I due articoli, di Giovanni Lancellotti “Turista per caso e Barbara Siniscalco Riflessioni su “Turista per caso”, sono elaborazioni degli interventi all’incontro del 24 febbraio, al Centro Script, “Le emozioni del dolore. La fatica del vivere”.

locandinaTURISTA PER CASO di Lawrence Kasdan

Soggetto: dal romanzo omonimo di Anne Tyler
Sceneggiatura:
 Frank Galati, Lawrence Kasdan
Musica: 
John Williams
Montaggio: 
Carol Littleton
Scenografia:
 Bo Welch
Costumi: 
Ruth Myers
Suono:
 David MacMillan
Interpreti e personaggi principali:
William Hurt (Macon)
Kathleen Turner (Sarah)
Geena Davis (Muriel)
Amy Wright (Rose)
Edward, il cane di Macon, in realtà si chiama Bud.
Produzione: 
Lawrence Kasdan, Charles Okun e Michael Grillo per la Warner Bros.
Distribuzione: 
Warner Bros
Durata: 
122’
USA 1988

Protagonista del film è un uomo di nome Macon, di Baltimora, autore di guide turistiche per uomini d’affari che vogliono mettersi al riparo da ogni imprevisto durante i loro viaggi. Quando lo conosciamo Macon ha il morale a terra: gli è morto il figlio dodicenne (ucciso accidentalmente durante una rapina in un supermercato) e sua moglie Sarah ha chiesto il divorzio, non potendo più vivere con un uomo che, anche se soffre per la scomparsa del figlio, rimane chiuso nel suo dolore, che non riesce a condividere con la moglie. Rimasto solo col proprio cane, Macon si rompe una gamba ed è costretto ad andare a stare nella vecchia casa di famiglia, ancora abitata da una sorella e da due fratelli. La sorte gli fa incontrare Muriel, una giovane donna, madre del piccolo Alexander, che di professione fa l’addestratrice di cani. Muriel si innamora di Macon che, in un secondo momento risponde all’amore, anche se non se la sente di sposarla. Sarah, la moglie separata, gli chiede di tornare insieme e Macon non sa dire di no. La ritrovata convivenza è però di breve durata. Durante un viaggio a Parigi, l’uomo si separa definitivamente dalla moglie Sarah e le preferisce Muriel.

(Con qualche variazione è stata riportata la lettura delle vicende del film come le presenta il critico cinematografico Giovanni Grazzini in Cinema ’89, Laterza 1990, pag.58.
La lettura che ne dà il critico – anche nel seguito dell’articolo – è un esempio della percezione “minimale” del film di Kasdan, già dalla trama trattato come un prodotto americano di inguaribile ottimismo individualistico, quasi una “pubblicità alla vita”, testimoniata anche dal macchinoso e ostentato happy end).

L’incipit del film è nel segno dell’incertezza e introduce una “mobilità dolente”.
Lo sfondo dei titoli, in un primo momento, è indistinto. Soltanto dopo qualche secondo, con la comparsa del feticcio “valigia”, si capirà che è la trama di un copriletto, con tutta probabilità di una camera d’albergo.
Gli oggetti che le mani mettono nella valigia (scopriremo che si tratta di Macon, il protagonista, interpretato da William Hurt) sono in primo piano, a sottolinearne la materialità e, con la voce fuori campo, anche la loro convenzionalità.
Nell’ordinare gli oggetti contenuti nella valigia, attribuendo ad ognuno un significato pratico e “relazionale” (quest’ultima area semantica attribuita soprattutto al libro e al vestito grigio), già compaiono quei caratteri di fobia e maniacalità che verranno più esplicitamente sottolineati in seguito, con riferimento alla famiglia di origine di Macon (la sorella e i due fratelli, agorafobici e maniacali).
Il volto di Macon, nella sequenza iniziale, viene ripreso in primo piano, dal basso, a seguito della parola (pronunciata dal narratore fuori campo) “perdita” (si riferisce alla morte del figlio adolescente, ucciso accidentalmente nel corso di una rapina in un supermercato).
Non è un caso che la parola perdita apra allo scenario del volto, l’icona psicologica per eccellenza, perché il plot del film è centrato sul rapporto che tutti i personaggi hanno con la perdita e la successiva “pratica” di memoria nei suoi confronti.
Macon chiuso a torre d’avorio; Sarah (la moglie) che non riesce a sopportare il dolore da sola (già di per sé il dolore porta solitudine) e che si allontana dalla chiusura del marito; Muriel (di cui si innamorerà Macon) che copre la perdita dovuta al suo divorzio con una vitalità soltanto apparentemente superficiale; Alexander, il figlio di Muriel, ammalato di allergie invalidanti, dall’aspetto esile, che è bollato dai compagni di gioco come “mostro” e che, di fronte a questo, riesce a dire “non è niente, ci sono abituato” (abituato ad aver perso una identità di bambino normale); i fratelli di Macon, che hanno perso la possibilità di orientarsi fuori casa e che custodiscono la loro immobilità mortuaria.
All’interno di questo mondo pieno di falsi movimenti, il “clinamen” rappresentato soprattutto da Macon, con un percorso doloroso e accidentato, da Muriel, con una vitalità delicata e curiosa e, parzialmente da Rose, la sorella di Macon, che però, anziché adeguarsi alla vita e fuggire dalla prigione maniacale, piega la realtà a sé, con un adattamento patologicamente egosintonico e “secondariamente” manipolatorio.

