Hungry Hearts

Un film di Saverio Costanzo

Un breve commento di Alberto Lorenzini

Commentare questo bellissimo film di Saverio Costanzo non è per niente facile per me, perché mi mette di fronte all’abisso della follia con la stessa potenza di un’antica tragedia greca. L’unico commento veramente adeguato da parte mia sarebbe il silenzio. Perché questo? Perché il film mi porta sull’orlo del precipizio dove si smarrisce il senso della vita umana. La morte della protagonista e l’estinzione della tragedia attraverso questa soluzione assolutamente tragica stendono un velo di pietà sull’intera vicenda e chiudono le porte dell’inferno. Il Male ha ottenuto la propria vittima sacrificale e, per il momento, si è allontanato dalla scena e la vita dei sopravvissuti può finalmente riprendere (o cominciare). Il cervo che viene ucciso a fucilate nel sogno ricorrente di Mina rappresenta in maniera fin troppo esplicita l’anticipazione di questo finale, già scritto fin dall’inizio.

C’è un’unica, inevitabile incongruenza nel film: la grazia dell’incontro iniziale, la capacità di Mina di coinvolgersi e lasciarsi andare nell’amore, per poi impazzire improvvisamente nel corso della gravidanza e impostare un rapporto con il figlio che si preannuncia micidiale per lui, come sabbie mobili che non lasciano scampo. Ma non funziona così, la rigidità psicotica di Mina non può emergere dal nulla, e l’unica soluzione per salvare la coerenza narrativa del film è quella di pensare che la Mina che noi vediamo all’inizio sia quella filtrata attraverso gli occhi innamorati di Jude, che logicamente soffrono per una normale forma di cecità selettiva e non vedono i segni degli sviluppi futuri.

Il film offre una tale molteplicità di spunti per la riflessione psicologica, che non si sa quale scegliere e da che parte cominciare. Trovo magistrale l’interpretazione della follia da parte della Rohrwacher, che infatti le ha fruttato dei premi importanti, ma il mio cuore questa volta s’indirizza più volentieri verso gli altri personaggi della tragedia, tutti quelli che girano attorno a lei. Il contrario di ciò che accade, normalmente, nel mio lavoro di psicoterapeuta, forse perché qui sono proprio i familiari a trovarsi nella parte delle vittime, mentre la malattia chiude Mina nel ruolo di carnefice. Né Jude, né la madre di Jude, né, tanto meno, il bambino, possono essere ritenuti responsabili della follia di Mina, neanche in minima parte.

Jude è un personaggio straordinario, un padre e un marito amorevole che si barcamena come può nelle acque burrascose, o meglio nel tornado che si abbatte sulla sua vita. Sono assolutamente commoventi le scene di lui che si rifugia in chiesa per nutrire il bambino di nascosto dalla madre. È così vero il suo dolore che riesce perfino a fare breccia nel cuore dell’avvocato che, a suo rischio, gli spiega come fare per rapire il figlio e per dare una parvenza di legalità all’impresa.

Ma, ovviamente, il personaggio più straordinario di tutti è quello che a lungo si mantiene rispettosamente dietro le quinte, la madre di Jude. Qui la narrazione è davvero coerente, perché alle spalle di un uomo affettivamente così dotato colloca una madre eccezionale, una persona che verrebbe voglia di abbracciare per il coraggio e il sacrificio di sé che è disposta a compiere, allo scopo di salvare la vita al figlio e al nipote, oltre che l’anima a Mina stessa. Ciò che la mamma di Jude si racconta in carcere nel dialogo finale con se stessa è che, se non l’avesse uccisa, a questo punto in carcere ci sarebbe Mina stessa, a tormentarsi eternamente per aver ucciso il proprio figlio. Per questo si ripete di non essere affatto pentita della propria scelta, pur dovendola duramente pagare.

Dato che la mia lettura è questa, devo concludere che il film mi appare molto controcorrente, molto problematico, improntato a una forma di complessità irriducibile, cosa davvero non comune nei tempi che corrono. Fino agli anni Sessanta si sarebbe criminalizzata Mina e la si sarebbe rinchiusa, mentre in seguito, essendo cambiata la direzione del vento, si sarebbe ritenuta (e ancora oggi la si riterrebbe) meritevole di cure domiciliari, vittima di una malattia come tutte le altre, a carico del cervello, piuttosto che del fegato o dei reni. Due semplificazioni che il film di Costanzo non contempla affatto.

