentre la parte emozionale e il coinvolgimento sono stati un po’ elusi; nel secondo si è manifestata più improvvisazione e immediatezza: il “qui ed ora” ha prodotto più spontaneità e creatività, grazie anche al coinvolgimento del corpo e all’apporto delle emozioni personali.

Walter Orioli, con il laboratorio sullo psicodramma, ha introdotto le fasi della teatroterapia a mediazione teatrale, dal pre-espressivo, all’espressivo e al post-espressivo, attraverso un lavoro con il corpo, a partire dalla semplice camminata e dallo sviluppo di aspetti personali attraverso l’arte (in quest’occasione una scrittura libera e automatica sulle emozioni) per giungere al coinvolgimento collettivo in una performance finale di gruppo.
Per ogni laboratorio si è avuta una verbalizzazione finale per permettere ad ogni partecipante di comunicare il proprio vissuto.
Nel pomeriggio è stata la prof.ssa Maria Ines Aliverti, docente di Disciplina dello Spettacolo alla Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa, ad iniziare la parte teorica, con una sua introduzione alla stessa e con la presentazione dei relatori della giornata.
La prof.ssa Aliverti, dopo aver definito la teatroterapia come metodologia clinica o di cambiamento attraverso l’atto creativo e la terapia a mediazione teatrale un lavoro sul paziente attraverso l’uso consapevole della tecnica teatrale, ha dato la parola al prof. Marco De Marinis, direttore del Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna, per una relazione su “il Teatro e (è) la cura (?)“.
De Marinis ha posto subito un interrogativo: “il teatro può salvare o migliorare chi lo fa e/o chi lo guarda?“. Ed ha proseguito affermando che, quando si fa teatro, si vive, nel senso letterale, un’esperienza, grande o piccola che sia; nel corpo dell’attore avviene una trasformazione e spesso, dopo che l’attore si è esibito, nella sua parte più intima esiste una sorta di isolamento che lo fa star bene. Si è verificata compiutezza, si è manifestata integrità.
Nell’animo dell’attore, dopo che questi ha lavorato per lo spettacolo, esiste la necessità di trasmettere un messaggio non riferito al fare o al dimostrare, ma al comunicare. L’attore teatrale si sente pronto per dare la parte migliore di sé, la sua gioia.
Questa gioia giunge anche allo spettatore che condivide l’attimo e partecipa attivamente all’evento. Il teatro allora fa star bene e, per chi lo fa e per chi lo vede, può essere anche una “cura”.
L’attore, prima di entrare in scena, si esercita, lavora su se stesso e durante l’attività incontra delle difficoltà poste a vari livelli, che deve superare. Subentrano dei meccanismi dove l’individuo è agito più che agire ed è proprio in questi momenti che l’attore deve avere padronanza; quello che è agito in scena serve poi anche nella vita.
Il teatro da fine si fa mezzo, luogo terapeutico e pedagogico, porta con se le azioni perché a teatro non si recita, si “agisce”.
Il teatro si rivolge a tutti coloro che nel teatro non vedono uno scopo, ma un mezzo, a quanti si danno pensiero di una realtà di cui il teatro non è che un segno. Non ci si rivolge allo spirito o ai sensi degli spettatori, ma a tutta la loro esistenza. Giochiamo la nostra vita nello spettacolo che si svolge in scena. Essere normali non ci piace” (Antonin Artaud – “Il teatro e il suo doppio”).

