Il caso che intendo presentare riguarda una cliente che oggi ha quarant’anni ed è in terapia da cinque. La chiameremo Anna, con un nome che spero le piacerà.
La storia di Anna è molto più ricca di quello che emergerà da questo scritto che ha lo scopo di evidenziare come il recupero della memoria emotiva di eventi significativi può incidere nella psicoterapia. Fare diventare esplicito quello che è implicito è un punto fondamentale della autoconsapevolezza che come psicoterapeuta rogersiana perseguo anche se, proprio nell’ottica di questo approccio, il Cliente non viene sollecitato ad andare lì dove non vuole andare fino a che non sceglie liberamente di farlo, quando, cioè, sente di potere abbassare le difese anche davanti agli episodi più dolorosi della propria vita. Attraverso l’empatia e l’accettazione incondizionata si svolge un percorso che ha tempi diversi secondo la persona di cui diventiamo “compagni di viaggio” nel viaggio nel proprio sé che chiamiamo psicoterapia.
Anna aveva già delle esperienze precedenti di psicoterapie analitiche, la prima si era conclusa con un agito, se n’era andata senza pagare le ultime sedute, quella successiva si era interrotta perché Anna si era trasferita in un’altra città. Quando è arrivata da me ha dichiarato subito la consapevolezza del fatto che il trasferimento era stato una buona occasione per chiudere anche quel rapporto terapeutico.
Si è presentata, quindi, con un’immagine d’inaffidabilità dichiarata che, nel primo anno di terapia, era confermata dalla tendenza a saltare sedute in modo ciclico.
Le ragioni per cui aveva richiesto le prime terapie erano stati sintomi ansiosi ed attacchi di panico, che non erano mai del tutto scomparsi.
Anna ha portato inoltre una storia di vita sofferta: lei figlia maggiore, una sorella di qualche anno più giovane, una coppia genitoriale conflittuale, un padre molto assente perché aveva lavorato all’estero per lunghi periodi, una madre vittima, abbandonata, tradita, e che aveva vissuto per la famiglia, soprattutto per tenerla insieme, nonostante i tradimenti del marito.
A me appariva una persona con un umore depresso, sempre pronta a ritirarsi per paura di scoprire il suo poco valore e con l’atteggiamento, anche fisico, di chi è sempre in guardia. Anna guardava il mondo con gli occhi spalancati non dallo stupore ma dal timore di non accorgersi degli eventuali pericoli che da quel mondo potevano arrivare. Il suo bisogno di controllo passava attraverso il suo modo di guardare.
Riferiva che, in momenti cruciali della sua vita, si era sentita sola, parlava di un breve periodo trascorso in collegio perché sua madre potesse raggiungere il marito e scongiurare il pericolo di una rottura familiare, parlava, in modo ambivalente, di un trasferimento della famiglia piuttosto lontano dal precedente luogo di residenza. Era stato uno dei più bei periodi della sua vita ma, ancora una volta, gli altri avevano deciso per lei senza neanche pensare di interpellarla.
Riconosceva l’impatto emotivo che queste scelte degli adulti avevano procurato in lei, c’era una consapevolezza dei nodi, c’era memoria degli eventi e non sembrava che ci fosse molto altro da far emergere, rispetto a quei vissuti d’abbandono e sradicamento di quando era bambina.
Con Anna avevamo un accordo di una terapia che sarebbe durata intorno ai due anni.
Passati i due anni, però, continuava a portare uno scontento che passava dalla vita matrimoniale alle opportunità di lavoro e ad una marcata difficoltà a cogliere gli aspetti positivi di quello che la circondava. Allo stesso tempo non accennava alla possibilità di interrompere la terapia, anche se aveva chiesto di rallentare la cadenza dei colloqui per ragioni economiche reali.
Il primo evento che ha dato una svolta significativa alla terapia è stato una crisi matrimoniale, dovuta al tradimento da parte del marito. Il tradimento era doppio, se così si può dire, in quanto la terza persona era la sua migliore amica.
Questa è stata la prima fondamentale possibilità per entrare in contatto con emozioni del qui e ora che riaprivano la memoria di vissuti passati. In un modo che appariva paradossale per lei stessa, il tradimento dell’amica causava, a tratti, più dolore di quello del marito e faceva emergere stati d’animo che andavano dall’ansia all’angoscia. Il marito doveva essere punito; le peggiori litigate avvenivano di notte, quando il cedere al sonno faceva emergere paure d’abbandono, rabbia e aggressività.
Dopo pochi mesi ad Anna era chiaro che, se il tradimento di per sé aveva causato dolore e paure, quello che maggiormente le impediva di andare avanti in modo costruttivo, nonostante le rassicurazioni del marito, accompagnate da comportamenti assolutamente congruenti, era il suo caricarlo di colpe che erano di altri: il padre traditore, innanzi tutto, e la paura devastante dell’abbandono.
Ecco che cominciava ad emergere in modo chiaro una maggiore ricchezza di memoria che la portava ad essere in contatto con una verità diversa da quella delle pene riconosciute ed elaborate fino ad allora.
Anna stava riconoscendo i propri modelli operativi interni e verificava quanto l’immagine di sé e le sue aspettative rispetto agli altri stavano informando, da molto tempo, le sue relazioni affettive, sia di coppia sia amicali.
La memoria degli eventi infantili era diventata il suo stile di attaccamento, e da qui il suo modo di guardare a se stessa e agli altri.
Il secondo episodio, che ha segnato in modo fondamentale la terapia, è avvenuto lo scorso anno, quando la sorella di Anna è stata ricoverata in psichiatria, per una crisi psicotica.
La paura di impazzire, sempre latente, a volte mormorata, ma mai affrontata, è esplosa in modo destabilizzante, quando la sorella aveva ormai superato la crisi e stava facendo un percorso farmacologico e psicoterapeutico con risultati molto incoraggianti.
L’avvicinamento tra la madre e la sorella, l’angoscia di essere lasciata sola, l’orrore di dover essere ammalata e fragile per essere amata, sono esplosi, riportando alla memoria l’immagine di sé come bambina cattiva, quindi non amabile e a rischio di abbandono, e la rabbia nei confronti della madre, amata e detestata, vittima e carnefice; e ancora l’immagine di sé fragile e da proteggere ed amare, oppure forte, e quindi non bisognosa di cure e, di conseguenza, non amabile.
La memoria, a questo punto finalmente ricca di significati dell’oggi e del passato, spinge ora Anna a voler essere forte, capace di darsi gioia, senza temere di dover pagare il prezzo della follia e della malattia, o dell’infelicità per potersi sentire amata.
Gli occhi di Anna comunicano, oggi, emozioni che non sono più solo di paura ma anche di allegria, ironia, dolore e, soprattutto, curiosità rispetto al suo futuro.

Mariangela Bucci Bosco

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