A questo punto, però, devo anche ammettere che si sarebbe potuta evitare la tragedia, se solo non fosse intervenuta la legge con la potenza di un elefante in un negozio di porcellane. A pensarci bene, proprio in questo modo il film ribadisce ancora una volta quanto le semplificazioni autoritarie possano essere deleterie nei casi problematici della vita. A quel giudice è mancata completamente l’idea di un approfondimento psicologico sui fatti che è stato chiamato a giudicare, ma è stata proprio quella mancanza a spingere la vicenda verso il suo epilogo tragico.

Alla fine, direi proprio che la psicologia spicca per essere la grande assente in tutti i momenti della tragica narrazione: non solo è mancato il suo lume nella mente del giudice, ma è solo nel dialogo con il pediatra che Jude mette a fuoco la drammaticità della situazione. Solo i problemi di ordine materiale appaiono realmente convincenti per lui, come lo stato di denutrizione, misurato in percentili di peso, mentre tutte le follie di Mina rappresentano delle semplici stranezze che è in grado di sopportare e di accettare con il suo amore, ma non di giudicare. La madre vede la follia di Mina come una forma di cattiveria e, di nuovo, è questa semplificazione ad armarle la mano. Mina, orfana dall’età di due anni, viaggia per il mondo come una mina vagante ed è da presumere che non solo Jude, ma nemmeno nessun altro prima di lui si sia accorto della gravità del suo disagio mentale e che nessuno le abbia mai consigliato di mettersi in terapia.

Concludo con la riflessione che, se pure l’elemento tragico è parte ineliminabile della complessità e dei limiti dell’esistenza umana, forse il ruolo della psicologia sarebbe proprio quello di evitare una buona parte delle tragedie che incombono sulle nostre povere vite. La vita è fatta anche di commedia, di gioia, di scoperta e di poesia e non solo di tragedia. La psicoterapia può fornirci un sostegno in caso di tragedia, ma soprattutto può evitare il precipitare di tante tragedie.


Le scelte di “SCRIPT”

di Mariangela Bucci

La scelta di “Hungry Hearts” come film da proporre per una lettura psicologica risale a più di un anno fa. Abbiamo rimandato in attesa di trovare una data giusta e questo ci ha permesso, come gruppo, di riflettere a tutto campo.

Certamente il tema centrale da cui siamo partiti è stato il rapporto simbiotico tra madre e bambino, quel rapporto che impedisce di vedere il figlio come altro da sé  e che rende, di fatto, impossibile rispondere ai suoi bisogni. Nei nostri studi molto spesso accogliamo figli, di tutte le età, che hanno fatto ed ancora fanno fatica a uscire da rapporti simbiotici con la loro madre e, di conseguenza, a definire la loro identità, a fare i conti con le scelte della vita e a dipanare la matassa per trovare il loro filo individuale, quello che, solo, li può portare alla realizzazione del vero Sé.

Mano a mano che la riflessione sul film continuava, in gruppo ma anche individualmente, mi sono accorta che il mio interesse si è spostato dal rapporto madre-figlio piccolo, dal tema del rapporto con il corpo e il cibo, all’ambiente ed alla tragedia scaturita proprio dall’ambiente che vuol dire tutto quello che ruota intorno alla diade madre-bambino.

Questa è una storia da film, si dipana con accorgimenti tecnici propri del mezzo cinematografico e la comunicazione dell’autore avviene attraverso numerosi canali; questa è una storia estrema, potremmo dire, ma, allo stesso tempo, il mondo in cui viviamo, le vicende che leggiamo sui giornali, quelle che avvengono a pochi chilometri dalle nostre case ed anche alcune di quelle che vengono narrate nei nostri studi, ci portano a dire che troppo spesso chi, anche suo malgrado, si trova invischiato in relazioni non sane, è solo davanti al rischio della tragedia.

In termini psicoterapeutici secondo la Terapia Centrata sul Cliente, se guardiamo alla scala del processo Terapeutico così come lo descrive Carl Rogers (  La Terapia Centrata sul Cliente, trad. italiana ,1970; Psicoterapia e Relazioni Umane, trad. italiana, 1970), potremmo collocare Mina nel primo stadio. Il primo stadio è quello in cui non è affatto facile che una persona richieda l’aiuto di uno psicoterapeuta; è lo stadio in cui si può incontrare uno psicoterapeuta perché spinti a farlo ma non c’è motivazione personale, non c’è consapevolezza del proprio malessere. Come dice, con chiarezza, Rogers, non sappiamo come fare evolvere una persona dal primo al secondo stadio del processo. Nel secondo stadio c’è, invece, l’inizio di un’apertura, seppure piccola, c’è la motivazione a chiedere aiuto.