Tra gli altri personaggi spicca il cane Edward, paragonabile allo spiritello Ariel, personaggio de “La tempesta”, libero però dalle arti magiche di Prospero. Tutto istinto e “desiderio” è il motore del nucleo centrale della vicenda filmica, cioè il passaggio di Macon dalla vuotezza catatonica di un lutto fallito al nuovo spazio della vita. È infatti il pestifero cagnolino che interrompe l’asfittico ritmo della solitudine di Macon, perchè è causa involontaria della frattura alla gamba e del successivo bisogno del protagonista di trovare chi “ammaestrasse” Edward.
Il “movimento” canino viene rappresentato dalla scena che ha come location la cantina della casa di Macon: l’assalto e la caduta di Edward spaventato in braccio a Macon sulle prime fa scomparire il meccanismo maniacale, quasi macchina sterile da single, rappresentato dalla caduta del cesto della biancheria sporca dal piano terra, attraverso una botola, sul monopattino collocato in cantina, per poi arrivare alla lavatrice.
In questa breve sequenza l’occhio di Kasdan si sofferma con ironia sul mondo “concentrazionario” del fai da te dell’uomo medio americano (la medierà vira spesso verso la mostruosità, perché nel mondo moderno ha perso del tutto l’aurea mediocritas oraziana).
Edward (che nella sua reale vita canina si chiama Bud) è, allo stesso tempo, anche il legame col figlio morto, per cui Macon non se ne vorrà disfare, pressato in questo dai suoi fratelli e dal suo datore di lavoro, e ancora è la vitalità scomhè è causa involontaria della frattura alla gamba e del successivo bisogno del protagonista di trovare chi “ammaestrasse” Edward.
Il “movimento” canino viene rappresentato dalla scena che ha come location la cantina della casa di Macon: l’assalto e la caduta di Edward spaventato in braccio a Macon sulle prime fa scomparire il meccanismo maniacale, quasi macchina sterile da single, rappresentato dalla caduta del cesto della biancheria sporca dal piano terra, attraverso una botola, sul monopattino collocato in cantina, per poi arrivare alla lavatrice.
In questa breve sequenza l’occhio di Kasdan si sofferma con ironia sul mondo “concentrazionario” del fai da te dell’uomo medio americano (la medierà vira spesso verso la mostruosità, perché nel mondo moderno ha perso del tutto l’aurea mediocritas oraziana).
Edward (che nella sua reale vita canina si chiama Bud) è, allo stesso tempo, anche il legame col figlio morto, per cui Macon non se ne vorrà disfare, pressato in questo dai suoi fratelli e dal suo datore di lavoro, e ancora è la vitalità scomposta, ma naturalmente presente, che va però riconosciuta ed educata. Per il tramite di Edward entra in campo Muriel,non soltanto custode, ma anche addestratrice di cani.