De Marinis ha lasciato poi la parola a Walter Orioli che ha replicato: “Persistere nella propria follia è la strada per la saggezza. Chi sono io? Sono un artigiano, sono un agito del teatro, da questo sono stato toccato e cambiato!“. Ed è con certo imbarazzo che Orioli ha iniziato la sua relazione dal titolo “Cos’è la teatroterapia?”, un imbarazzo istintuale, emotivo, che ha lasciato dietro alle parole un senso di umanità che ha permesso di arrivare maggiormente al cuore di chi stava ascoltando.
Orioli ha spiegato di come la teatroterapia si serva del teatro, di come attraverso di esso si riesca a creare quel momento utile all’attore/persona, per uscire dal quotidiano, dal materiale, e dare una forma a ciò che non è visibile.
La teatroterapia, ha continuato Walter Orioli, si serve di uno spazio (setting), dove agire a livello fisico e psicologico ed è grazie al lavoro di gruppo che si creano le dinamiche di movimento. Proviamo ad immaginare delle persone che, all’interno di un ambiente, si trovino costrette a muoversi in modo diverso da quello abituale. Osserveremo che, dentro questo spazio, da una stato ordinato di routine, si passa ad uno stato caotico, non organizzato, di confusione, dove si mette in discussione la “procedura ordinaria”. Dopo un momento di caos, avviene un processo, queste persone innescano un modello di lavoro a rete, scambiandosi le opinioni e cercando soluzioni differenti e trovano un nuovo equilibrio. Questo avviene in qualsiasi momento della vita, quando succedono dei cambiamenti seri o meno seri, quando ognuno deve trovare una nuova condizione per vivere. La teatroterapia permette di aprire dei confini fino ad allora rimasti sconosciuti coinvolgendo l’attore/persona nella sua complessità di mente corpo e spirito.
Come si evolve una realtà complessa? Da dove può partire?
Non c’è un punto di partenza, tutto dipende dalla situazione in cui ci si viene a trovare. E’ importante che il processo proposto nel setting metta i partecipanti a proprio agio e nella condizione di evolvere. Attraverso le tecniche teatrali, l’attore/persona, uscendo dal quotidiano, sviluppa un processo di trasformazione, quasi inconsapevolmente genera un caos interiore, messo in moto da una spinta di forze che fino a quel momento erano rimaste in uno stato di quiete, per poi, attraverso le sue potenzialità, proporlo a se stesso e agli altri, coinvolgendo oltre il livello tecnico anche quello regressivo, creativo, libero e sensoriale. Tutto questo, svolto all’interno di un setting teatrale, permette, in un tempo non quantificato, di trovare un equilibrio.
Il processo proposto dalla teatroterapia ha come struttura portante il campo del pre-espressivo: ascoltarsi e sentirsi attraverso modalità operative. Questo aspetto e seguito dalla fase espressiva: è ciò che fonde la realtà (il mondo), è il corpo nello spazio che si esprime attraverso il personaggio; al termine dello stesso c’è il post-espressivo, cioè la riflessione sulle dinamiche sia psicologiche che teatrali del testo e delle azioni proposte.

Successivamente è stata la volta del dr. Alessandro Garzella che, con il tema “Il gioco e il sintomo”, dopo una breve parentesi su come il teatro contribuisca e permetta al malato di esprimersi raccontando la sua storia, seguendo un percorso che va dal racconto di una leggenda favolosa con aspetti allegorici, alla maschera e al gioco, ha proposto la visione di un documento di storie raccontate da psicotici di cui cito solo alcuni brani di dialogo molto significativi.
“Si cammina su lunghi corridoi dove cammini, cammini e non arrivi mai”.
“Vai nella tua stanza dove puoi dormire o pensare, ma non tutti sono in grado di pensare. Alcuni sono tormentati dalla loro parte migliore”.
“Che cos’è la vita? Raccontiamo l’eterna storia di noi stessi”.
“No, non siamo mai contenti di noi stessi”.
“La follia è un sottile filo rosso che divide il logico dall’illogico”.
Dopo questa visione veniamo invitati ad assistere alla performance a canovaccio con la presenza di attori e persone con disturbi mentali, ideato dal Fabrizio Cassanelli e lo stesso Alessandro Garzella, dal titolo “Crazy Shakespeare”.

La dott.ssa Daniela Tedeschi, psicologa, psicoterapeuta, ha invece, in un momento successivo, raccontato l’esperienza con finalità terapeutiche e riabilitative, rivolta ad alcune persone con disturbi del comportamento alimentare.
Grazie alla teatroterapia, che le ha permesso di usare tecniche a mediazione teatrale, in un’ottica sistemico – relazionale, ha avuto risultati molto soddisfacenti ed ha agito con efficacia sulla multicausalità che interessa l’eziopatogenesi dei disturbi alimentari.
Tedeschi, nel suo percorso, ha scelto di dar vita ad una transizione che, come momento rituale di passaggio, è stata messa in scena esclusivamente davanti ad un pubblico amico.
Il percorso è stato itinerante e la transizione non è replicabile, ma la sensazione, che queste persone hanno provato nella condivisione, è stata di un cambiamento nell’essere protagoniste, non di un gioco patologico, ma della loro stessa vita.
Lavorare con la teatroterapia ha permesso loro di avere consapevolezza del proprio corpo e di renderlo strumento di relazione che permette di comunicare e di mantenere l’attenzione, attraverso l’espressione di un racconto “vero” e l’eliminazione degli automatismi e formalismi che hanno il limite di non scuotere lo stato d’animo o l’emozione che si va a raccontare (cioè la “propria” storia). Racconti con varie disavventure che hanno visto come protagonisti persone che fino ad allora non avevano mai dato voce alla loro sofferenza. Tedeschi li ha definiti “volti appesantiti dall’apparente impossibilità di cambiare, come se non avessero mai avuto modo di scegliere perché segnati da un destino senza via di uscita”.