Detto ciò, sembrerebbe che non ci siano speranze e possibilità per una persona che travolge una famiglia nella sua malattia.

Credo, invece, che possiamo aprire una riflessione che possa gettare una luce di speranza anche su una situazione così disperata.

Mina appare, da subito, in seria difficoltà; la scena della sera delle nozze, quando “vede” un cacciatore con un fucile in mano ed un cervo morente che è stato appena abbattuto, se ad una prima visione può sembrarci reale, mano a mano che analizziamo il film, sembra diventare un’allucinazione della protagonista. La sua reazione ad una gravidanza non del tutto desiderata ma accettata, evidenzia subito un comportamento alimentare restrittivo e malsano. La scena di Mina che parla con la veggente che le predice la nascita di un “Bambino Indaco”, e quella in cui lo riferisce a Jude, sono tra le  poche in cui la protagonista ride, appagata, nel tempo del percorso della sua gravidanza. Un bambino è un bambino, non c’è bisogno che sia speciale per provare felicità eppure questa sembra essere la realtà interiore di Mina che leggiamo attraverso le immagini del film.

Ci sono tanti segnali di un malessere, di uno scollamento della protagonista dal mondo reale che iniziano durante la gravidanza e diventano sempre più evidenti dal momento della nascita del figlio in poi.

Mina appare fragile, bisognosa di aiuto, e sicuramente potrebbe riceverlo se ne fosse consapevole e  se solo lo volesse, ma, allo stesso tempo, è forte, tenace, potente. Jude la asseconda, perfino il medico che l’ha seguita durante il parto le permette di prendere il bambino dall’incubatrice, andando contro le regole ospedaliere.

La madre di Jude usa parole forti nel parlare di lei “ Quella è pazza!”, dice, ma, in fondo, anche gli spettatori , ad una prima visione, possono pensare che sia un’estremizzazione , che forse le parole per descriverla potrebbero essere altre, non fosse altro che perché questa posizione, netta e dura, suscita in Jude un atteggiamento di protezione nei confronti della moglie “ Lei ha solo noi al mondo, capito?”.

Ci troviamo davanti al dramma di una potentissima vittima che, proprio per il potere che le viene dal suo ruolo, gioca una partita terribile che nessuno sembra in grado di impedire in modo efficace.

Se credo che Mina non sarebbe mai, volontariamente, entrata in uno studio di psicoterapia, credo che Jude  avrebbe potuto farlo, forse con una prospettiva che gli avrebbe permesso di difendere suo figlio, se stesso, e, alla fine, anche Mina.

Jude, guidato da sentimenti di amore, protezione, accudimento, nei confronti della donna che ama e non vuole perdere, finisce per perdere buona parte della sua lucidità; si concentra sul sintomo, gravissimo, cerca di salvare il figlio dalla morte per fame ma non vede sua moglie. Non prova mai a capire cosa c’è in quel comportamento, non legge mai la sua aggressività, cerca di esser ragionevole fino a che ne ha la possibilità ma il suo rifiuto di vedere come sta la madre di suo figlio, non gli permette di prendere nessuna contromisura veramente efficace. Anche quando porta il figlio in un’altra casa, invita Mina  ad andare a trovarlo quando vuole. Compie una serie di drammatici errori che contribuiscono grandemente al tragico esito finale.

Molto spesso, davanti alle tragedie di cui veniamo a conoscenza, e che spesso hanno a che fare con femminicidi e morte dei figli, assistiamo allo sguardo stupito di parenti, vicini di casa, datori di lavoro, colleghi. La domanda che pongo è: davvero, sempre , in ogni caso, non c’erano indizi che potessero legittimamente preoccupare? Davvero chi era più vicino ha fatto tutto quello che poteva  non necessariamente per guarire l’altro, l’altro è altro e noi non possiamo cambiare nessuno, ma per aiutare se stesso e chi, invece, poteva essere aiutato?

Nella realtà  i “Se avessi fatto, se avessi detto”, non ci aiutano a leggere la nostra storia perché sappiamo bene di non poter cambiare quello che è stato ma nella lettura di un film che ci rimanda a tragici casi della realtà, forse vale la pena chiederci se una maggiore consapevolezza di Jude, se la capacità di dare parole precise, esatte, a quello che sta avvenendo nella sua casa, a sua moglie ed a suo figlio, sarebbe stato di aiuto.