fotogramma 1Muriel è spesso colta con immagini fisiche: le gambe, mentre cammina o è seduta, il braccio che cinge sui fianchi Macom, recatosi a casa sua prostrato dalla disperazione, il volto, truccato in modo da amplificare i tratti somatici salienti (gli occhi, la bocca, le guance).
Muriel è la fisicità rigeneratrice, la figura moderna della “brava ragazza” alla Doris Day, convinta e decisa anche a rischiare un agito dalle conseguenze imprevedibili, come l’accompagnamento “clandestino” di Macon a Parigi.
È la figura filmica (femminino consolatore e vitale) contrapposta e asimmetrica ad un maschile depresso e mortuario.
La sua carica amorosa ed erotica è delicata, il tocco di Kasdan la fa essere vicina ad una donna di Truffaut, anche se con minori tratti ambigui e inquieti.

fotogramma 2Sarah, la moglie di Macon, è un’icona più “convenzionale”: la moglie che abbandona il marito, nel momento in cui viene meno la presenza del figlio, perché questo evento l’ha messa di fronte ad un marito senza comunicativa e ritenuto responsabile del logorio della loro vita comune. Questa scelta di Sarah si rivela però un falso movimento (il ritorno alla normalità è dietro l’angolo) che non ha una valenza trasformativi, è una determinazione del tutto sociale e familistica (le abitudini domestiche, la collaborazione nella vita quotidiana, la partecipazione alle occasioni di relazione parentale). Macon cadrà anche lui in questa trappola, dopo un altrettanto falso movimento che lo porterebbe ad un nuovo inizio di vita coniugale. Filone quasi a sé, ma molto significativo (per l’immagine e l’importanza narrativa) è l’insieme delle sequenze che riguardano i fratelli e la sorella di Macon. Questa parte è girata quasi esclusivamente in interni (la casa e le sue stanze: la sala da pranzo, il salotto, la cucina). Si tratta di un mondo completamente autoreferenziale, maniacale, intriso di autismo sociale (un segno per tutti il telefono che squilla senza che mai nessuno vada a rispondere). È una realtà che si lascerebbe deperire, pur di non essere contaminata dall’altro. L’unica apparente eccezione, per lo sviluppo (o falso sviluppo) del personaggio è Rose, la sorella di Macon, che, da vestale di questo tempio di “nirvana” malato, tenta di uscire con una scelta di relazione e matrimonio con Julian, il datore di lavoro di Macon. Ma anche questo si rivela un falso movimento: di fronte al lasciarsi andare dei fratelli Rose “torna a casa”, operando una successiva apparente trasformazione-inglobazione, in quanto la sua maniacalità si rende utile per organizzare l’ufficio del marito. La “piovra patologica” ingloberà così anche la nuova vita di Rose.

Con un salto critico notevole, ma in ascolto di suggestioni che si affollano liberamente intorno alla memoria filmica, questo scorcio di film ha evocato due diversissime opere: “Il giardino dei Finzi Contini” di Vittorio De Sica e “Dimenticare Venezia” di Franco Brusati.
Nessun raffronto filologico, ma soltanto impressioni:
In “Il giardino dei Finzi Contini” (1970) l’isolamento e l’autosufficienza della famiglia sono un adattamento alle proibizioni che colpirono gli Ebrei in Italia, a seguito delle leggi razziali fasciste del 1938.
L’autoreferenzialità, in questo caso, era un pesante preludio all’ingresso in questo mondo della violenza politica, che non si sarebbe certo fermata davanti all’apparente custodia del muro del giardino.
Particolare curioso e casuale: nel film di De Sica (e prima nel romanzo di Bassani) il telefono è il mezzo per difendere la riservatezza esistenziale e culturale della famiglia Finzi Contini.
Micol (la protagonista femminile, nel film interpretata da una giovane Dominique Sanda) esprime questo preciso parere: “Per difendere la propria libertà non c’è di meglio che una buona derivazione telefonica”.
In questo caso il telefono è il mezzo per “vedere senza quasi essere visti” e quindi comunque un mezzo di comunicazione.
Nella casa dei fratelli di Macon il telefono che squilla a vuoto è soltanto il simbolo dell’espulsione violenta di una possibilità di identificazione che si basi su un “io-tu”, che rimane in tutti i modi un io incluso, o al massimo un freddo e simbolico “noi”, ristretto a pochissimi contatti.