Finiti i lavori della giornata, l’appuntamento viene fissato per l’ indomani mattina.

Sabato 22 Novembre ha dato l’avvio ai lavori la dott.ssa Enrichetta Buchli, psicologa junghiana, seguita dalla dott.ssa Carla Pollastrelli, della Fondazione Pontedera Teatro. Entrambe si sono rivolte alla platea con numerose citazioni di Vachtangov e di Grotowski a proposito di conscio, inconscio, archetipo e rito, affermando che l’errore che si fa nelle scuole di teatro è quello di insegnare invece di educare.

Particolarmente significativa è stata questa citazione da Eugenio Barba:
“Il teatro, se vuol rianimare e stimolare la vita interiore degli spettatori, deve infrangere ogni resistenza, frantumare ogni cliché mentale che protegge l’accesso al loro subcosciente. Nel teatro laboratorio gli spettatori sono costretti ad affrontare il più segreto, il più nascosto “io”. Gettati nel mondo dei miti, essi debbono, allo stesso tempo, riconoscersi e giudicarli, esaminandoli alla luce delle proprie esperienze come individui del ventesimo secolo. Questo confronto e questo smascheramento molti lo sentono come un sacrilegio, in realtà ci si trova di fronte ad una antica catarsi, o per dare una definizione a noi più vicina, ad una terapia psicoanalitica.” ( E. Barba – “Alla ricerca del teatro perduto“).
Ed è proprio dai miti che ha iniziato la sua relazione il professor Claudio Bernardi, docente di Antropologia del Teatro all’Università di Brescia, identificando nel mito di Arianna e Teseo il riepilogo dei valori e dei problemi dell’azione terapeutica, dell’arte scenica e del teatro sociale.
Dopo averne dato una lettura psicologica junghiana, definendo i vari personaggi del mito come “figure dell’ interiorità”, Bernardi ha dato un’interpretazione di ordine politico per arrivare a spiegare il ruolo del teatro sociale in relazione alla terapia e alla ricerca teatrale.
Teseo è il politico, Arianna la cura, il Minotauro l’emblema dei problemi sociali che colpiscono la comunità, il labirinto è il controllo politico. Brevemente: “Teseo vince sulla violenza e supera il vecchio sistema seducendo Arianna. Il politico e la cura con la promessa di matrimonio sembra garantiscano al mondo pace e giustizia, ma c’è Dionisio, dio dello spettacolo, che, innamorato di Arianna e geloso di Teseo. provoca il divorzio. Lo spettacolo seduce la cura”.
I messaggi che il mito trasmette sono visioni drammatiche di tragedie causate dai nostri errori d’orgoglio. Si assiste spesso ad una propensione per il teatro e per le artiterapie da parte dei terapeuti che scoprono lo spettacolo in uno spazio di cura. Così il malato viene oscurato, nella soddisfazione del narcisismo del terapeuta, che rincorre Dionisio, dio dello spettacolo e del successo.
E il teatro? Il teatro, soprattutto quello di ricerca, trattiene la cura nell’isola, rivendicando la propria autonomia. “Non è compito nostro occuparci degli altri, è compito del politico.” Gli artisti non hanno una Arianna fuori che li attende, non pensano che ci sia qualcuno da salvare oltre a se stessi, hanno necessità di volare come Icaro e quando si lanciano nel sociale, raccolgono le pene, che trasformano in “penne per volare” in alto. Nel loro teatro c’è la trasformazione, il rito, ma se la loro ricerca fosse autentica dovrebbero rinunciare al potere di Minosse e al narcisismo di Dionisio, seguendo Teseo per liberare gli uomini dal labirinto seguendo il filo d’Arianna.
Nel teatro sociale è indispensabile abbandonare l’amor proprio dell’artista, dell’essere prima donna e saper confrontarsi con terapeuti, operatori, educatori, pazienti e creare l’organico di ricerca in una drammaturgia sociale che forma la comunità. “Il teatro sociale è un’arte che fa e costruisce la società”.
La giornalista dott.sa. Renzia D’Incà, partecipante al convegno come “critico teatrale”, ha affermato che l’arte di per sé non è terapeutica, ma lo può diventare se chi la propone ha un atteggiamento terapeutico. La dottoressa ha ripreso la tematica del video del dr. Garzella, sottolineando come egli abbia usato il sintomo come divertimento: “Nel trovare il personaggio, ha trovato una funzione altra”.
Ha concluso lo psicologo e teatroterapeuta dr. Davide Pagnoncelli con il tema: “La psicologia adleriana e la teatroterapia”.
Dopo aver letto un racconto dal titolo: “Il buio”, Pagnoncelli lo ha lasciato “riposare”… per passare ad illustrare brevemente la vita di Alfred Adler. Le esistenze concrete, infatti, sono di stimolo e di incoraggiamento per concretizzare alcuni progetti.
Per Ellenberger, non adleriano e autore di una poderosa opera in tre volumi “La scoperta dell’inconscio”, Adler ha dato il via alla moderna medicina psicosomatica, era un precursore della psicologia sociale e dell’impostazione sociale dell’igiene mentale ed è da considerarsi uno dei fondatori della psicoterapia di gruppo. In seguito ha illustrato quali possono essere i capisaldi tra la teatroterapia e il pensiero di Alfred Adler.
Il dottor Pagnoncelli ha sostenuto che Teatroterapia e Psicologia adleriana non possono che essere antidogmatiche, positivamente pragmatiche e transculturali, in quanto rispettivamente una si alimenta di ricerche continue in diversi campi del sapere, nessuno escluso, e l’altra è aperta al nuovo, è flessibile, è evolutiva, è sperimentale. Entrambe le discipline sono di carattere psicosociale e rimarcano il carattere finalistico, aperto al futuro, dell’esistenza umana, inoltre si alimentano di processi e procedure artistiche. Per Adler “il sentimento sociale è il barometro della normalità”.
La teatroterapia si ispira alle diverse discipline umanistiche e artistiche e non ha certezze o riferimenti scientifici troppo razionali, in essa si realizzano performance espressivo-evolutive altamente originali e creative che coinvolgono sia il gruppo che il teatroterapeuta. Anche per Adler la psicologia, la psicoterapia e l’analisi sono strettamente connesse con gli aspetti creativi sia del paziente che dell’analista. L’analista è più artista che scienziato, durante l’analisi si forma una relazione che Adler definisce la “coppia creativa”.
Sia la teatroterapia che la psicologia adleriana fanno riferimento a caratterizzazioni ludiche che risultano fondamentali per l’osservazione e l’intervento educativo e terapeutico, tenendo presente il “gioco delle maschere interiori”, il “gioco del come se”.
Inoltre Adler è stato tra i primi a studiare quello che ha chiamato “il linguaggio degli organi”, cioè l’utilizzo degli organi da parte dell’individuo per strutturare un fine. La teatroterapia considera l’uomo nella sua unità psicosomatica.
Infine la teatroterapia e la psicologia adleriana sostengono che il patrimonio genetico si modifica attraverso l’interazione con l’ambiente e fanno riferimento ad una concezione olistica ed ambientale dell’uomo.
Pagnoncelli ha cocluso ritornando al racconto iniziale, il nevrotico “al buio” ha paura e si sforza di aprire gli occhi, lamentandosi che nessuno faccia luce. Egli non sa immaginare, vorrebbe solamente vedere.
Ecco perché la teatroterapia e la psicoanalisi adleriana cercano di immaginare, di ricostruire e di mettersi in contatto con quello che non si vede: le ombre inquietanti, le venature di follia all’interno della cosiddetta normalità, le maschere-finzioni individuali e collettive, le potenzialità nascoste che ci preoccupano e ci attirano potentemente.
Esse, sbilanciate verso il lato artistico delle cose, sanno immaginare e sanno intravedere oltre il visibile. O almeno cercano di farlo.