Leggere il comportamento di Mina come gravemente patologico, definire il figlio come primario soggetto da aiutare, anche a costo di provocare maggiore sofferenza alla madre, dare peso alle parole dell’avvocatessa che parla della necessità di avere prove,  proteggersi dalla inconsapevole aggressività di Mina che le permette di dare scacco matto a tutti, sarebbe stato un dovere, un dovere che poteva essere praticato solo da una persona che si fosse assunta l’onere, seppure con dolore, di entrare  profondamente in contatto con la sua realtà interiore e con quella  della sua vita.

Mariangela Bucci Bosco


Hungry Hearts

Commento di Giovanni Lancellotti

Regia e sceneggiatura: Saverio Costanzo. Fotografia: Fabio Cianchetti. Musica: Nicola Piovani. Montaggio: Francesca Calvelli. Scenografia: Amy Williams. Costumi: Antonella Cannarozzi. Suono: Nikolas Zasimczuk. Effetti speciali: Gotham FX. Interpreti principali: Adam Driver (Jude), Alba Rohrwacher (Mina) Roberta Maxwell (Anne, madre di Jude).

Italia, 2014, 109’.

Mina, (un’italiana a New York per lavoro) e Jude si conoscono nella toilette bloccata di un ristorante cinese, mentre lui ha disturbi intestinali.  Si sposano ed hanno un bambino.  Mina, che ha saputo da un’indovina che si tratta di un messianico bambino indaco, cade preda di ossessioni legate alla salute ed alla purezza del bambino, che deve essere preservato dalla corruzione e dall’impurità del mondo circostante.  Quando Jude si rende conto che questo significa anche un’alimentazione inadeguata e insufficiente per un corretto sviluppo psicofisico del figlio, si scatena una guerra psicologica in cui lui chiede aiuto di medici, assistenti sociali e della propria madre,  Sarà quest’ultima a trovare una soluzione tragica alla vicenda, uccidendo la nuora, perché non faccia morire di stenti il nipote. (1)

Fin dalla prima sequenza del film troviamo in nuce la definizione iconica di uno spazio claustrofobico (o meglio claustrofilico), che è la cifra ambientale di tutta l’opera, assieme ad una deformazione dei corpi (soprattutto di quello di Mina) e ad un’attenzione quasi maniacale per l’incombere della cinepresa sui volti e sui dettagli del volto, quasi come ci fosse un’incapacità, anche di ripresa, a collegare la figura con il tutto corporeo, la cui disgregazione negli adulti anticipa lo svilimento del corpo infantile.

Mina e Jude si trovano casualmente, perfetti sconosciuti, intrappolati nella toilette di un ristorante cinese di New York, la cui porta è bloccata.  Non hanno possibilità di uscire.  Jude ha disturbi intestinali, Mina avverte un puzzo insopportabile.  Anche la porta che dall’antibagno va nella toilette vera e propria si blocca.  Si crea una suspence quasi surreale, percorsa da tratti ironici e lievemente minacciosi e paurosi.  Le telefonate di Jude agli addetti del ristorante sono reiterate e, finalmente, arriva un cameriere che, per aprire, sfonda la porta, affermando poi trionfalmente “apelta”.

La sequenza è un insieme di più strati, probabilmente girata con la macchina a mano impugnata dallo stesso regista, Saverio Costanzo (2). La cinepresa è come schiacciata sulla quarta parete ed è come terzo personaggio che cerca di trovare spazio per sé, accentuando ancora di più l’angoscia spaziale, da cui si può uscire soltanto con un maldestro intervento esterno.  Tutto il film è girato, inusualmente, su pellicola 16 mm.

I due personaggi hanno già ipotizzato la loro storia, in un proemio sintetico, di prigionieri di una realtà asfittica che, anche se con diversi ruoli, svilupperanno analiticamente.

Pochissime sono riprese in esterni, nelle strade della città, in scene disturbate visivamente dal traffico e col sonoro dei rumori delle auto che sovrastano tutto il resto.  In due sequenze i personaggi  Mina e Jude sono in esterno sul tetto-terrazzo di un grattacielo . La cinepresa è molto lontana e in alto, l’impressione è che sia il fucile di un cecchino che prende la mira sulle figure umane, quasi un presagio di interruzione di vita.