L’altra allucinazione filmica è prodotta dal film di Franco Brusati “Dimenticare Venezia” (1979). Anche in questo caso ci ritroviamo di fronte ad un universo di membri familiari o di persone con costanti rapporti con una famiglia che desiderano rimanere incontaminati, in un eterno mondo di surreale adolescenza, autoprotetta ed autosufficiente anche da un punto di vista amoroso (connaturandosi, quest’ultimo aspetto, anche in una sofferta e indifesa omosessualità). Questo “mondo a parte” verrà sovvertito dalla morte di un membro della famiglia che porterà alla “caduta della casa” e all’inizio di un viaggio e di un distacco verso l’ignoto della separazione da un’unità prenatale.

Kasdan, da parte sua, descrive invece in profondità la fissità nevrotica e autodistruttiva di relazioni fobico-maniacali, tenute insieme ed alimentate (nel senso materiale della parola) da un ruolo materno simil simbiotico e, nella sostanza, “alimentare-possessivo”, della sorella Rose.
Anche l’andata a Parigi della moglie di Macon, se de facto è determinata dal forte mal di schiena che lo blocca e dal sostituirlo nel lavoro, è comunque emanazione di una decisione che viene da Rose, diventata moglie-segretaria del direttore della piccola casa editrice per cui lavora Macon.
Quindi può essere letta, più che una manifestazione di affetto di Sarah, come un tentativo di inglobare Macon nel sistema famiglia.
E a questo Macon manifesterà tutta la sua dolente opposizione.
Le scene parigine, (da quando Macon esce dall’hotel, abbandona la valigia, sale sul taxi, vede Muriel e, insieme, andranno all’aeroporto) sono, a prima vista, fortemente convenzionali. Il tutto non ha nulla da invidiare ad un happy end di commedia cinematografica hollywoodiana anni cinquanta.
Da un regista come Kasdan (cinefilo, sceneggiatore, scrittore di cinema) non ci si può aspettare una “svista” di questo genere, quindi si tratta di una scelta registica ben ponderata.
Si può pensare che questa scelta sia stata fatta in ottemperanza al romanzo da cui è stato tratto il film, per ragioni di ordine produttivo (con tutta probabilità legate alla concessione del diritto di autore per lo sfruttamento cinematografico del romanzo da cui è tratta la sceneggiatura).
Può però essere letta fondamentalmente come una sorta di dimostrazione quasi didattica della “classicità” del lieto fine, costruito come una summa della trasformazione dopo le avversità degli impedimenti. Infatti la simbologia è estremamente manifesta: l’abbandono della valigia (la provvisorietà), l’inversione di marcia del taxi (cambiamento di vita), il ragazzo che ferma il taxi (riconciliazione con la memoria del figlio), la accettazione definitiva del rapporto con Muriel (cioè di una reale ripresa di vita).
È possibile che questo finale possa essere letto come una dimostrazione di nitidezza cinematografica e un voluto congedo sui generis nei confronti di un cinema che non esiste più.


LAWRENCE KASDAN (Miami 1949).

Nato in Florida e cresciuto nel West Virginia, lavora come copywriter presso alcune importanti agenzie pubblicitarie. Da sempre interessato alla scrittura comincia a mostrare un importante talento di sceneggiatore già con L’impero colpisce ancora di Irwin Kershner.
L’impegno con la trilogia ideata da Gorge Lucas (Guerre stellari) prosegue poi con Il ritorno dello Jedi (1983) di Richard Marquand.
Scrive anche Chiamami aquila (1981) di Michael Apted e I predatori dell’arca perduta(1983) di Steven Spielberg, affermandosi come uno dei più dotati sceneggiatori di Hollywood.
Ancora nel 1992 un suo soggetto viene diretto da Mick Jackson, Guardia del corpo.
Il suo amore per i generi classici, mescolati con disinvoltura, segna tutta la sua carriera, sebbene venga ricordato per lo più grazie alla vena intimista e alla pacata profondità dei personaggi messi in scena.
Il suo esordio da regista, Brivido caldo, rappresenta il primo di una lunga serie di omaggi al noir classico, con William Hurt e la bellissima dark lady Kathleen Turner.
Il grande freddo, interpretato da un folto gruppo di attori, tra cui William Hurt, Tom Berenger, Glenn Glose, Kevin Kline, ottiene un grandissimo successo e diviene modello imprescindibile per molti altri film di bilancio generazionale, mentre Silverado fa parlare di ritorno in grande stile del genere western.
Turista per caso, una densa riflessione sulla precarietà degli affetti, chiude brillantemente gli anni Ottanta da cui Kasdan si distacca nel 1990 con una sorprendente commedia nera, Ti amerò…fino ad ammazzarti, con Kevin Kline e William Hurt, i suoi attori feticcio.
Se Grand Canyon viene ingiustamente accusato di eccedere nella compassione per i protagonisti presi nel girotondo dell’esistenza, il monumentale Wyatt Earp, con Kevin Costner, rappresenta il progetto più ambizioso del regista, quello in cui s’incontrano alle vette più alte litografie d’America e cinema di genere.
Il doloroso insuccesso del film lo costringe a ripiegare su una sottile commedia romantica, French Kiss, ancora con Kevin Kline e Meg Ryan, e a chiudersi in un lungo silenzio.
Il ritorno avviene grazie a un piccolo film, Mumford, in cui ritornano i temi cari al regista, dal ritratto umanista di provincia, al racconto dei paradossi della vita.
L’occasione di rientrare nel giro della Hollywood ufficiale viene fornita da L’acchiappasogni, trasposizione dall’omonimo romanzo di Stephen King, che a fronte d’un buon esito al botteghino restituisce un Kasdan confuso e poco riconoscibile.