Nel pomeriggio altri tre incontri hanno concluso le due intense giornate del convegno:
la performance interattiva, condotta dal Teatro della Spontaneità, “Amleto a luci spente”; il laboratorio di Kallol Carlucci, attore e operatore in teatroterapia: “La risata che potenzia”, con sottotitolo “dal ridere fa bene, ossia una disposizione positiva della mente. Un atteggiamento attivo e reattivo sono i presupposti di una buona salute”.
Infine il Teatro dell’Ortica in collaborazione con il C.I.R.S. e con il centro diurno di Serino della USL 3 Genovese, con la messa in scena: “Il viaggio delle cose”. Come da locandina lo spettacolo parte da un percorso di laboratorio in cui viene affrontato il tema della memoria individuale e collettiva attraverso la riscoperta di oggetti e situazioni quotidiane che appartengono alla storia di ciascuno. Gli attori si muovono con naturalezza ricorrendo, pur nella delicatezza del tema, all’uso di tecniche mutuate dalle gags del teatro di avanspettacolo, dalla danza e dalla poesia.
Con queste ultime performance si sono concluse le tre giornate intense del convegno nazionale sulla teatroterapia.

Mauro Fantinel, regista teatrale, teatroterapeuta, vive a Feltre (Belluno) ed opera nella sua città e nel bellunese.

Share This