Dopo la sequenza iniziale, c’è una fuga in avanti del tempo narrativo e i due giovani vengono inquadrati sdraiati nello stesso letto, ripresi di schiena.  L’inquadratura è semibuia, i due sono addormentati ed è come si trovassero in fondo ad un pozzo.  La profondità di campo è “a precipizio”, le immagini dei corpi sono schiacciate sul piano del letto, come se Mina e Jude fossero esseri viventi in una gabbia verticale.

La storia d’amore è all’inizio e la vicenda si svilupperà con un ordine sequenziale temporale progressivo, senza flashback o flash-forward.  Il flusso narrativo da racconto è interrotto soltanto da un incubo  di Mina (presentato come un piano narrativo della realtà, soltanto nella sequenza successiva abbiamo la notizia che era un incubo ricorrente).  Nel sogno si ode uno sparo e si vede un cervo morto e una figura maschile, in un ambiente notturno, in esterno e controluce, con in mano un fucile che si allontana.  E’ la materializzazione delle angosce di Mina di fronte alla vita.

Il seguito della narrazione racconta di una giovane madre ossessionata dal mantenere “puro” il proprio figlio, cioè incontaminato da pericoli alimentari e della tecnica quotidiana che, per Mina sono emblematici della invasione impura della vita quotidiana (comprese le visite mediche e i contatti fisici del bambino con persone al di fuori dei genitori).  Ragion per cui il bambino è alimentato dalla madre con cibi rigidamente vegani e in quantità insufficienti alla crescita normale.  Intervengono il marito e la suocera, ma a nulla valgono le loro preoccupazioni di fronte alla spada determinata dell’ascesi purificatrice, brandita dalla madre, forte anche dell’ “annunciazione”, da parte di una veggente, che il suo bambino sarà “indaco”, venuto dalle stelle e portatore di una straordinaria eccezionalità.

Nel finale del film la madre di Jude ucciderà la nuora, per salvare la vita del bambino.  In una delle ultime sequenze la nonna del bambino (bambino senza nome, perché è soltanto un’emanazione simbiotica della madre e non un individuo, e perciò “innominato”) afferma che, se non avesse ucciso Mina, sarebbe stata la madre stessa a subire il carcere.  Una vita comunque avrebbe dovuto patire per “permettere” ad un’altra vita di sopravvivere o morire.

La vicenda può essere letta come una funebre odissea di una ragazza diventata improvvisamente madre (tra l’altro con una scelta non proprio volontaria) che vive come una natività negativa l’entrata della maternità nella sua vita:  un evento che la costringe ad entrare in contatto col “fuori”, con la realtà e, in questo processo, il suo Io vive una drammatica crisi “strutturale”. (4)

Il mondo è impuro, difficile ostile, per questo il bambino va fortificato, favorendo il sorgere di difese interne e non alimentandolo adeguatamente dall’esterno (con proteine derivate dalla carne).

Sarà una strada senza uscita, perché la incapacità di vedere che l’ansia di estrema purezza è portatrice di consunzione  condurrà la madre sul sentiero della follia, sviluppando una parte malata di amore materno, che trasforma un atto di dono della vita (la nutrizione di un infante) in una costrizione al possesso, che annulla l’esistenza dell’altro.

Il percorso di questa tragica sovversione della pietà, all’interno dell’iter narrativo filmico, è preannunciato da diversi segnali: il rifiuto dell’intrusione dell’ecografia, l’ostinazione a voler partorire naturalmente anche se è molto rischioso (il rifiuto di un cesareo necessario), l’aggressivo avvicinamento al neonato in incubatrice, perché il figlio deve essere “necessariamente stretto tra le braccia della madre, anche se non è ancora il caso, la nutrizione inadeguata in qualità e ristretta in quantità (e soprattutto l’assenza di carne, vissuta come impura e pericolosa. Lo spettro della carne è evocato dallo svenimento della madre di fronte alla vista di un barbecue in funzione).

Il fondamento della vicenda è contenuto nella irruzione di un “fuori” (la gravidanza, la maternità) che deve essere contenuto in un “dentro” (il nesso indivisibile e simbiotico madre-bambino e l’appartamento visto come uno spazio fobico nei confronti della presenza di estranei e, alla fine, anche dello stesso padre).

Il bambino di Mina (con qualche riferimento cinematografico a “Rosmary’s Baby” (3) di Polanski) diventa una vittima sacrificale di fronte all’oscurità della città e tutta la vicenda ha leggere caratteristiche di una trama horror, di trasformazione vampiresca (il bambino di Mina come preparazione rituale della morte della madre, all’interno di uno sviluppo vitale tenuto violentemente fermo).