L’opera di Kasdan può essere grosso modo suddivisa su due assi principali. Sul primo, a partire da Brivido caldo, si possono sistemare i film grazie ai quali egli cerca di ricostruire e aggiornare l’esperienza classica di genere. L’atteggiamento cinefilo , in questo caso, perde l’aura di dura contestazione presente nel cinema noir o western degli anni Settanta e assume invece le forme d’una diversa e più disincantata nostalgia verso il Mito.
Ecco perché Lawrence Kasdan viene considerato così omologo agli anni ottanta, dove molto del cinema hollywoodiano – sebbene in maniera più superficiale – va in quella direzione.
Film come Silverado o Wyatt Earp, sia pure l’uno scherzoso e il secondo tragico, impostano un confronto di grande respiro e consapevolezza con il passato cinematografico, tentando di fondare coesione e credibilità.

La sincera comicità di Ti amerò…fino ad ammazzarti e l’omaggio alla commedia classica di French Kiss, sebbene meno incisivi degli altri titoli citati, non vanno considerate solo opere minori, bensì ulteriori scritture del cinema che fu.
Una seconda tendenza poetica è in vece quella del cinema d’autore più drammatico de pensoso. Il grande freddo, non rinunciando a eco autobiografiche sulle esperienze degli anni sessanta, afferma Kasdan come cantore d’una generazione travolta dai compromessi degli anni ottanta e traccia un influente bilancio dei tempi che furono.
Ancora più intimo, Turista per caso ne mostra le doti ironiche e commoventi, poggiando la storia su un viaggiatore di professione che vive un lutto quasi insuperabile, mentre Grand Canyon e Mumford, mostrando le vite dei protagonisti che cambiano a causa di traumi e illuminazioni, anticipa senza volere la tendenza “new age”.
Le difficoltà di Kasdan nel ritagliarsi uno spazio nella Hollywood contemporanea sono da ritrovare nella rinnovata concezione del cinema spettacolare, che lascia poco spazio a personalità d’alto profilo autoriale (inoltre Kasdan produce i propri film).
Stranamente, L’acchiappasogni nasce come un progetto molto personale, di cui il regista cura adattamento e produzione ma – fatta salva qualche riconoscibile intuizione – moltiplica i dubbi sulla possibile convivenza tra questo autore e la grande produzione americana.

ROY MENARINI da Dizionario dei registi del cinema mondiale. Einaudi, 2005.


Filmografia.

Body Heat (Brivido caldo), 1981.
The Big Chill (Il grande freddo), 1993.
Silverado (Idem), 1983.
The Acciddental Tourist (Turista per caso), 1988.
I Love You to Death (Ti amerò…fino ad ammazzarti), 1990.
Grand Canyion (Idem), 1991.
Wyatt Earp (Idem), 1994.
French Kiss (Idem) 1995.
Mumford (Idem), 1999.
The Dreamcatcher (L’acchiappasogni), 2003.

Giovanni Lancellotti
Psicologo psicoterapeuta SCRIPT Centro Psicologia Umanistica

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