Di seguito, a conclusione di questo breve scritto,  riportiamo in forma parziale due giudizi critici che ci sembrano cogliere particolarmente il nucleo fondamentale del film:

“Cuori affamati d’amore tanto da pervertire una mater benevola in mater terribilis. Lo spazio che intercorre tra queste due condizioni dell’essere è così sottile che lo sconfinamento è quasi inevitabile.  Per ogni madre, del resto, il proprio figlio è speciale, prezioso nella sua fragilità; per qualcuna resterà sempre una creatura indifesa, da proteggere con affetto smisurato che può diventare addirittura squilibrato: cieca furia vendicatrice che spinge oltre i limiti le tensioni del dramma familiare, tingendolo di nero, di profondità abissale”.  (5)

“Mina è tutt’uno col corpo del figlio e, al contrario, riproduce all’infinito il mondo d’acqua della gestazione: raccolta, avvolgente, dentro uno spazio chiuso, protetto, in penombra, in silenzio.  La materia, la solidità, la resistenza sono escluse, sia che si tratti di “altro” cibo sia che si tratti di spazio.  Nessuna scissione, nessun parto, ricerca spasmodica del fluido prenatale: questo corpo di donna non vuole separarsi dalla creatura, non vuole lasciarla ad altri contenitori, anche nel momento del parto, anche nel caso dell’incubatrice che accoglie il neonato sofferente.  (…) Nel prefinale, prima dell’estremo gesto di rottura che soltanto un’altra madre può compiere, Mina con il figlio sul ventre accompagna le onde lievi dell’oceano in una dolce danza: al confine tra terra e mare tutto si mescola in un abbraccio assoluto prima di affidare al padre il compito di mettere distanza, di recidere il cordone, di andare lontano, fra gli altri, alla luce del sole”.(6)

  1. Il film è tratto dal libro “Il bambino indaco” di MARCO FRANZOSO, Einaudi, 2012.
  2. SAVERIO COSTANZO (Roma 1975).  Filmografia: “Private” (2004), “In memoria di me” (2007), “La solitudine dei numeri primi” (2010), Hungry Hearts” (2014). Televisione: “In Treatment”, serie TV 82013-2017), “L’amica geniale”, serie di telefilm, programmata a fine Novembre 2018 su RAI !.  Documentari: “Caffè Milleluci, Brooklin New York”, 1999.  “Sala rossa”, 2002.  La rivista CINECRITICA, n.77 Gennaio-Marzo 2015, ha dedicato ampio spazio ad un’analisi delle opere del regista.
  3. Se teniamo come punti di vista per l’interpretazione di Hungry Herts le tematiche della paranoia per la purezza, della protezione  verso le minacce del mondo esterno e del disagio della maternità, possiamo elencare alcuni film che presentano analogie con l’opera di Saverio Costanzo, anche naturalmente in presenza di notevoli diversità: BUG di William Friedkin (2006), SAFE di Boaz Yakin (2012), THE SHELTER di Jeff Nichols (2011), TUTTO PARLA DI TE  di Alina Marazzi (2013), QUANDO LA NOTTE di Cristina Comencini (2011), LO SPAZIO BIANCO di Francesca Comencini (2009), MATERNITY BLUES di Fabrizio Cottani (2011), PRIMO AMORE di Matteo Garrone (2004).
  4. In questo breve scritto, e in modo non approfondito, ho cercato di riflettere sull’ambiguità del sentimento materno di Mina e sugli ostacoli da lei posti a che una realtà esterna ed altra potesse fare parte del suo rapporto col figlio. La mia collega Mariangela Bucci ha soprattutto, ma non soltanto, analizzato le carenze di natura sociale che hanno impedito di accogliere la madre in un processo di cura della sua follia e il mio collega Alberto Lorenzini ha centrato il focus sulla simbiosi madre-figlio. Entrambe queste riflessioni sono pubblicate sul sito di SCRIPT Centro Psicologia Umanistica.
  5. MATTEO MARELLI.  “un nodo inestricabile in CINEFORUM rivista n.541, Gennaio-Febbraio 2015.
  6. DANIELA ZANOLINI.”Corpo di donna” in SEGNOCINEMA rivista N. 192, Marzo-Aprile 2015.

Giovanni Lancellotti

Psicologo-psicoterapeuta

giovannilance@alice.it

 

 

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